lunedì 26 febbraio 2007

Apologia del milanismo triste

(sabato 4 novembre 2006, copyright Il Resto del Pallone)

Troppa grazia: non c’era bisogno di perdere il derby già nel primo tempo, subire quattro goal, quindi ammannire una sensazionale rimonta, infine perdere nuovamente e definitivamente il derby - tutto nella stessa serata, tutto nel giro di novanta minuti più recupero e intervallo. Non c’era bisogno di tutto questo per immalinconire il tifoso milanista, che di suo è già immalinconito abbastanza: non perché pretenda di vincere sempre, ci mancherebbe (lo sa persino Galliani che in fin dei conti è impossibile), ma perché l’avveduto tifoso milanista sa di essere vittima di un’ingiustizia storica.
No, deponete le armi, avete capito male: l’ingiustizia storica non è il mancato sconto ricevuto dall’arbitrato del CONI, né la confusa assegnazione degli ultimi due scudetti senza degno padrone, né la Coppa dei Campioni persa non s’è capito bene come contro l’Olympique Marsiglia, né il campionato vinto dal Napoli con la famigerata monetina di Alemão. L’ingiustizia storica di cui è vittima il tifoso milanista è più profonda e ha sapore nazionalpopolare: consiste nell’essere vittima di un luogo comune che vuole perdente, da sempre e per sempre, la dirimpettaia Inter. Invece non solo questo campionato sta dimostrando l’esatto contrario (è eivdente, è l’anno dell’Inter); peggio: da anni il tifoso milanista è costretto a portarsi dentro un inestinguibile male oscuro ma ogni mattina, aprendo la Gazzetta o il CorSport, vede le attenzioni mediatiche tutte dedicate a lenire, con l’affetto o con l’ironia, le sofferenze nerazzurre. E così ci soffre, il milanista, come un adolescente innamorato che si sente spiantato dal centro della famiglia, oscurato nell’attenzione dei genitori dal fratello ancora bambino che per farsi notare dà gran capocciate contro gli spigoli.
Il fatto che sia io stesso un tifoso del Milan (piuttosto depresso, per la verità) non mi impedisce di giudicare serenamente un dato oggettivo: sulle sponde del Naviglio, i veri perdenti siamo noi. Permettetemi di usare la prima persona plurale: abbiamo vinto tutto con Nereo Rocco; abbiamo vinto tutto con Arrigo Sacchi; abbiamo vinto quasi tutto con Fabio Capello e abbiamo vinto quasi quasi tutto con Carletto Ancelotti. Motivi di soddisfazione ne abbiamo a bizzeffe: volendo, potremmo essere felici come un padre di famiglia con un buon lavoro, una bella moglie e un’auto elegante. Macché: dentro di sé, ogni tifoso milanista resta un eterno adolescente irresoluto, che durante le partite contempla la sconfitta, o la possibilità della sconfitta, come il padre di famiglia, durante la cena, si perde nel vuoto e non vede più la propria ragionevole felicità.
Non ci crederete, penserete che il milanista ami riposare sugli scudetti a frotte e sulle Coppe dei Campioni in abbondanza e perfino su una Mitropa Cup (1982): niente di più falso. Io, milanista qualunque, posso sgranarvi davanti tutto un rosario di gloriosi fallimenti. Vado a memoria: a parte il derby dell’altro giorno, il primo che viene in mente a tutti è la finale di Instanbul contro il Liverpool; poiché ve la ricordate, è inutile rinnovare la sofferenza tornando a raccontarla. Il luciferino avvocato Peppino Prisco, a questo punto, godrebbe nel ricordarmi le due retrocessioni in B, “la prima pagando, la seconda gratis”. E le due fatali Verona dove le mettiamo? Non so se fu peggio la prima o la seconda volta, quando perdemmo con l’unico goal italiano di (chi se lo scorda più?) Victor Hugo Sotomayor. Poi i rovesci clamorosi: lo 0-2 intercontinentale contro gli allegri tanghisti (tangheri?) del Velez Sarsfield, lo 0-3 contro il Bordeaux nella UEFA del 1996, l’1-4 contro il Napoli nel 1989, lo 0-4 a La Coruña nella Champions 2004, lo 0-4 contro la Lazio nella Coppa Italia dello stesso anno, lo 0-5 contro la Roma nel maggio 1998, l’1-6 contro la Juventus nel 1997 - e qui mi fermo perché il cuore potrebbe non reggere. Il peggio del peggio, ancora: la squadra già mezza eliminata e improvvisamente ritirata dalla Coppa dei Campioni 1991 perché s’era rotto un faro dello stadio di Marsiglia. Né posso passare sotto silenzio le piccole sconfitte, peccati di poco conto ma scolpiti nel cuore del tifoso quotidiano: lo 0-1 contro il Bari nel 1995, l’1-2 in casa contro il Lecce nel 1997, lo 0-2 contro il Parma nel 1991, lo 0-1 contro la Sampdoria nello stesso campionato. È indubbiamente un palmares da perdenti di successo.
C’è una partita che sintetizza il triste destino del Milan: marzo 1993, a San Siro, Milan-Parma 0-1, con rete su punizione di Asprilla: erano i cosiddetti Invincibili, che non perdevano da cinquantotto partite di fila. Quella contro il Parma sarebbe stata la cinquantanovesima ma la sconfitta fu quasi un sollievo, poiché proseguire nella striscia avrebbe significato un’altra settimana di trepida attesa di questo rovescio che prima o poi sarebbe arrivato, non poteva non arrivare, perché non si poteva vincere sempre, nessuno resta immacolato in eterno (appunto, lo sapeva pure Galliani). Nell’elica del proprio DNA il Milan porta scritto soffri e sii grande.Troppa grazia, infine: non c’era bisogno di dominare l’Anderlecht giocando con un solo calciatore (Kakà, per chi non se ne fosse accorto) per poi lasciar disinvoltamente trascorrere un quarto d’ora di angoscia in cui si materializzava l’ombra allungata della nostra stessa grandezza, la nera sconfitta dei favoriti, la depressione figlia dell’entusiasmo. Non ce n’era bisogno perché l’immalinconito tifoso del Milan conosce a memoria il paradosso che lo insegue: siamo talmente forti da rischiare di perdere qualsiasi partita.

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