lunedì 26 febbraio 2007

Il miracolo sbagliato


(venerdì 17 novembre 2006, copyright Ore Piccole)


Ora, un uomo ricoverato al decimo piano di un ospedale vola dalla finestra ma, invece di atterrare squacquerato, come se niente fosse si rialza e se ne va: indubbiamente è un miracolo. Accade miracolosamente a pagina 291 del giallo semi-horror dello svedese John Ajvide Lindqvist, Lasciami entrare (Marsilio, 2006) e l’autore stesso considera che di sicuro si trattava non di un miracolo del tipo caro al Vaticano, ma di un miracolo in ogni caso. Si tratta di un miracolo avverso al Vaticano non già perché la Svezia sia notoriamente un covo di protestanti, ma perché l’evento, apparentemente buono o - meglio ancora - buono in sé (la sopravvivenza di un malato in circostanze più che estreme), è in realtà lo snodo di tutta una catena di malefici.
Ora, io sono un lettore logorroico che quando ha per le mani un romanzo ne parla continuamente e non parla d’altro, lo utilizza come strumento di tortura sugli amici, ne consiglia o sconsiglia la lettura solo dopo averlo scandagliato in ogni particolare secondo la migliore tradizione orale. Questo, oltre ad alienarmi l’affetto di svariate persone, è uno dei due motivi che mi precludono la lettura dei gialli, dei thriller, degli horror e di tutti gli altri romanzi in cui la trama sia preminente e il fattore sorpresa fondamentale (l’altro motivo è che mi spavento a morte, non dormo per settimane e vado in giro con certe occhiaie che tutti ritengono dovute a una solipsistica iperattività sessuale). Di qui mi deriva infatti la difficoltà di parlare adeguatamente di Lasciami entrare, che come tutti i (buoni) gialli va nascosto sotto un velo d’ignoranza che sta al lettore sollevare: di botto se corre a leggere l’ultima pagina per scoprire se l’assassino è il maggiordomo (nel romanzo di Lindqvist non ci sono maggiordomi, quindi possiamo stare tranquilli), oppure di soppiatto se ama lasciarsi trascinare da quello che Jane Austen, la sorellina che non ho mai avuto, definiva la rivelatrice diminuzione delle pagine da leggere.
Ora, John Ajvide Lindqvist sa benissimo come si cucina una trama: si prendono una storia inquietante che atterrisca i lettori (non svelo nulla che non sia già scritto in seconda di copertina: il ritrovamento del cadavere completamente dissanguato di un ragazzo) e una storia tenera che invece li rassicuri (il dodicenne Oskar sogna la rivalsa nei confronti dei bulletti che ogni giorno lo tormentano a scuola); le si alterna per un numero di pagine sufficiente a creare interesse, partecipazione e mistero nei confronti di entrambe e poi - Lindqvist lo fa piano piano, come se non volesse che ce ne accorgessimo - le si mischia con l’intervento di una terza storia che faccia da ponte. La vera protagonista dunque del romanzo arriva solo con ritardo facendosi attendere come le vere primedonne, sebbene non abbia più di dodici anni e sebbene sia schiva, esile, flebile. Si chiama Eli, conosce Oskar, diventa la sua prima amica e quasi necessariamente la sua prima amante (è un termine grosso per quell’età ma mi piace esagerare). Poiché il romanzo è un giallo e poiché i gialli devono sfidare il lettore alla ricerca del colpevole (è l’antico rito del capro espiatorio: la gente li legge prima di addormentarsi perché gode della rasserenante catarsi, solo io non catartizzo nulla e ho paura di tutto, anche di ET), appare subito evidente che l’improvvisa apparizione di Eli debba essere la soluzione del mistero, ma non è facile capire come. Io lo so. Non posso scriverlo.
Ora, se Lasciami entrare fosse solo un giallo morto lì, nell’impossibilità di rovinare la sorpresa aggiungendo altri elementi rivelatori dovrei chiudere qui la recensione con gran sollievo di chiunque mi legga, ma per fortuna dietro il giallo c’è un romanzo che avrebbe potuto stare in piedi anche senza bisogno del mistero. È innanzitutto il romanzo di Blackeberg, periferia est di Stoccolma, e delle sue claustrofobiche storie in miniatura in cerca di una vita decente; ma è anche il romanzo dell’autunno 1981 (a voler fare i pignoli, dal 21 ottobre al 13 novembre), che l’autore rende più freddo non solo col clima (Se qualcuno vuole prendersi la briga di controllare com’è stato il clima durante il mese di novembre del 1981, scoprirà che fu un inverno insolitamente mite: mi sono preso la libertà di abbassare la temperatura di diversi gradi) ma quasi privando d’anima ogni singolo personaggio, e lasciando che le parole di ognuno, nel tentativo di rapportarsi all’altro-da-sé, suonino come un grido disperato.
