lunedì 26 febbraio 2007

Tom Wolfe pensa in tedesco


(domenica 21 maggio 2006, copyright Ore Piccole)


“Ti ho fatto un tre”. Se all’avveduto lettore (per una volta mi rivolgo ai maschietti, altrimenti vengo tacciato di sessismo) - dicevo se all’avveduto lettore capita, è capitato o capiterà di sentirsi riferire questa notazione da parte di una signorina che si pulisce le labbra col dorso della mano (propria o altrui), tragga l’avveduto lettore queste conclusioni: che così impara a farsi fellare extraconiugalmente da chi capita; che non ci può far niente, non è lui ad essere un porco ma è lo spirito del tempo ad essere miserrimo, ovvero sono gli anni zeranta che vanno così, e pazienza; che per fortuna c’è Tom Wolfe, capace di accorrere in soccorso mio e suo (e di tutti coloro i quali non riescono a trattenere i propri bassi istinti) con La Bestia Umana, un volume d’attualità sorprendente edito da Mondadori tre anni fa in veste tanto candida quanto quella del suo autore, l’ultima persona elegante che resti al secolo - i cardinali sono un discorso a parte.
Il libro è composto da otto saggi più un lungo racconto (Imboscata a Fort Bragg) e un ricordo documentato (L’Affaire “New Yorker”), e il titolo generale è lo stesso del terzetto che racchiude il secondo, il terzo e il quarto saggio; ma nell’edizione americana, apocalitticamente uscita nel 2000, il titolo originale del volume è quello del primo breve saggio, in cui ogni capoverso è un piccolo capolavoro: Hooking up, che la brava Stefania Bertola traduce in Agganciare - la vita al volgere del secondo millennio: il mondo di un americano. “Agganciare”, spiega serafico Tom Wolfe, è il verbo tratto dal gergo del baseball che meglio di ogni altro indica il mutamento dei tempi al giro di secolo, anzi di millennio. Per i genitori dei ragazzini d’oggigiorno, significa attaccar bottone, chiedere un numero di telefono, eventualmente provarci. Per i figli dei genitori d’oggigiorno, al contrario, indica “un’esperienza sessuale, la cui natura ed estensione poteva però variare considerevolmente”.
Seguitando a mutuare il linguaggio dal selvaggio baseball, la scala terminologica della generazione precedente partiva da “prima base” (l’abbraccio) e culminava nello “home run” (il coito sul lettone genitoriale), passando per la “terza base”, ovvero la pratica cui facevamo riferimento in partenza e che tanto successo riscuote ancora ai nostri giorni. Per questo, poiché l’Italia arriva sempre in ritardo, può essere capitato di rinvenire qualche verginella, la cui massima concentrazione è nella Milano bene, che - costretta pornolalicamente a fare una radiocronaca diretta dei propri atti - concluda sussurrando: “Ti ho fatto un tre”. Al contrario, spiega Wolfe, per i ragazzini americani del 2000 “prima base” indica il bacio francese, “terza base” il coito ininterrotto e “home run” chiedersi: “Come ti chiami?”.
Sia chiaro, Tom Wolfe non si scandalizza per così poco né intende scandalizzare nessuno - veste troppo bene per tentare di farlo. Nel breve e sapido saggio d’apertura, getta le basi teoriche che svilupperà narrativamente nel suo ultimo romanzo, quell’Io Sono Charlotte Simmons (2005) che svela un mondo giovanile in cui la verginità, lungi dall’essere un valore o un problema, è solo l’ostacolo che impedisce di essere abbastanza cool. Sebbene io, essendo cattolico, sia particolarmente sensibile all’argomento-sesso, lo scopo di Tom Wolfe è più prosaicamente quello di ampliare il suo sguardo per mezzo di cerchi concentrici, partendo dai rapporti adolescenziale, di modo tale da giungere a una piena comprensione dello spirito del tempo.
Lo spirito del tempo, o Zeitgeist secondo il termine crucco che Wolfe utilizza nell’introduzione generale, pare sorgere più trionfante - e più facile da individuare - negli anni tondi, quando il cambio di secolo rende evidente il giro di boa. Nell’unica nota a Hooking up, Wolfe fa riferimento esplicito a un saggio di Lacey e Danziger sull’anno mille, non solo con le fobie e le manie che ha causato ma soprattutto riguardo alla fotografia della vita quotidiana. Nell’introduzione Wolfe insiste sullo spirito fin de siècle nel ritratto datone da (e li cita) Hegel, Marx, Nietzsche, e si cruccia di aver cercato invano “nella filosofia e nella letteratura contemporanee la figura imponente, o le figure, che abbiano catturato con le parole il nostro Zeitgeist”.
