(sabato 13 maggio 2006, copyright Ore Piccole)
Sono delle insorgenze spontanee, irregolari e al contempo senza soluzione di continuità, gli eredi d’arte. Prendiamo ad esempio il calcio, che è specchio del globo: per quindici anni s’è cercato l’erede di Pelè, finché non è giunto Maradona a miracol mostrare, non come erede altrui ma come giovanbattista di sé stesso. Non aveva ancora terminata la sua parabola napolitana che già se ne cercava il successore; se n’è trovati a bizzeffe, tutti bugiardi e spariti più o meno indegnamente. Oggigiorno s’intona il Te Diegum per Leoncino Messi, che lo richiama nelle fattezze e nelle movenze, col risultato che Messi è minorenne e langue per un infortunio e voila, già si cerca l’erede dell’erede, il novello nuovo Maradona. Così è nella letteratura, sebbene il paragone blasfemo porterebbe ad isterismi vari le più organiche (come intellettuali) ed inorganiche (come donne) fra le mie colleghe, spingendole fino all’eccesso di rincorrermi per sculacciarmi con una copia arrotolata de La Repubblica.
Così è nella letteratura, tuttavia, e non solo nella bassa cucina e callida fucina delle case editrici, inevitabilmente portate a scuotere dal consueto torpore gli acquirenti del sabato pomeriggio piazzando in copertina richiami colorati, che so io, tipo “il nuovo Dan Brown”, “lo Stephen King dell’era virtuale”, “la Melissa P delle nostre nonne”, e così via. Non solo: ma anche, e soprattutto, sono l’alta letteratura e l’accademica riflessione su di essa che producono simili paragoni sovratemporali (“non è peregrino rinvenire fra le righe del Tale le cadenze eoliche che resero immortali gli alessandrini del Talaltro, filtrate però attraverso una differente coscienza storica e una consapevolezza autoriale tutta nuova”). Poi ci sono gli ibridi: le case editrici che spacciano autori freschi come eredi in prospettiva, scomodando disinvoltamente nel risvolto di copertina nomi che al solo pronunziarli distintamente tremerebbero gli inferi.
In John McGahern, dublinese, l’Einaudi rinvenne nel 1994 il persistere de “l’azione del drizzle, la pioggerellina vaporizzata che cade implacabile sui campi verdissimi (…) a più di mezzo secolo di distanza dai Dubliners di Joyce”. Ora i due romanzi tradotti di McGahern si trovano solo nei remainders e in qualche biblioteca, fra le quali ottima fra le ottime la Delfini del comune di Modena; Joyce invece è dappertutto. Peggio per lui; se invece di caricare McGahern del fardello nazionale (ogni ebreo che nasce può essere il Messia; ogni irlandese che scrive può essere Joyce) si fosse provveduto a lasciare che Il Pornografo, suo quarto romanzo prodotto (nel 1979) e primo tradotto, scorresse da sé, sarebbe stato meglio. Tanto più che nella stessa collana (I Coralli) qualche mese prima l’Einaudi aveva pubblicato Gene Gnocchi.
Stretto fra questi due inconciliabili estremi (Joyce non apparve mai a Quelli che il calcio), il romanzo di McGahern fila a leggerlo liscio come l’olio, pure troppo forse, data la sua capacità di trovare più che il mot juste il mot nue, il termine più spoglio di tutti quelli possibili, da inserire in una frase piana, come se fosse pronunziata a mezza bocca da un narratore sfatto, sfiduciato, e tuttavia ghignante. Più ancora, i protagonisti non hanno nomi (solo pronomi) e l’amore è ridotto a dialogo ininterrotto, reciproco sostegno e rispettiva incomprensione.
Il titolo non deve trarre in inganno il lettore maiale, che si aggira fra gli scaffali per leggere zozzerie passando nondimeno da intellettuale. C’è molta meno pornografia, potrei dire, in McGahern di quanta ve ne sia ne La Pianista di Elfriede Jelinek (Einaudi pure lei, ma sarà un caso), la cui protagonista era muta frequentatrice di peep show e cinema a luci rosse. La pornografia prodotta dall’anonimo io narrante (McGahern stesso?) è quella un tanto al chilo (o meglio un tanto a pagina) della letteratura da sottobosco delle stazioni, quei volumetti di Confidenze bizzarre ovvero Incesti in famiglia arricchiti tutt’al più da qualche schizzo itifallico nei bianchi divisorii dei capitoli. Indifferente di fronte alla propria stessa vita, il narratore lo è anche di fronte ai suoi narrati, gli acrobatici personaggi di Mavis e del Colonnello, pronti alla copula universale più di un ussaro disperso. Quando si fa prendere da velleità letterarie, è il suo editore a tarpargli le ali per il bene di entrambi: “E ricordati che è al lettore medio che devi pensare se vuoi vendere - il nostro lettore medio è già così allupato di suo, che gli verrebbe ritto anche solo per un germoglio nell’orto del Getsemani”.
