lunedì 26 febbraio 2007

Philip Roth e il caimano in letargo


(lunedì 5 giugno 2006, copyright Ore Piccole)


Il principale vantaggio dei tempi (post)moderni è la possibilità di non pensare, o meglio di dimenticarsi di pensare, persi nella selva di allarmi (sveglie, telefonini, MSN, iPod, sensori vari) che ci circonda - Pirandello avrebbe detto “le produzioni dell’anima nostra, le scatolette della nostra vita”. Pur tuttavia vi sono ancora dei filosofi, fortunatamente in via d’estinzione, i quali tentano di comprendere alla bell’e meglio un mondo il cui unico motore ragionevole è l’irrazionale. Quando i pensatori faranno la fine dei dinosauri, magari squassati da un meteorite, e sulla faccia della terra resteranno solo preti e cubiste, allora tutto sarà compiuto e festeggeremo. Per il momento invece bisogna portare pazienza ed è bene limitarsi ad evitare accuratamente in libreria le teorizzazioni sistemiche (ad esempio, pare che un professore tedesco ritenga che il mondo sia composto di palle, bolle e schiuma) e nascondere il naso dietro i romanzi, spegnendo l’understanding. Chissà cosa pensa dunque, sul treno che mi porta da Piacenza a Modena, la piacente signora mora che con forte accento campano cerca di prenotare telefonicamente un salottino (!) su un Eurostar da Salerno a Milano; non chissà cosa pensa in generale, ma chissà cosa pensa vedendomi sederle di fronte e trincerarmi da ogni possibile e deleterio rapporto umano dietro Philip Roth, Il complotto contro l’America (Einaudi 2005), sulla cui copertina campeggia una svastica.
Non essendo stato arrestato per revisionismo ardito prima della stazione di Modena, devo dedurre che la piacente signora mora non ha pensato affatto, se non al benedetto salottino ferroviario (che, intuisco, le sarà particolarmente utile visto che ad ogni accavallar di gambe mi piantava la punta della scarpa in uno stinco). Io invece rimuginavo e, affrettandomi su corso Vittorio Emanuele per arrivare a mensa in tempo per la cena, invero sudatissimo, ho concluso che la medesima signora sarebbe stata miglior lettrice del romanzo, perché - Philip Roth lo dichiara dalla prima riga - le quattrocentodieci pagine sono tutte concepite e composte sotto il segno del più irrazionale e prerazionale anzi degli istinti: “un’eterna paura”.
La storia è fantasiosa e per capirla basta leggere la quarta di copertina. Nel 1940, all’altezza del terzo mandato a Roosevelt, i repubblicani hanno un colpo di genio e impediscono la vittoria dei democratici candidando Lindbergh, il celebre eroe dell’aviazione. Niente terzo mandato, quindi, poiché pian pianino l’outsider (anzi, black horse) Lindbergh rosicchia il distacco dal presidente in carica e nell’election day a sorpresa lo supera in tromba. Philip Roth, il piccolo protagonista, ha sette anni essendo nato a Newark nel 1933 come Philip Roth, il vecchio autore: gli è facile percepire il malcelato disagio e la crescente preoccupazione dei suoi genitori viste le esternazioni antiebraiche del nuovo presidente volante.
Lo storico che è in me (in fin dei conti, mi pagano per questo) ci tiene a mettere le cose in chiaro. Come specificato nell’accurato e ampio (trenta pagine) poscritto, il Lindbergh vero esternò le sue private simpatie nazisticheggianti (testimoniate dai diari) in un discorso radiofonico del 1941, guarda un po’ proprio l’11 settembre. Parlando alla nazione, Lindbergh puntò il dito contro “la razza ebraica” che spingeva gli Stati Uniti alla guerra “per ragioni che non sono americane”. Tutta la prima parte infatti del romanzo di Roth è incentrata sulla dicotomia espressa nel titolo parziale “Votate per Lindbergh o votate per la guerra”; gli americani immaginari dunque votano per Lindbergh e decidono di tenersi fuori dalla guerra ebraica, di fatto concorrendo a favorire il piano di Hitler, chi ingenuamente chi in malafede. Ci sarebbero delle cosette da dire sull’antisionismo e sul pacifismo arcobaleno, ma non le dico, perché mi preme una considerazione di più ampio raggio, per introdurre la quale vado addirittura a capo.
Il Lindbergh di Roth non vive su un effetto alla Sliding Doors, o meglio non è soltanto una possibilità storica, nel senso che se il discorso dell’11 settembre (1941) non avesse creato malumori a destra e a manca, se veramente Lindbergh si fosse presentato alle presidenziali, se avesse avuto talento a sufficienza da divorare il gap che lo separava da Roosevelt, allora si sarebbero verificati gli argomenti trattati nel romanzo. Macché. Philip Roth è troppo bravo, troppo furbo, troppo irraggiungibile perfino dal premio Nobel per inventare un romanzo sul paradigma “se mio nonno aveva le ruote, allora era una carriola”. Tanto valeva spendere otto euro per (eventualmente ri)leggere Fatherland di Thomas Harris, ovvero trecentosettantotto pagine di risposta alla domanda: e se Hitler avesse vinto la guerra?