Non ha paura delle responsabilità, Tom Wolfe, pertanto decide di abbracciare cent’anni dopo la croce dell’anno zero in prima persona. Per più di trecento pagine, col suo consueto stile leggero ma sematicamente preciso, poco avvezzo ai voli di fantasia ma attento al pittoresco della storia e della cronaca (è la cosiddetta narrative nonfiction), dà uno spaccato americano che - poiché, ripetiamolo, l’Italia arriva sempre in ritardo - può servire da guida pratica per orientarsi nei nostri giorni. Prendiamo la considerazione, retroattiva ma sempre valida, che liquida i chilometri di manifestazioni giovanili: “questi ragazzi del movimento giovanile radicale si erano iniettati una dose di nostalgia dell’Arcadia preindustriale. Volevano, o pensavano di volere, tornare alla terra e vivere di vegetali organici e suonare canzoni popolari del sedicesimo e diciassettesimo secolo. (…) Consideravano la scienza uno strumento monopolizzato dalla lobby industriale-militare”. O il fiume di letame che sommerge i soloni sempre pronti a lamentare che “il cinema ha decisamente sostituito il romanzo come mezzo dominante di espressione artistica”, salvo poi arrabbiarsi oltremodo come John Updike, Norman Mailer e John Irving se qualcuno, casualmente Tom Wolfe stesso, scrive “un romanzo acclamato dalla critica che vende a un ritmo pazzesco in un delirio di pubblicità”.
Lo Zeitgeist di fine secolo porta con sé, ineludibilmente da chissà quando, l’idea del sovvertimento di ogni valore e della morte di Dio - a leggere i filosofi, Dio muore molto più spesso di quanto Gesù risorga. Con Nietzsche, la cui presenza in La Bestia Umana è più costante di quanto non si dica e più sorprendente di quanto non si pensi, Wolfe predice un secolo di guerre catastrofiche, perché ora come allora “gli esseri umani non avrebbero più avuto un Dio a cui rivolgersi che li assolvesse dalle loro colpe; ma il senso di colpa li avrebbe comunque torturati (…) e come risultato avrebbero detestato non soltanto gli altri ma anche sé stessi”. Per questo fra dieci o trent’anni tutt’al più, seguita Wolfe, comparirà un nuovo Nietzsche ad annunziare che “l’io è morto”, o meglio che “l’anima, l’ultimo rifugio dei valori, è morta perché le persone colte non credono più nella sua esistenza”. L’uomo moderno “sta sguazzando, si agita, cerca di respirare (…) quando si accorge che sotto di lui nota qualcosa di enorme e liscio, che lo solleva, come un poderosissimo delfino. Non vede cos’è, ma resta profondamente colpito. Lo chiama Dio.”
La bestia umana che dà il titolo alla versione italiana è un’espressione che deriva dritta dritta dall’omonimo romanzo di Zola (1888, fin de siècle pure lui); due settimane fa, al Warner Theater di Washington, Wolfe ne ha spiegato alla perfezione il significato in un discorso riportato sabato scorso da Il Foglio, l’unico quotidiano dadaista d’Italia: “l’homo sapiens - o homo loquax, come a me piace definirlo - non era stato creato da Dio a propria somiglianza, ma era soltanto una bestia, nient’affatto diversa d un serpente, da un orangutango (…). La dottrina di Darwin si è trasferita con straordinaria velocità dalle pagine di una rivista scientifica in ogni livello della società (…) e ha creato una linea di demarcazione fra la sbigottita borghesia timorosa di Dio e quelle persone di animo dolce e leggero che riconoscevano il proprio compito in un’osservazione della borghesia condotta da supreme altezze”.
Questi ultimi, gli intellettuali, verrebbe da dire con banale gioco di parole che per Tom Wolfe sono bestie inumane. Nella seconda parte della raccolta, intitolata Vita Robusta, Ars Anorexica, il candido Tom Wolfe dà il suo resoconto della difficile ma divertente sopravvivenza fra le mura accademiche e, più in generale, “nella terra dei marxisti rococò”. Wolfe, il quale due anni fa ha fatto strangolare più di una signora benvestita rivelando a tradimento durante le cene che avrebbe votato o che aveva votato per Bush, il guerrafondaio Bush, l’ignorante Bush, il brutto Bush, il Bush-cacca che è il cavallo a dondolo di ogni salotto americano quando il discorso langue e non si sa più di che parlare se non di riviste che tutti comprano e nessuno legge - Wolfe, dicevo, è forse l’unico al mondo capace di un tocco stilistico tale da racchiudere in venti pagine tutte le più astiose obiezioni contro l’intruppamento universitario. Anzi, il suo tono paradossalmente sembra richiamare, a me che ho avuto la sfortuna di laurearmi in filosofia, lo stesso tono che il giovane ed energico Marx usava nei Grundrisse descrivendo la storia dell’idealismo quale collezione di merde (scheiss) di varia guisa; tuttavia Wolfe, che vive in tempi più comodi di Marx e non ha nemmeno il problema di dover scostare la barba per grattarsi il mento, conserva per tutte le venti pagine un atteggiamento serafico, un sorriso stampato che, nell’attaccarli, è l’arma migliore per devastare gli isterici depositari della verità precotta.
