Prima stavo lavando le mutande (a cosa mi sono ridotto) e m’è tornato in mente un episodio risalente a parecchi anni fa – grossomodo, a occhio e croce, alla seconda liceo (classico) – in cui una compagna di classe avendo saputo che io in futuro avrei gradito fare lo scrittore di professione (speranza che mai come negli ultimi tempi è stata ridotta a fuoco fatuo) mi aveva chiesto, appunto, come si facesse a scrivere. Risposta: “Ti siedi e scrivi”.
Ora, indubbiamente a sedici anni si dicono scempiaggini a frotte e alcune se ne fanno addirittura (aver iniziato a scrivere, in quegli anni lì, è indubbiamente una di esse) però c’è del vero nella mia risposta stando all’inciso che ho scovato nelle pagine auree di Everyman, l’ultimo romanzo di Philip Roth che ho appena letto nell’edizione Vintage e che perfino i muli sanno essere stato tradotto in Italiano con lo stesso titolo per Einaudi, con la sola differenza che la copertina tutta rossa è diventata tutta nera. L’inciso, che con le dita ancora profumate di detersivo economico mi sto affannando a ricercare pagina per pagina, era riferito alla pittura ma per la stessa generalità del verbo che utilizza può venire riferito a qualsiasi arte in generale, perfino a quella che a sedici anni tentavo di produrre con maggior serietà che oggigiorno, a ventisei; dice (l’ho trovato): “I dilettanti aspettano l’ispirazione; noialtri ci alziamo e ci mettiamo al lavoro”. La sentenza è attribuita a Chuck Close, un pittore i cui prodotti non mi fanno rimpiangere di vederci sempre meno, ma è presumibile che sia condivisa anche dallo stesso Philip Roth; il quale, com’è noto, s’è messo al lavoro a ventisei anni e non s’è fermato più.
Se c’è una cosa che colpisce in Everyman, a parte il contenuto stesso del romanzo, un breve spaccato di un’esistenza intera scandita da ricoveri e operazioni e racchiusa fra due scene di morte, il funerale del protagonista e la sua definitiva perdita di coscienza – dicevo, se c’è una cosa che in Everyman colpisce l’addetto ai lavori, lo specialista, il lettore di professione e il tentato romanziere è che pare quasi di sentire il ticchettio della tastiera nella casa deserta dell’autore. Può somigliarle, ma non è retorica; le 182 pagine (peraltro stampate in largo) dell’edizione inglese sono per così dire trasparenti, sembrano uno di quegli orologi da polso che non mostrano solo l’indefettibile scorrere delle lancette ma anche il meccanismo di rotelline sullo sfondo, e fanno capire quanta perizia e quanto talento ci voglia a stabilire che ora è.
Non mi è parso un riferimento casuale, di conseguenza, la passione che il protagonista matura in gioventù per gli orologi riparati dal padre, e le ore che trascorre a osservarne i meccanismi diversi per trarne una linea di condotta generale. Non fanno così anche i romanzieri, che leggono – almeno dovrebbero leggere – di tutto e all’infinto per poi estrarne un prodotto originale? Ancora, il protagonista non diventa orologiaio, come pure sarebbe stato comprensibile, ma prima grafico pubblicitario e poi pittore. Perché? Presumibilmente perché in entrambi i casi vuole decorare la tecnica di un valore aggiunto, che possiamo definire arte.
Philip Roth, in quanto autore, si comporta come il suo protagonista: arriva alla prosa artistica esclusivamente tramite un’infinita precisione tecnica, e Dio solo sa se non dovrebbe sempre essere così, sommersi da libri mediocri come siamo. Il principale piacere che ho ricavato dalla lettura di Everyman è consistito nella progressiva intuizione, pagina dopo pagina, del lavoro di limatura delle frasi e sistemazione delle parole compiuto dall’autore; che è la stessa cosa detta da Edmund Burke e perfino da Kant qualche secolo fa (come appunto avevo studiato a sedici anni, quando rispondevo avventatamente alla mia compagna di classe) riguardo al piacere che si ricava dall’osservazione di un oggetto costruito perché risponda a uno scopo preciso, ossia il giudizio teleologico. Leggendo le pagine di Everyman senza riuscire a interrompersi prima di averlo finito si percepisce distintamente il bello e si intuisce, in lontananza, il sublime.