Scriveva Montaigne dei suoi Saggi: “non ho fatto il mio libro più di quanto esso abbia fatto me”. La vita del narratore oscilla fra i coiti plastificati delle sue creature e il personaggio - questo sì davvero memorabile - di una zia ricoverata e alcolizzata sottobanco, anzi sottoletto; e viene scompaginata (la vita, non la zia moribonda) dall’intervento improvviso dell’amore, nella figura di una donna conosciuta appositamente per sesso, che stravolge i ritmi dell’io narrante interferendo con la sana e stabile polarizzazione zia malata / romanzo erotico. D’altronde, scrive McGahern, “qualcuno se ne va (…) e qualcun altro arriva. Non è sempre così, la storia?”. Chiunque sia stato con una donna, anche solo per il fine più nobile, ricorderà che l’amore stesso, cioè il sesso, veniva a coincidere con il discorso sull’amore come sesso e il sesso come amore. McGahern coglie perfettamente quest’aspetto, riproducendo fedelmente l’insulso chiacchiericcio prima del coito, dopo il coito, durante il coito, al posto del coito - l’atmosfera insomma che rende di gran lunga più piacevole e redditizio portarsi a letto un’orca assassina o una iena contrariata.
La sfaccettatura del protagonista e narratore, prima ancora che dalla (relativamente scarna) scelta degli avverbi per narrarsi, procede dunque per mezzo delle parole altrui, quando lei lo mette con le spalle al muro riguardo al suo passato (“Vuoi sapere se sono già stato a letto con donne che non amavo? La risposta è sì”), oppure quando discetta sul preservativo come e più del cardinal Martini (“Mi sembra innaturale. Diventa tutto una specie di farsa”), ovvero lo inchioda su dichiarazioni programmatiche (“Ho imparato che il sesso non ha niente a che fare con l’amore e con la vita. È una specie di sport. Con l’unica differenza che si fa in un letto, anziché in palestra”). Quanto all’anonima, il resoconto di come ha perso la verginità con un signore che, subito dopo, accende la radio per informarsi sulle corse dei cavalli fa pensare a quanto sia piccolo il mondo, quanto noi maschietti siamo tutti uguali e stronzi a ogni latitudine: tre anni dopo l’edizione inglese, in Ricomincio da Tre, una domenica pomeriggio Massimo Troisi si mette ad ascoltare Tutto il Calcio Minuto per Minuto e si lamenta di come il Napoli stia perdendo col Cesena. Giuliana De Sio, che gli giace accanto, scoppia in lacrime e Troisi la consola: “Non fare così. È ancora il primo tempo”.
McGahern coglie con abilità il versante triste del grottesco della vita; ma ho il timore che il suo talento finisca poco più oltre. Segnatamente, a parte la zia, il personaggio meglio riuscito benché fugace è l’editore, che proclama: “Guardati intorno! Non ti sembra che tutta la nazione se ne vada in giro dentro una cassa da morto? Ma fagli vedere un uomo e una donna che fanno l’amore, e, peggio che mai, che ci godono, e allora le strade si riempiranno di padri di undici figli, «disgustati» da tutto e da tutti”. In un senso o nell’altro, per smuovere le coscienze dei verginelli o le braghe degli erotomani, la pornografia è più utile del sesso e dell’amore stesso, la distinzione fra i quali, benché asserita con forza da McGahern, tuttavia resta fuzzy per lui e per me. “Un’Irlanda che si masturba è un’Irlanda libera”, scrive parodiando il celebre motto anti-Guinness (“Un’Irlanda sobria è un’Irlanda libera”), e perfino lo scialbo (ma reiterato perché meglio di niente) rapporto con la donna ha un colpo d’ala solo quando incoccia la sua produzione letteraria “senza cuore, senza cervello e falsa”. Accade che lei avanzi con un dattiloscritto in mano e lui la prevenga che “è tutto fuorché una lettura edificante”; lei ciò nondimeno legge, inevitabilmente si disgusta, si dice sconvolta che lui l’abbia scritto, pronunzia la frase più femminile della storia (“mi ci sono ritrovata dentro senza sapere come”), inevitabilmente si eccita e, come tutte, è contrariata dalle proprie reazioni fisiologiche e crede di essere irritata dalla pornografia, che “trasforma tutto questo in un gioco (…), non ha niente a che fare con la realtà. Prende la gente e ne fa dei burattini, ci gioca, la eccita”. Lui abbozza e seguita a lavorare; a differenza di me, lo pagano pure benino.Insomma, Joyce dov’è? Fra le brume della prosa dublinese, in mezzo al fumo dei pub ubriachi, i miei occhi lo cercano senza trovarlo, finché si posano, benché distratti da una foto di Maria Sharapova, su una cartolina irlandese appesa di fronte a me: in dodici riquadri, mentre (dattilo)scrivo mi guardano gli apostoli della letteratura verde (John Synge, Flann O’Brian, Oliver Goldsmith, Jonathan Swift, Samuel Beckett, William Butler Yeats, Brendan Behan, Oscar Wilde, Patrick Kavanagh, James Joyce, Sean O’Casey, George Bernard Shaw). John McGahern non c’è, e chissà se potrà mai esserci. La sua morte per cancro, cinquanta giorni fa, ha trasformato la mia recensione in un epicedio, e l’epicedio in una riflessione: se mai diverrò qualcuno, ciò di cui dubito, dovrò ringraziare anzitutto il paesello che prima di me ha partorito un solo alfabetizzato - Federico Meninni, poeta barocco, il quale scrisse schiacciato dal futuro arrembante: “quindi rodemi il cor più d’un martoro, / solo in pensar che qui durar ben pônno / cose che non han vita, ed io mi moro”. Era il 1669.
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