(copyright Ore Piccole)
Con una premessa del genere, posso rinunziare al mio stesso proposito più ancora che se mi fossi presentato a una signorina esordendo: “Adesso la seduco”, o “Adesso ti seduco” se fossi abbastanza coraggioso da dare subito del tu. Eppure se c’è una cosa che in Inghilterra non hanno ancora imparato (né forse impareranno mai) è evitare di tappezzare le locandine dei teatri o le insegne dei ristoranti con una serie infinita di auto-complimenti, che il più delle volte ripetono ovunque le stesse tre parole benché creativamente disposte in ordine differente. Per non parlare delle copertine dei libri; se a uno arriva in mano una copia di On Beauty, l’ultimo romanzo di Zadie Smith (in Italia l’ha tradotto Mondadori come Della Bellezza) non può fare a meno di notare che – di là dal vanto per essere stato incluso fra i finalisti dell’Orange e del Man Booker Prize, e si noti, non per aver vinto, ma per essere stato incluso nei finalisti, vanto pertanto che ha lo stesso peso specifico delle dichiarazioni di Moratti dopo gli scudetti dell’Inter – dicevo, non si può fare a meno di notare che la copertina, ossia l’oggetto/libro, in ogni centimetro quadrato che sarebbe meglio aver lasciato vuoto non fa altro che ripetere quanto il libro stesso, cioè il contenuto, sia divertente. Il libro è “wonderfully funny” nella recensione dell’Observer citata in prima di copertina, “entertaining” in quella del New York Times, “fun, entertaining and beautiful” in quella (nientedimeno) che dello Scotland on Sunday e soprattutto – poiché mancava spazio per le recensioni di Gone Fishing!, di The Presbyterian Royalist ed eventualmente di Zoo, il settimanale delle donne nude a portata di mano – “very funny indeed” nella conclusione scelta dal triste compilatore per il (lungo) riassunto in quarta di copertina, così da fugare ogni possibile dubbio.
La patina di scetticismo, tuttavia, sul volto di Zadie Smith nella fotina che affianca la sua sintetica biografia avrebbe dovuto fungere da deterrente. Benché la copertina presupponga che il lettore dovesse iniziare a sorridere nel momento in cui gli giunge notizia che Zadie Smith ha pubblicato un nuovo romanzo, e che dovesse recarsi tutto contento in libreria e cercarlo ridacchiando fra gli scaffali, pagare sghignazzando alla cassa e rotolarsi incontinente sul pullman che lo riporta a casa - benché la casa editrice Hamish Hamilton (dell’impero Penguin) presupponga tutto questo, On Beauty non fa ridere. Fa alzare qualche sopracciglio, fa guardarsi intorno sottilmente compiaciuti, fa passare un po’ d’aria fra le froge e talvolta sollevare uno dei due angoli della bocca, ma per buona parte del tempo fa venir voglia di fare altro e, soprattutto, fa rimpiangere di aver prestato fede alla copertina e di essersi seduti pieni di aspettative. Se non fosse stato un libro tanto divertente, avrebbe fatto ridere di più.
Fra i vari motivi per cui On Beauty non fa ridere, uno dei principali è Evelyn Waugh, o P.G. Wodehouse o Tom Sharpe o qualsiasi altro umorista inglese ci abbia abituati troppo bene. Costoro hanno creato un sistema umoristico perfettamente conchiuso che è particolarmente difficile riuscire a scardinare, a meno di essere un genio comico. Raggelante quantunque, l’humour inglese vive su una serie di leggi intrinseche la cui possibile deroga fa venire in mente la reazione – questa sì, raggelante – della regina Vittoria: “We are not amused”, non siamo divertiti.
Fra i vari motivi – bis – per cui On Beauty non fa ridere, il più credibile è David Lodge, sdentato ex professore che ha portato la satira dell’ambiente accademico a un livello potenzialmente superabile soltanto da un eventuale prossimo romanzo di David Lodge. Quando Zadie Smith ha scelto l’argomento del suo romanzo, avrebbe dovuto pensarci due volte prima di dare vita alla saga di Howard Belsey, un professore d’arte inglese che insegna in America e, insieme alla sua famiglia, incarna il perfetto progressista postmoderno, contrapposto a Monty Kipps, uno studioso del Trinidad che insegna in Inghilterra e, soprattutto, è ultraconservatore, teocon, cristiano – insomma, costituirebbe il peggior incubo di Fabio Fazio. Per sommi capi, la stessa storia viene raccontata da Lodge in Scambi, che è di trent’anni fa ma che forse qualche sconsiderato non ha ancora letto. Io l’ho letto (su un volo Alitalia il 4 novembre 2005, guai a chi osa dire il contrario) e, per quanto tentassi scientemente di trattenermi, a ogni apporto personale di Zadie Smith mi sorprendevo a rimpiangere di non star leggendo David Lodge. Avrebbe dovuto pensarci ventidue volte, duecentoventidue, duemiladuecentoventidue.
