lunedì 26 febbraio 2007

Eternal Sunshine of the Spotless Mind, ovvero Se scrivi ti cancello


(sabato 4 novembre 2006, copyright Ore Piccole)


Sono pacifico come un bue sazio. Le mie ottantatre amiche sanno benissimo che non litigo mai con nessuno, né tanto meno mi metto in cerca di risse verbali o fisiche; non ho mai avuto la minima intenzione di fare proseliti, non voglio convincere nessuno ad approvare i miei pensieri o a seguire le mie convinzioni, né mai ho nutrito la speranza che parlare con me possa servire a persuadere qualcuno: se è più intelligente lui, non cambierà idea perché non mi troverà alla sua altezza mentre, se sono più intelligente io, non cambierà idea perché non mi capirà. Ancor meno ho mai sognato di scrivere qualcosa di irrefragabile o di inconfutabile; non spero che una sola parola di ciò che scrivo possa essere necessaria a un miglioramento (o a un peggioramento) del mondo circostante e soprattutto non ho mai voluto, per partito preso, abbracciare con la mia scrittura un qualsiasi impegno di sorta: amo soltanto il vacuo rumore di parole e se faccio polemica non è per sentirmi dar ragione ma per fare un po’ di caciara, per passare il tempo, per annoiarmi un po’ meno in questa valle di lacrime traboccante di ragazzine malvestite.
Sono pacifico come un buddista morto, ma oggi voglio fare un’eccezione perché mi sono adombrato, preoccupato, quasi un po’ arrabbiato, e quindi una tantum mi metto a scrivere spinto da un desiderio intimo e non solo per sentir rimbalzare i polpastrelli sulla tastiera. La scorsa settimana, invece di provvedere a combinare something wild and crazy secondo i materni suggerimenti della mia amica anglo-canadese, ho trascorso le ore e i giorni a leggere la traduzione italiana del più bel romanzo dell’ultimo quarto di Novecento, che avevo già abbondantemente letto e goduto nell’originale inglese. Ci ho pensato, ci ho ripensato, e ho deciso che fosse il caso di dare un minimo apporto alla sua scintillante bellezza con la consueta recensione interminabile incomprensibile e irritante su Ore Piccole, così da far venderne ottimisticamente una o due copie in più; se non che allora ho avuto la conferma che internet è il demonio. Se non ci fosse stato internet, se non avessi avuto la possibilità di consultare più cataloghi librari sparsi per il mondo come le tribù di Giacobbe, non avrei mai avuto la consapevolezza che il romanzo più bello dell’ultimo quarto di Novecento non esiste più, è fuori commercio. La conoscenza, lo insegna Genesi 3, 22 (controllate), costituisce il male radicale e la rovina dell’uomo; la strisciante tentazione di trascorrere metà mattinata alla ricerca di un catalogo per quanto inaffidabile e ingannevole che mi consolasse, che mi rivelasse come il romanzo più bello eccetera eccetera fosse ancora possibile a ordinarsi in qualche libreria italiana o estera, mi ha precipitato nella più cupa disperazione e al contempo mi ha spinto a prendere il primo impegno serio della mia vita. L’Inghilterra deve tornare a pubblicare Earthly Powers di Anthony Burgess (Vintage Classics, 1980); l’Italia deve ripubblicarne la traduzione, Gli Strumenti delle Tenebre (Rizzoli, 1983).
Il mio timore è che il libro sia sparito perché è troppo denso e troppo difficile; e per di più che abbia contribuito alla sparizione il sospetto che fosse un romanzo in fin dei conti leggero e facile, nonostante la mole e il tema, perché uscito dalla sovrabbondante penna di un autore estraneo e allergico a ogni sorta di intellighenzia. Non so in Inghilterra, ma in Italia c’è un certo pregiudizio nei confronti di Anthony Burgess, che porta a ignorarlo; se andate in libreria, lo trovate ridotto ad essere l’autore di Arancia Meccanica e basta là; se proprio approfondite, scoprirete che ha scritto con Suso Cecchi d’Amico la sceneggiatura del Gesù di Nazareth di Zeffirelli. Burgess, invece, è molto altro: ha pubblicato trenta e passa romanzi; due volumi di autobiografia (Little Wilson and Big God e You’ve Had Your Time); un libro per bambini; un’antologia di letteratura inglese per le scuole italiane (They Wrote in English); spartiti, musical, poesie; saggi sulla letteratura inglese (The Novel Now); si è addirittura cimentato in A Shorter Finnegans Wake. Anthony Burgess, nato John Wilson, è stato un fenomeno perché nel secondo Novecento ha interpretato come meglio non si poteva lo scopo dello scrittore, ovvero scrivere scrivere e scrivere senza posa finché, raggiunte le dieci cartelle quotidiane, gli restava il tempo di fare un salto al pub. Niente proclami, niente sensazionalismi, niente intellettualismi: solo una parola dietro l’altra, senza mai fermarsi per rifiatare, dal 1956 al 1993.