Il termine stesso “intellettuale”, illustra Wolfe, è fin de siècle per eccellenza essendo stato coniato da Clemenceau nel 1898. Prima, alcuni uomini erano intellettuali e non lo sapevano; dopo, si dichiarò tale “tutta quell’industria sommersa di povere anime che scribacchiavano incessantemente”. Per uno Zola che aveva trascorso mesi a documentarsi prima di prender posizione in favore di Dreyfus, ecco che nel primo secolo d.C. (dopo Clemenceau) “il nuovo eroe, l’intellettuale, non aveva più bisogno di farsi carico del pesante compito di documentarsi e fare ricerche (…) Indignazione nei confronti di chi detiene il potere e degli stupidi borghesi che eseguono i loro ordini, era tutto lì quello di cui avevano bisogno. Bango! Eccoti diventato un intellettuale”.
Elevato da sé stesso e da folle indignate di altri intellettuali plaudenti, l’intellettuale americano/cugino di campagna tralasciò del tutto il fulgore della società statunitense del XX secolo e tentando “di mettersi alla pari con il suo modello cittadino, l’intellettuale europeo, risultò patetico come possono esserlo soltanto gli sforzi dei poveri abitanti delle colonie”. Allo sviluppo socioeconomico dell’America - che non sempre, riconosce Wolfe, ha portato buoni frutti: magari capitava che “se non trovavi l’uomo che pulisce la piscina era perché si trovava in crociera ai Caraibi con la terza moglie” - l’intellettuale rispose coniando il termine “fascism” e usandolo come nelle mense universitarie utilizzano gli avanzi: “fascismo incipiente” (Herbert Marcuse), “fascismo locale” (Walter Lippmann), “orlo del fascismo” (Charles Reich), “fascismo informale” (Philip Green), “fascismo latente” (Dotson Rader). Più di tutto, però, Wolfe aborre l’idea di “genocidio culturale”, ovvero il numero chiuso nelle università, circostanza che portò Susan Sontag a sostenere che “la razza bianca è il cancro della storia dell’uomo”. Né il cavallerismo maschile né il rispetto per i defunti mi trattengono dal trascrivere gli apprezzamenti di Wolfe per quest’“epidemiologa antropologa” o, non so cosa sia peggio, per “l’ennesima scribacchina che passava la vita aderendo a manifestazioni di protesta e caracollando al microfono appesantita dallo stile della sua prosa”.
Il loro, procede Wolfe imperterrito come uno squalo, “non sarà marxismo volgare, sarà…marxismo rococò, elegante come un Fragonard”; trent’anni esatti dopo Radical Chic and Mau-Mauing the Flak Catchers, dà un nuovo manifesto al vaniloquio intellettual-snob sempre a caccia di una nuova minoranza da tutelare: “Non ci legheremo troppo a postulati politici, che a quanto pare non funzionano mai. Invece, denuderemo le cosiddette verità dei tirapiedi, quelle che gli Scemi coltivano nella loro ignoranza, e decostruiremo i loro illusori composti di verità eterne. Dimostreremo che il potere attuale manipola, con velenosa efficacia, il linguaggio stesso che parliamo in modo da imprigionarci in un ‘panopticon invisibile’, per usare il termine coniato dal defunto poststrutturalista francese Michel Foucault”.Io, che notoriamente sono un po’ scemo, io che amo le shampiste, io che ho sempre evitato abilmente di leggere filosofia se non quando mi pagano per farlo, trovo consolante l’esistenza di Tom Wolfe, uno dei due uomini di bianco vestiti che m’infondono una certa sicurezza. Solo, mi chiedo, chissà cosa direbbe oggi, a distanza di sei anni, se venisse a sapere di giovani autori, americani ci mancherebbe, che passano il tempo a intervistare lavoratori precari e varie vittime della cosiddetta legge Mark Biages, “invece di uscire nel mondo, invece di tuffarsi nell’irresistibile e sensazionale carnevale della vita nell’America di oggi, qui e adesso, invece di andare incontro con un sì dionisiaco, come avrebbe detto Nietzsche, alla rozza, rauca folla imbevuta di lussuria che pulsa di cimbali ottofonici amplificati”. Sounds familiar?

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