Ora, nei libri ognuno trova quello che cerca e, se guarda bene, vede la propria immagine riflessa. Tuttavia non è necessario essere maniaci depressivi come me per rendersi conto dell’inumanità dei personaggi di Lindqvist: ne sia la controprova il fatto che Oskar, il giovanotto al quale si è naturalmente portati a sentirsi più vicini, è soltanto un abbozzo di uomo, ritardato quasi deforme e animalesco, tanto che con avendo l’amicizia in maggior spregio della verità i suoi coetanei preferiscono chiamarlo “maiale”. L’identità di Eli è altrettanto incerta e lo stesso Oskar serberà numerosi dubbi fino all’ultima pagina e forse oltre. Il deuteragonista che viene mostrato nell’atto di uccidere il primo giovanotto (uffa, la trama torna sempre a galla) è forse il personaggio delineato meglio, grazie anche ai brevi capoversi in corsivo e in prima persona che ne forniscono il monologo interiore, ed è fra tutti il più inquietante perché ha una forma pienamente umana che perderà progressivamente. La residua varia umanità che circonda i tre personaggi principali è talmente spoetizzata, disperata, vacua da apparire in toto disumana.
Ora, il disumano porta sempre con sé il sovrannaturale: se tutto fosse lineare, se non ci fosse la possibilità inquietante di un non-uomo, non ci sarebbe nemmeno la possibilità di derogare alle leggi di natura. Invece l’umanità in attesa (della salvezza - come tutti, nevvero, cantiamo nell’inno delle lodi mattutine) in Lindqvist diventa umanità disattesa, sottratta, negata: e qui, come ho accennato all’inizio, entra in gioco il miracolo. Se qualcuno sapesse un po’ di latino (possibilmente più di me) potrebbe ricordare che in quella lingua meravigliosa miraculum significa non tanto evento straordinario, sovrumano, in senso di solito positivo (quelli che appunto Lindqvist chiamerebbe miracolo caro al Vaticano), ma soprattutto cosa inaudita, sconvolgente, nel senso di mostruosità; in epoca più tarda (sto chiaramente inventando) il termine miraculum è giunto perfino a significare corpiciattolo deforme o informe, generalmente femminile, con poco lusinghiera connotazione sessuale - e la figura di Eli, chiave di volta del romanzo, corrisponde a questa definizione tanto perfettamente da far sospettare che Lindqvist avesse ben presente questa coincidenza etimologica. Qualora anche non fosse avvezzo al Forcellini (Lexicon Totius Latinitatis), Lindqvist chiama spesso in proprio aiuto la miracolosità, ma sempre in maniera distorta o sminuita, parodie di miracoli piuttosto: durante una predica sulla nube di fuoco che guida gli ebrei nel deserto, un ragazzino getta un fumogeno nel fonte battesimale e il celebrante è convinto che sia un segno divino; quando Oskar torna a scuola, terrorizzato, vede che il miracolo è avvenuto, i suoi compagni di classe invece di vessarlo lo lasciano passare aprendosi in due ali come il Mar Rosso.
Ora, Lasciami Entrare è un romanzo a doppio taglio. È scritto per essere letto dall’esercito di lettori professionisti di gialli, quelli che si lasciano cullare dall’adrenalina prima di sprofondare nel sonno del giusto, ma può attrarre anche gentaglia come me (chiesero a Nino Manfredi: “Lei è giusto?”; rispose: “No, sono sbagliato”) avvezza a scansare le trame come se fossero d’impiccio. L’importante è che loro non restino spaventati dalla troppa introspezione (ma non accade) e che io non mi spaventi troppo a leggere di vampiri. Uffa, alla fine l’ho detto; ma tanto è scritto pure in seconda di copertina.Ora basta, tento di riprendermi il sonno che l’angoscia mi ha tolto.

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