lunedì 26 febbraio 2007

Lo scarabocchio intrinseco


(lunedì 30 ottobre 2006, copyright Ore Piccole)


Si nasce soli, si muore soli. Nel mezzo di questi due estremi, si tenta di stare in compagnia per quel che è possibile; ma è molto poco possibile in quanto l’accompagnamento intermedio - o, se vogliamo dirla sporca, l’accoppiamento temporaneo - contraddice la naturale solitudine delle estremità. Il più delle volte è impossibile accorgersi (alcune volte invece si fa finta di non esserne in grado) che lo scacco è inevitabile, che il fallimento di ogni tentativo risiede nella consapevolezza che si morirà soli come si è nati. Rallegrati da questa considerazione preliminare, passiamo a recensire La Fine dell’Amore, la raccolta di racconti edita dalla ISBN in cui Ilaria Bernardini riprende sotterraneamente questa teoria e la fa risuonare come una corda di violino.
La tipica copertina bianca della ISBN stavolta è sporcata da uno scarabocchio. Sembra che il caso abbia scelto in me un bibliodipendente per uno sfregio libresco, ma una seconda copia dello stesso romanzo, speditami per errore e arrivata lo stesso giorno della prima (mistero glorioso), mostra che lo scarabocchio è presente anche sull’altra copertina, uguale pari pari; per maggior sicurezza vado a controllare in biblioteca, e lo scarabocchio c’è; vado addirittura in Feltrinelli, e nello scaffale di narrativa c’è uno scarabocchio per ogni copia. Lo scarabocchio è ineludibile, impossibile a nascondersi e a ignorarsi; mi guarda storto e mi dà l’idea che qualcuno abbia usato prima di me il libro appena diventato mio. Non solo: lo scarabocchio è universale, onnipervasivo, infinitamente replicato: sarà una ferita nell’anima leggente di ciascun lettore, un ceffone al superego che dalla più tenera infanzia ripete ossessivo che i libri non si slabbrano, non si sottolineano, non si piegano e soprattutto non si pasticciano.
I dodici racconti con - esageriamo, se lo merita - un romanzo breve in omaggio sono la messa in atto letterario dello scarabocchio. Lungi dal voler offendere Ilaria Bernardini (di cui non sono nemmeno stato in grado di trovare una foto su internet), mi è parso che l’obiettivo dell’autrice fosse esattamente quello di voler offrire una visione dettagliata dello sbrego, del senso di vuoto, della vertigine d’assenza che s’impadronisce dell’anima nel momento in cui si avverte nettamente l’attrito della contraddizione fra la compagnia indotta e la naturale solitudine. Ai suoi occhi, è un momento come di decantazione, la caduta verso il basso di un rimasuglio necessario a insaporire il circostante.
Sul fondo della sua narrativa si posano gli oggetti, innanzitutto, come da metafora nella prima pagina del primo racconto: La fine dell’amore c’entra col fondo delle tazze bianche, che piano piano diventano scure e macchiate. La prosa di Ilaria Bernardini è piena di cose, quasi il suo principale senso fosse il tatto; sembra di toccare, infatti, gli oggetti la cui consistenza viene via via nominata, e sembra - conseguentemente - di essere calati nel mezzo di quegli oggetti stessi, in una diversa dimensione spaziale della quale non si è padroni e attraverso la quale bisogna procedere tastando, a tentoni, facendo attenzione a non farsi male.
Il male è il sottofondo delle tredici storie. Non è un male apocalittico, demoniaco, né tampoco un male spettacolare, televisivo, fashionable. È un male di piccole cose in un mare di piccole cose, dove non c’è né un alto né un basso ma solamente una confusa sensazione di fastidio, di sofferenza, di limitatezza. Ilaria Bernardini, impassibile, scava nel fondo delle persone e vi trova delle cose; riconosce che quando la solitudine riprende il sopravvento - non per chissà quale tragedia ma per ordine naturale, per un principio di termodinamica - l’occhio umano cerca intorno persone e trova solo oggetti, ai quali tenta di dare un senso nuovo; ma gli oggetti lo guardano di ritorno, più muti e più beffardi dello scarabocchio sulla copertina, e lì finisce. L’uomo (la donna, la ragazzina, il pesciolino rosso, insomma chiunque respiri) è precipitato in un vortice di cui è il centro e l’unica vittima possibile.
Rovescio della medaglia, Dio è completamente assente. Nel secondo racconto, I nodi nei capelli, la protagonista tredicenne si ritrova “a pregare chissà chi con parole a caso”. La solitudine, in quest’occasione, è abbandono: non successivo all’essere stata abbandonata, alla fine dell’amore causata da una rescissione volontaria, ma proprio il senso di abbandono che si prova quando dal fondo di una rupe si cerca di fuggire lanciando una fune ma in alto non c’è nessuno che la appigli e non si può che vederla ricadere indietro. Non c’è tensione, non c’è speranza; non c’è possibilità di redenzione o salvezza. Sarà un caso, ma su tre casi in cui l’ambientazione delle trame è definita, si tratta della Francia atea.
Il linguaggio di Ilaria Bernardini ha due referenti: Houellebecq sicuramente, nell’espressione tetramente immutabile con la quale osserva la narrazione che pare svolgersi da sé; Beckett forse, nella cadenza ipnotica dei paragrafi talvolta interminabili cui si alternano dialoghi secchi. Infatti il dialogo quadrato (“Ti amo.” “Neanche io ti amo.””Io ho detto che ti amo.” “Neanche io scemo.”) torna spesso nelle pagine dei racconti, e le sue parole allo specchio danno ulteriormente conto della solitudine insensata. Più in generale, sarà che sono stato suggestionato dall’ambientazione francese, c’è un certo debito nei confronti dell’esistenzialismo, nel prendere sul serio la presa in giro e nel prendere in giro la presa sul serio (tipica delle donne, aggiungerei luciferinamente se la Bernardini non fosse donna ella stessa) del rapporto amoroso, ovvero di una cosa che seria non può essere proprio perché è assurda, irrazionale, innaturale, controfattuale.Menzione speciale, infine, per Paul Mallion, il racconto lungo che, isolato com’è dagli altri dodici grazie a una sorta di vicecopertina interna (le illustrazioni sono di Felix Petruška e ovviamente l’effetto scarabocchio è artisticamente voluto), spicca e si innalza alla dignità di romanzo breve. Non tanto per il numero delle pagine in sé (una settantina) quanto per la struttura che si differenzia completamente dal resto del lotto, che lascia immaginare una Bernardini meglio funzionante sull’ampio respiro e che suggerisce un’incuriosita lettura del suo precedente romanzo, Non è niente (Baldini Castoldi Dalai). La storia del serial killer ricapitola il succo delle dodici storie precedenti; il vuoto di senso, l’impassibilità, il rapporto personale e quasi animistico con gli oggetti contrapposto al rapporto reificante con le persone, ridotte al loro corpo e in particolare alle più ripugnanti fra le cosce cellulitiche - dicevo, la storia conclusiva del serial killer vede cadere in sé i cadaveri dei racconti precedenti, uccide le residue e in fin dei conti umane speranze di redenzione. Il novero dei ventisette uccisi, di cui ventitré di sesso femminile, serve soprattutto a ricordare che non si deve essere tratti in inganno: anche se si muore in tanti, si muore sempre soli; e la vita di Paul Mallion, uno scarabocchio inconsulto sulle vite altrui, ricorda che anche quando si vive in tanti si è sempre nati soli.

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