lunedì 26 febbraio 2007

Sfogo narcisisticamente compiaciuto ed invero disperato in forma di epistola

(sabato 4 febbraio 2006, copyright Ore Piccole)

[L’amico scrittore Cosimo Argentina (ultima sua opera Viaggiatori a Sangue Caldo, edita da Avagliano) all’improvviso mi ha chiesto per iscritto: “Come riesci a conciliare la narrativa ai saggi?” Al che io, nell’impeto di furore orgiastico che caretterizza ogni mio sabato, gli ho risposto argomentando:]

Narrativa e saggi: è vero, è un problema, quasi quanto il mal di gola che questa mattina mi costringe a ingerire infinite quantità di miele per non essere costretto a rinunziare a un appuntamento rosa (per non dire di oggi pomeriggio, quando Berlusconi verrà a Modena e, in un caso o nell'altro, temo che ci sarà da urlare). Quando ho fatto il mio primo e unico scritto di filosofia all’università, il professore aveva protestato che fosse troppo letterario; e siccome l'avevo preso come un complimento, si è invece dovuto spiegare, specificando che era un problema non da poco. Nell’università italiana c’è un’ampia tradizione di saggi scritti male, non solo incomprensibili ovvero piatti e sonniferi, ma anche pieni virgole fra soggetto e predicato, di complementi a caso, di incisi incidentati, di periodi aperti e lasciati a sbattere nel vuoto. Ciò nondimeno ho sempre tentato di scrivere tesine, negli anni, che potessero avere se non un valore almeno una dignità letteraria, e alcune sono anche riuscite benino - in particolare Promesse e minacce, in psicologia o cose del genere, che in cinque pagine vagliava le sedici possibile alternative di corteggiamento fra una Giulietta e un Romeo postmoderni per poi passare alle dinamiche della crisi di governo (rientrata) nel '97 fra Prodi e Bertinotti (la storia, peraltro, tende a ripetersi a oltranza); e soprattutto Di fronte al selvaggio, in storia della filosofia moderna, che elencava le reazioni del XVI e del XVII secolo alla novità del Mondo Nuovo prendendo le mosse da un sonetto abruzzese di Cesare Pascarella.
Ciò mi ha sempre causato indicibili pene nel momento in cui i professori, resosi consapevoli della mia aria guittesca, agli esami non si curavano tanto dell’eventualità che avessi studiato o meno (di solito, meno) quanto della mia capacità di contare storie e balle in maniera divertente, e se mi mettevano voti alti era perché li avevo sollevati dalla noia delle altrui tiritere (“La presa di Costantinopoli del 1453...Il prologo dell'Evangelo di Luca, indirizzato a Teofilo...Il trattato Sulla Luce di Isaac Newton, vero capostipite dell'Illuminismo britannico...”). Io mi sedevo e raccontavo storielle di Moni Ovadia, oppure citavo Dante, oppure raccontavo fatti miei, il tutto ovviamente a sproposito; i professori si sentivano a proprio agio, si rilassavano, magari si mettevano addirittura a fumare e, col voto, mi premiavano. Il mio strabordante cattolicesimo, però, per farmi sentire la coscienza pulita, mi portava a studiare lo stesso.
La vendetta che mi sono preso sull'università è stata quando in sede di discussione di tesi ilmio relatore, nel suo cappello introduttivo e necessariamente elogiativo, si è soffermato sul nono capitolo del mio testo (La Bibbia privata: gli ebrei nella corrispondenza di Voltaire), definendolo “assolutamente divertente”. Ora, di solito si presume che la tesi debba avere un (seppur risibile) valore scientifico, debba nascondersi dietro una patina di serietà, debba consistere in uno sforzo di immusonimento accademico da parte dell’allievo che, all’età che ha, è giustamente più interessato a calcio e gnocca, non necessariamente in quest’ordine. Mi laureo io e viene detto che parte della mia tesi è degna di nota perché è divertente; e questo ha di sicuro spiazzato la commissione perché, se vogliamo immedesimarci nel controrelatore, costui ha gioco facile nel confutare la serietà scientifica di un lavoro, tanto più se inesistente, ma di fronte a uno che gli dice: “Questa tesi è divertente”, cosa potrà mai controbattere?
Passiamo oltre, anzi, attraversiamo lo specchio. Quando tu, Cosimo, sei venuto a Pavia a presentare il mio primo vergognoso romanzetto, la persona che lo presentava con te (a un pubblico prevalentemente accademico, ovvero composto da matricole di lettere che ingenuamente pensavano che io valessi qualcosa) ha elencato fra gli innumerevoli suoi difetti primo fra tutti quello di essere troppo saggistico. Poca narrativa, poca trama, pochi fatti e, frase taglientissima per uno che ha scelto la facoltà solo perché al tempo quella con meno esami in assoluto, “si vede che studi filosofia”. Quando le case editrici si peritano di respingermi un manoscritto, apponendovi uno straccio di motivazione, generalmente scrivono che, gentile autore, la sua opera è di notevole valore letterario e stupisce la sua capacità di utilizzare quale materiali di uso comune contenuti che sono invece frutto di non comune erudizione (erudizione? io? che prima di addormentarmi leggo Jacovitti?); temiamo tuttavia che ciò possa terrorizzare il lettore comune, notoriamente fesso, pertanto formulandole i nostri migliori auguri per un futuro radioso le comunichiamo il nostro rifiuto.
Così la questione non è come concilio la narrativa e i saggi, che sono tendenzialmente inconciliabili per il mercato coevo, ma come faccio a far andare d’accordo la moglie con l'amante, ovvero il dottorato che mi richiede fogli su fogli, appunti, protocolli, relazioni, carte tinte con la narrativa che mi istiga a leggere dieci romanzi al mese e a spendere cinque euro per ogni manoscritto che spedisco a una casa editrice a caso - e la risposta è che non ce la faccio più, temo.Tu come fai?

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