Nel 2004 vivevo a Napoli e, avendo la fortuna di avere fra le varie una coinquilina maschilista la quale riteneva che al fine settimana la donna dovesse sfaccendare e l’uomo riposarsi, indipendentemente dall’evenienza che l’uomo (nel caso specifico, io) non avesse faticato gran che durante la settimana, e altresì indipendentemente dall’evenienza che io (nel caso specifico, uomo) fossi o meno d’accordo con questa veduta – dicevo, nel 2004 vivevo a Napoli e al sabato e alla domenica il mio principale impegno era leggere la Gazzetta dello Sport, altrimenti la mia coinquilina si arrabbiava e diceva che non mi riposavo abbastanza. Non sia mai.
Nel 2004 vivevo a Napoli (come forse avrete capito) e nutro un distinto ricordo delle Gazzette che scandivano i fine settimana nonché l’indegna propaggine del weekend che a Napoli andava dal lunedì successivo al venerdì precedente. Nel 2004 vivevo a Napoli ed è stato un lunghissimo weekend sommerso di pagine rosa, mentre la mia coinquilina mi chiedeva di sollevare i piedi per consentirle di dare una lavata a terra.
A farla breve, nel 2004 vivevo a Napoli – questo è sufficientemente appurato – e un sabato mattina, non avendo altro da fare che leggere la Gazzetta dello Sport, ho trascorso una buona mezz’ora a soppesare un’intervista a Piersilvio Berlusconi, nella quale veniva notificata con non poco orgoglio l’ideazione di un reality show sul mondo del calcio, il primo reality show sportivo, etc. etc. I risultati si sono visti: nel 2005 e nel 2006 vivevo a Modena e a lungo andare perfino i più sfaccendati fra i miei amici (taluni sfaccendati quasi quanto me) si sono annoiati a guardare Campioni; ma nel 2004 vivevo a Napoli e pur senza avere la palla di vetro decretai ad alta voce e aprioristicamente che questo reality show calcistico non sarebbe andato da nessuna parte. La mia coinquilina, benché anglocanadese e interessata soprattutto all’hockey su ghiaccio e a Salvator Rosa, per fare conversazione mi chiese perché.
Perché il calcio si basa esso stesso sulla struttura del reality; ci sono prove, eliminazioni, alterni destini; perché dall’avvento di Sky e prima ancora Telepiù la telecamera non ha più confini che la trattengano; perché anche prima, ma prima prima prima, quando ci si limitava ad ascoltare la radio due ore a settimana, c’era un filo che legava il tifoso alla squadre e a ogni singolo calciatore (esattamente, come nella pubblicità della Ford) sette giorni su sette. Quindi l’idea stessa di Campioni zoppicava da principio perché sarebbe arrossita tentando di rispondere alla domanda: “Se già mi emoziono alla sola idea che esista Gigi Buffon, se trepido a ogni bollettino medico su Maradona, se mi sento un pezzo in meno alla morte di John Charles e ancora mi commuovo a vedere vecchie foto di Alviero Chiorri (baffuta mezzala della Cremonese dal 1984 al 1992), che [minchia di] bisogno c’è di creare una squadra di calcio dal nulla appositamente per farmi sforzare di affezionarmi a – come avrei poi appreso che si sarebbero chiamati – Rocca, Calanchi e Bertaccini?
Nel 2004 vivevo a Napoli e questo è grossomodo stato il discorso che (a parte la parola che ho racchiuso fra parentesi quadre) ho espletato mentre la mia coinquilina eliminava i fondi del caffè. Se la mia coinquilina non fosse stata una storica dell’arte canadese (nel senso di storica canadese dell’arte) bensì un rugbista di Civitavecchia avrei avuto sicuramente modo di essere più convincente. Fortuna vuole che nel 2004 vivevo a Napoli anche con un rugbista di Civitavecchia (non avevo più case, avevo più coinquilini), col quale talvolta festeggiavo il sabato andando a mangiare untissime tracchie da Nennella (Trattoria “da Nennella” – Via Lungo Teatro Nuovo, 103– ovviamente Napoli – guai a chi non ci va) così da poter fare al riguardo un discorso più articolato e convincente. Non sul calcio, però, sul ciclismo.
Nel 2004 vivevo a Napoli e non avevo il televisore, evenienza che trovo tragica in generale e maggiormente quando c’è il Giro d’Italia. Io e il rugbista di Civitavecchia, quando c’erano le tappe importanti, andavamo a nasconderci in un bar vicino al posto in cui eravamo pagati per stare, sperando che nessun collega passasse di lì e ci scoprisse a contare pedalate, battiti al minuto, chilometri e pendenze. Nel 2004 vivevo a Napoli e in un bar di Via San Sebastiano, alle quattro di un pomeriggio, ho scoperto Damiano Cunego e ho avuto la netta sensazione che avrebbe vinto anche pedalando al contrario. Nel 2004 vivevo a Napoli e mi svegliavo presto, andavo a fare colazione in un bar/pasticceria dietro casa (dove caffè e cornetto insieme costavano un euro) e coi soldi risparmiati mi compravo la Gazzetta dello Sport, a meno che non sapessi che l’aveva già comprata il rugbista di Civitavecchia. Solo una volta, nel 2004 a Napoli, in casa mia entrarono due copie della Gazzetta dello Sport, comprate indipendentemente da me e dal rugbista, poiché nessuno dei due voleva correre il rischio di rimanerne senza. In copertina c’era Cunego e Cunego era un fenomeno.