Burgess ha amato l’Italia, avendovi vissuto a lungo, e in particolare ha amato un’Italiana, Liana Macellari. Farlo pian pianino sparire dagli scaffali delle librerie e dai cataloghi di libri in commercio è quanto meno una maniera originale di manifestargli la gratitudine che l’Italia gli deve. Poiché per la prima volta in vita mia scrivo con uno scopo ben preciso - e poiché lo scopo è far sì che torme di lettori inferociti prendano d’assalto le Feltrinelli e le Mondadori e similari strappando l’uno dalle mani dell’altro le residue copie della sua produzione, che subissino le più diverse case editrici con richieste di ristampe e di nuove edizioni, che devastino le biblioteche in cerca di sempre nuovi testi burgessiani in giacenza, che intraprendano la lettura vocale dei suoi romanzi per i nipotini e la loro trascrizione manuale per i posteri, che condannino al rogo chiunque ardisca domandare: “Ma Arancia Meccanica non l’ha scritto Kubrick?” - poiché dunque tutto questo, non mi trattengo dal dedicare i prossimi due capoversi all’elencare minutamente e senza vergogna i volumi ancora sul mercato che chiunque mi stia leggendo deve comprare entro stasera se non vuole essere travolto dalle maledizioni del Salmo 108 (controllate, vi assicuro che non sono piacevoli).
In Italiano, dunque, trovate soltanto: La Banda Amadeus (Bollati Boringhieri, 1995); Un Cadavere a Deptford (Garzanti, 1997); Trilogia Malese (Einaudi, 1999); Abba Abba (Robin, 1999); Il Seme Inquieto (Fanucci, 2002); Il Dottore è Ammalato (Fanucci, 2004). Un po’ pochino, direi, per quanto vada ammirato il recente impegno della Fanucci. Quanto ad Arancia Meccanica, che ovviamente si pesca in abbondanza, va tuttavia specificato che si tratta ancora della riproposizione (Einaudi, 2005) della traduzione di Floriana Bossi già uscita nel 1969 (ovvero due anni a.K., avanti Kubrick) col titolo Un’Arancia a Orologeria, che aveva lasciato un po’ di amaro in bocca a Burgess stesso, fine conoscitore di gerghi e dialetti, una volta scoperto che il nadsat russofono era stato riproposto in volgar salsa lombardeggiante (al contrario, Burgess era rimasto non poco lusingato apprendendo di un film porno tratto dall’opera del suo ingegno, quale definitiva consegna all’empireo della celebrità): con l’umiltà che contraddistingue il mio integralismo, mi permetto di suggerire che urgerebbe insomma una nuova e più moderna traduzione, magari sulla falsariga del lessico ben più accettabile utilizzato nel doppiaggio del film, al quale partecipò perfino Oreste Lionello.
In Inglese, i volenterosi possono trovare un bel po’ di roba che manca dagli scaffali patri: addirittura ReJoyce (Norton & C., 1968); poi Nothing Like the Sun e Honey for the Bears (entrambi Norton & C., 1996); Byrne (Carrol & Graf, 1998); One Hand Clapping (Carrol & Graf, 1999); This Man and Music (Applause, 2001); Shakespeare (Carrol & Graf, 2002); Revolutionary Sonnets (Carcanet, 2003); Tremor of Intent (Norton & C., 2004); The Eve of St Venus (Hesperus, 2006). Chi sia abbastanza ricco da possedere una carta di credito (piena) può sbizzarrirsi; e poi, si sa, le biblioteche sono aperte a tutti, per quanto ben nascoste, e dovrebbero servire proprio a trovare i libri introvabili: quindi è sufficiente darsi una mossa.
Se pure riuscite a procurarvi tutto ciò, comunque vi mancherà il grosso; vi mancherà, ad esempio, la saga comica del poeta Enderby ma vi mancherà anche il musical joyciano Blooms of Dublin, per non parlare della Napoleon Symphony, l’unico romanzo mai scritto usando come scaletta lo spartito dell’Eroica di Beethoven. Vi mancherà L’Antica Lama, parodia novecentesca di Excalibur fugacemente apparsa presso Garzanti nel 1997 e, se diventate burgess-dipendenti, vi mancherà per giunta la traduzione inglese del libretto della Carmen di Bizet.Qualsiasi cosa vi manchi, resterà inconcepibile, inspiegabile, incolmabile, il vuoto sovrano lasciato dalla simultanea sparizione de Gli Strumenti delle Tenebre in Italia e di Earthly Powers in Inghilterra. Non potrete mai leggere l’autobiografia di Kenneth Toomey, scrittore di facili prose e godibili versi, roso dalla propria omosessualità e dal rimorso/rimpianto verso madre Chiesa; non saprete mai perché è scappato a trascorrere la propria vecchiaia a Malta, né che fine ha fatto l’occhio sinistro di sua sorella Hortense. Non potrete girare le pagine per scorrere le atrocità dal 1916 al 1971. Non scoprirete se suo cognato Carlo Campanati diventerà Papa e al posto di chi, nella realtà storica; non saprete mai cosa faceva veramente George Russel, detto AE, a Dublino nel primo pomeriggio di giovedì 16 giugno 1904, né perché Jakob Strehler ha vinto il Nobel per la Letteratura nel 1935 (controllate), né chi ha commesso l’errore di salvare la vita a Goebbels. Più in generale, non assisterete all’eterno e capillare scontro fra l’armata del bene e - appunto - gli strumenti delle tenebre, né capirete chi sta dalla parte giusta, né quale sia la parte giusta. Avrete perso un romanzo da leggere, avrete perso una storia da farvi raccontare, avrete perso una vita possibile. E vi sembra il caso di non protestare?

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