L’intento di Zadie Smith è quello di fornire una satira ancipite di entrambi gli ambienti (progressista e conservatore), e questo è il terzo motivo per cui non fa ridere. Vuole mettere in ridicolo sia la “perversa politica dell’iconoclasmo destrorso” (p.29) sia demolire le convinzioni di plastica del più ritrito progressismo atlantico. Non ci riesce. Ho l’impressione che, se avesse scelto fra uno dei due partiti, il romanzo sarebbe stato più sanguigno e ne avrebbe guadagnato il lettore, di qualsiasi colore fosse, che si sarebbe divertito di più. La rapida alternanza di colpi al cerchio e alla botte, invece, crea un equilibrio troppo fragile e può divertire solo, tanto per farvi un’idea, il recensore dello Scotland on Sunday (ma non quello di Zoo, il settimanale delle nudità incalzanti, il quale presumiamo abbia più sane e soddisfacenti ragioni di divertimento). C’è poca convinzione, ad esempio, nella voce della figlia di Kipps quando Zadie Smith le fa dire che “stare sempre sulle tracce dei liberali fa imparare a non diventare altrettanto stupidi”; per quanto sia esattamente la ragione per cui non mi perdo una puntata della Dandini, l’effetto narrativo è lo stesso di un ventriloquo sorpreso a muovere le labbra e guardato con disappunto dal proprio stesso pupazzo.
A mio immodesto avviso, c’è una ragione specifica di carattere generale. Non avendo letto gli altri due romanzi di Zadie Smith (Denti Bianchi e L’Uomo Autografo, immancabilmente recensiti come superbamente divertenti nella terza di copertina) nutro una speranza e un sospetto. La speranza è che le sue opere precedenti siano meglio, e che On Beauty sia magari un inciampo dovuto alla fretta di rispettare un contratto. Il sospetto è orrendo.
Il sospetto è che possa esistere una sola persona il cui mestiere consiste nello scrivere tutti i romanzi di Zadie Smith, di Dave Eggers, di Jonathan Safran Foer, di sua moglie Nicole Krauss – e, non fosse per la diversa lingua, aggiungerei a quest’elenco teoricamente infinito anche qualche scrittore fortunatamente lasciato in Italia. A leggerli tutti uno dietro l’altro, ci si rende conto che ovviamente cambiano i temi, i toni, le armonie, ma il ritmo sembra restare sempre lo stesso e, una volta chiuso il libro, resta in testa come un’ossessione irrazionale. Poiché tuttavia persisto nel farmi persuaso che questo signore, quest’autore universale, in realtà non esiste ma è un parto della mie mente, ho dovuto costruirmi una teoria scientifica che non c’entra più niente col romanzo di Zadie Smith ma, una volta che sto scrivendo, la scrivo.
Un mesetto fa un importante editor inglese lamentava sull’Observer come il livello dei manoscritti che gli arrivano da leggere sia notevolmente incrementato. Non diminuito, eh – aumentato: la gente scrive meglio e i meravigliosi romanzi scritti senza alcun rispetto per le regole della grammatica, della narrativa e del buon senso e ciò nondimeno ritenuti (dall’autore e da alcuni amici conniventi) meritevoli di pubblicazione ormai stanno diventando merce rara, quasi pregiata. L’editor medesima postulava che la colpa di quest’innalzamento del livello fosse da ascriversi ai corsi di scrittura, dai quali chiunque, fosse una capra o fosse Flaubert, uscirebbe con in saccoccia qualche nozione in più e molta ingenuità/freschezza/novità in meno. L’editor lamentava che alle volte non riesce più a distinguere quali romanzi ha già letto e quali ancora no, perché sia un ventenne di Sunderland sia una cinquantenne di Mayfair parlano con la stessa voce e cadono vittime dell’estremo paradosso, la clonazione delle anime; e chiunque, pur di diventare uno scrittore famoso, sta rinunziando alla possibilità di essere riconosciuto.
On Beauty ho finito di leggerlo ieri. Oggi c’è il sole e, poiché sono da tempo raffreddato come un ussaro sul tetto, ho definitivamente tentato di porre fine alle mie sofferenze sedendomi in giardino a leggere The Pickwick Papers, ossia Il Circolo Pickwick. Sulla copertina non c’è scritto che è divertente (o è scritto al massimo una volta sola) ma le cinquanta pagine su settecento che ho letto finora sono state accompagnate da distinte risate – non ammicchi, non brontolii, non guaiti, ma risate autentiche – che mi hanno guadagnato l’incondizionata simpatia degli inglesi i quali, com’è noto, sono tutti matti, a cominciare da Dickens, quindi se vogliamo divertirci ripartiamo da lì.
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