L’intento di Philip Roth, al contrario, non è il romanzo controfattuale ma, a sensazione, il romanzo psicologico: non avrebbe altrimenti chiamato un Philip Roth settenne a fare da narratore dell’impossibile, non ci sarebbero stati i dettagli della Newark degli anni quaranta, non ci sarebbe stata un’allucinata focalizzazione interna a fare da legame fra l’alta politica e la tragedia familiare. Un fratello che sposa la causa di Lindbergh, un cugino che la avversa e ci rimette una gamba, un amichetto un po’ tardo che paventa di restare orfano perché non saprebbe cosa mangiare se non latte freddo sono tutti personaggi inquietanti perché familiari e distanti al tempo stesso; la zia un po’ troia che si sistema alla Casa Bianca, il memorabile rabbino Bengelsdorf che diventa teorico dell’antisemitismo fanno, credo, più paura dell’eventualità stessa che l’America possa diventare nazista. La svastica della copertina non viene mai legata al braccio di Lindbergh ma compare nei sogni del narratore a marchiare e macchiare la collezione di francobolli sulla quale riversa tutto il proprio amore.
Ora, io sono un maiale e pertanto resta indelebile nella mia memoria rothiana la mania onanistica del Lamento di Portnoy o, lettura da sottoporre previamente a ogni aspirante fidanzata, il catalogo di perversioni giudaiche de Il Teatro di Sabbath. Devo però specificare che il tema del doppio era già stato esplorato da Philip Roth in Operazione Shylock, in cui l’autore era protagonista e un suo sosia omonimo deuteragonista, nonché più blandamente ne L’inganno (tit. or. Deception), mirabilmente tradotto da Raoul Montanari ed a quanto pare ormai tragicamente fuori commercio[1]. Com’è noto, Philip Roth vive da solo, saggiamente, ritenendo di non dover così rendere conto a nessuno dei propri orari e, d’altro canto, di poter condurre una vita più regolare, ché a settantatre anni è necessario (quanto a me, è necessario pure a venticinque). Il doppio, per così dire, deve fargli compagnia: per questo penso che abbia scritto Il complotto contro l’America non per esplorare una possibilità ma per scavare nel proprio inconscio. Ognuno di noi ha una paura riposta ed inconfessabile (io, ad esempio, vivo nel terrore che da un momento all’altro irrompa la donna delle pulizie, cacciandomi dal luogo dove sto scrivendo, brandendo minacciosa la mazza e lo straccio per rimettere ordine e sancire così la preminenza della vita rispetto alla letteratura); la custodisce in un recesso dell’animo e la circonda, per tranquillizzarsi, con una staccionata di familiari affetti per persone o cose, esattamente come il piccolo Philip il quale, per non aver paura del buio, deve ripetersi che è proprietario della sua collezione di francobolli. Quando sui francobolli appare la svastica, quando la famiglia non è più la campana protettiva ma uno degli innumerevoli epicentri dell’esplosione politica (i più morbosi fra i lettori ricorderanno che anche in Pastorale Americana la ragazza balbuziente nutriva l’esplicito intento di “portare la guerra in casa”), ecco che la staccionata crolla e la paura inconfessata si risveglia e può saltellare tutt’intorno e pascolare liberamente deturpando il paesaggio dell’inconscio (al lunedì mattina sono sempre impressionista). L’eterna paura su cui il romanzo si apre e si chiude non è (soltanto) quella ragionevolissima causata dall’avanzare, nelle idee prima e poi nei fatti, dei pogrom a stelle e strisce, ma anche e soprattutto il terrore istintivo di fronte all’eventualità che la staccionata crolli e che non valgano più a nulla i francobolli (nel caso del piccolo Roth) o (nel mio caso) che la donna delle pulizie imperversi ognora. Di fronte a quest’eventualità, e di fronte all’arrovellarsi degli scienziati di cause e conseguenze, si può sottoscrivere la frase di Henry Ford che Roth riporta nel Poscritto: “La storia, più o meno sono tutte fesserie”.

[1] Come per miracolo, qualche mese dopo questa recensione ne è apparsa una nuva edizione per Einaudi, col titolo Inganno. L’edizione cui faccio riferimento nel testo era invece stata pubblicata dall’editore Leonardo nel 1991.

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