Se non che, si fosse limitato a questo, Philip Roth avrebbe reso il suo romanzo un esercizio rococò; invece gli ha conferito dello spessore legando il protagonista a una storia che va nella direzione esattamente opposta al perfetto meccanismo degli orologi e al valore estetico aggiunto alla tecnica, ossia il lento, inevitabile, imprevedibile e incomprensibile deterioramento del corpo. Quando il protagonista ancora fanciullo immagina di fare lo scrittore (come chiunque finisca poi per fare un altro mestiere, volente o nolente), progetta un romanzo che si sarebbe chiamato Vita e morte di un corpo maschile. Quasi tutti i romanzi di Philip Roth traboccano di estetica del corpo, ma in Everyman si scorge distintamente che – nella cornice di morte che lo trascolora – il corpo è un ammasso di peccati (o comunque guai) e malattie, è l’apertura di un abisso sotto i piedi del protagonista, e lo chiama a un destino che rende inutile lo studio del meccanismo perfetto. Il corpo è sì un meccanismo, ma sempre difettato, e la malattia – l’improvvisa interruzione del corretto funzionamento – è un capriccio incoercibile che, di sicuro, ha solo la sua definitiva vittoria, immediatamente o nell’arco di qualche decennio.
Per questo Everyman è un breve capolavoro, perché contiene in sé stesso il proprio antidoto; è al contempo un’osservazione del sublime e – duecentottant’anni dopo Alexander Pope – una specie di Perì Bathous (Dell’Abisso, ossia l’Arte Poetica dell’Affogamento), parodia alla stessa poetica del sublime. L’uomo può osservare, concepire, produrre un meccanismo perfetto, poi si tocca sotto l’inguine e scopre che c’è una protuberanza che non va, e non riesce a razionalizzarla.
Il riferimento colto più trasparente è quello del titolo stesso, che riprende quello di un dramma morale del XV secolo in cui l’uomo, ossia Everyman, Ognuno, deve districarsi dalle grinfie della Morte ma, soprattutto, sa che può sconfiggerla soltanto con la salvezza ovvero santità, cioè con la vita eterna. Philip Roth priva il protagonista di questa prospettiva escatologica, mostrandoci la sua completa assenza nella prima scena, in cui la sua figura viene delineata dai discorsi commemorativi, e chiudendo il romanzo con la perdita dei sensi e la frase “Non era più”. Per questo motivo andrà all’inferno, ma non si può negare che, nell’economia narrativa del testo, non ci sarebbe stata soluzione più ragionevole e dovuta.
Il riferimento colto più trasparente è quello del titolo stesso, che riprende quello di un dramma morale del XV secolo in cui l’uomo, ossia Everyman, Ognuno, deve districarsi dalle grinfie della Morte ma, soprattutto, sa che può sconfiggerla soltanto con la salvezza ovvero santità, cioè con la vita eterna. Philip Roth priva il protagonista di questa prospettiva escatologica, mostrandoci la sua completa assenza nella prima scena, in cui la sua figura viene delineata dai discorsi commemorativi, e chiudendo il romanzo con la perdita dei sensi e la frase “Non era più”. Per questo motivo andrà all’inferno, ma non si può negare che, nell’economia narrativa del testo, non ci sarebbe stata soluzione più ragionevole e dovuta.
Infine - poiché ogni parola che scrivo in più vi allontana dal momento in cui inizierete a leggere il romanzo, se non l’avete già fatto – il protagonista di Everyman è forzatamente anonimo, ma non del tutto. Viene specificato che suo padre, orologiaio e gioielliere, aveva voluto attirare clienti chiamando il suo negozio “Everyman’s Jewelry Store”; trovata commerciale che (oltre a spostare la focalizzazione dell’insegna dal produttore al fruitore, ma questa è un’altra storia) consente a Philip Roth di collegare genialmente il protagonista dell’antico dramma morale al contenuto del suo romanzo, giustificando la scelta del titolo di là dallo sfoggio di erudizione. Giustificando anche, peraltro, l’assenza del nome del protagonista, al quale fa sempre riferimento col pronome singolare maschile (e vi assicuro che in Italiano ci si riesce bene o male, visto che possiamo elidere il pronome e limitarci alla forma verbale, mentre per risultare scorrevoli in Inglese bisogna necessariamente essere appunto Philip Roth): assenza che non è completa perché si presume, come dimostra il suo stesso destino di orologio scassato, che il protagonista abbia ereditato il nome che suo padre ha scritto, pensando a tutt’altro, sull’insegna della bottega.
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