Cunego era un fenomeno e un miracolo, perché tre mesi prima avevo bussato alla porta della camera vicino alla mia per dire al mio coinquilino rugbista che era morto Pantani. Senza televisione e senza internet, avevamo trascorso la serata fino all’una di notte ad ascoltare la traballante radiolina che mi ha seguito in tutti i miei spostamenti prima di crepare a Modena qualche mese fa. Pantani non c’era più: non c’era più il ciclismo? Valeva la pena? Vedere gente che suda in bicicletta per elaborare il lutto? Tre mesi dopo, alle quattro del pomeriggio, in un bar di Via San Sebastiano io e il rugbista avevamo risposto che ne valeva la pena, ancora.
Perché se il calcio è un reality (e quindi non avrebbe avuto senso fare un reality sul calcio), il ciclismo è metafisico, e quindi non c’è modo di liberarsene. Vedere Cunego che avrebbe vinto il Giro anche saltellando sulla ruota posteriore della sua bici non stimolava tanto l’ammirazione per l’atto sportivo in sé, ma consolava dello spreco di Pantani. Era un’altra delle infinite storie accumulate in anni e anni di interminabili pomeriggi, a guardare corse piatte in cui sembrava non succedesse nulla e invece – e invece – erano il malto che ci consentivano di voler bene a ciascuno di loro, a Zulle che non sapeva fare le discese, a Breukink che era finito in un fosso, a Leblanc che aveva una gamba più corta dell’altra, a Perini che non aveva mai vinto una corsa, a Olano che vinse il mondiale con una ruota a terra, a tutti. Di ricordare il furgoncino contromano sulle strade di Atene (1996), il gatto che taglia la discesa del Chiunzi (1997), il signore vestito da diavolo (tutti i Tour de France da che io ho una memoria cosciente), e così via in eterno.
Il ciclismo, soprattutto, è metafisico perché mette l’uomo di fronte ai suoi limiti. Non dico solo le salite, la fatica, quelle sono parte del gioco. Il ciclismo è metafisico perché non puoi staccartene per il resto dell’anno e nessuna corsa finisce col traguardo. Nel 2003 vivevo a Pavia e un giorno arrivò il Giro d’Italia; dopo la premiazione, nel casino generale, incrociai Antonio Salutini (per gli ignoranti in materia, è un importante direttore sportivo) e prima ancora di spiegargli chi ero e cosa volevo gli chiesi come stava Cipollini. Qualche giorno prima Cipollini era caduto male e a me non interessava sapere se e quando sarebbe tornato a correre, o come sarebbero stati adattati i suoi allenamenti, o se sarebbe cambiata la tattica dei suoi rivali, mi interessava Cipollini come persona; la caduta aveva mostrato un limite, volevo sapere come stava per capire come stava fronteggiando il limite. Salutini rispose lasciando intendere che glielo chiedevano tutti – non gli chiedevano del corridore, gli chiedevano dell’uomo.
Il ciclismo mette l’uomo di fronte ai suoi limiti ed è il motivo per cui, se ci avete fatto caso, in qualsiasi altro sport si spera nella sconfitta dell’avversario mentre quando passa una corsa ciclistica si battono le mani senza distinzione, dal primo all’ultimo, e si battono le mani istintivamente. Accade per due motivi: primo perché, a furia di guardarli, li conosciamo tutti, e quelli che ancora non conosciamo siamo curiosi di conoscerli e capire dove possono arrivare e decifrare che persona sono, come reagiranno alla vittoria e alla sconfitta (nel 1998 una tappa partì da Matera e io rincorsi Missaglia per chiedergli se avesse visto Bugno, con la stessa confidenza con cui avrei chiesto alla coinquilina canadese se avesse visto il rugbista di civitavecchia; Missaglia senza batter ciglio rispose che era ancora in pullman, come la coinquilina canadese avrebbe risposto che era ancora in doccia). Poi perché, ed è più importante, l’avversario del ciclista è fuori dalla corsa, non si tratta di un altro ciclista ma dell’istinto a mettere il piede a terra, a piegarsi sul sellino a piangere perché non si riesce più ad andare avanti (Stéphane Heulot in maglia gialla, Tour de France 1996, settima tappa), a non allenarsi d’inverno e mangiare come un porco (Jan Ullirch tutti gli anni), a stringere verso le transenne e, ovviamente, a doparsi. Se il ciclismo iniziasse e finisse con la corsa, chi cade, chi cede, chi si dopa sarebbe uno sconfitto, un fallito e un reprobo; ma il ciclismo dura in eterno, giorno dopo giorno, e tutti i tifosi spingono ogni corridore nella continua lotta contro sé stesso.
Nel 2004 vivevo a Napoli e da allora un filo metafisico mi lega a Damiano Cunego, che avrebbe vinto il Giro anche in monociclo; lui non sa nemmeno che esisto ma io so della musica che ascolta, del matrimonio, della bimba, della mononucleosi, di tutti i suoi santi giorni. Lui non sa nemmeno che esisto, ma sa che quando sale sulla bicicletta io sono lì a spingerlo, e con lui tutti gli altri prima durante e dopo di lui, e con me qualsiasi tifoso, dovunque, comunque, sempre.
(A questo punto la scena prevede che mi telefoni il mio biografo di corte e mi chieda: “Scusa Gurrado, ma dove vivevi tu nel 2004?” “A Napoli, mi pare.” “Ah. Chissà che mi credevo.”)
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