La cosa incredibile è che ci credessero davvero. C’era ad esempio un tipo biondo, gracile in maniera preoccupante e ondeggiante a seconda di dove lo portava il suo boccale di birra, che alla fine dell’andata, cinque minuti dopo che Rooney avesse buggerato Dida, stava ancora lì a congratularsi con sé stesso credendo di aver fatto il grosso, anzi, a quel che pareva credendo di aver scalato l’Himalaya col solo aiuto delle unghie.
Io invece la so lunga e ho capito che il Milan si sarebbe qualificato (stavo scrivendo: che ci saremmo qualificati, ma in tempi di trionfalismo è sempre bene tenere un certo distacco) quando Sir Alex Ferguson s’è fatto intervistare tre volte da ITV, una all’inizio, una alla fine e una fra il primo e il secondo tempo della partita d’andata. Sarà che, come mi hanno spiegato, è una tradizione locale e un gesto di educazione e rispetto nei confronti di giornalisti e tifosi, ma come linea di condotta generale io, se sto facendo una cosa importante, evito di fermarmi ogni mezz’ora per spiegare all’universo mondo cosa sto facendo, e come la sto facendo, e perché la sto facendo.
No, anzi: ho capito che ci saremmo, cioè, che il Milan si sarebbe qualificato quando prima ancora che la gara d’andata finisse, anzi, prima ancora che il Manchester United pareggiasse e credesse di aver raddrizzato un destino storto e nodoso, quando un anglico bianco e rosso seduto sul divano dietro al mio s’è lasciato commentare il compiaciuto commento (che traduco): “Ah, mi ricordo quando alla domenica pomeriggio Channel4 trasmetteva la Serie A”, per poi lasciarsi andare a un nostalgico urlo che, se non fossi già stato scosso nell’animo dagli eventi on pitch, mi avrebbe fatto sperare che o il mio o il suo divano sprofondasse: "Gooooolllllaaaaaassssssooooooo!”.
Ora che uno, per quanto inglese, sia convinto che in Italia i cronisti urlino in questa maniera, e che di conseguenza l’Italia e per soprammercato la Francia siano in fin dei conti uguali alla Spagna, al Portogallo e pure al Brasile decisamente non conosce l’avversario; e chi, per presunzione, non conosce l’avversario, necessariamente merita la sconfitta. Alla stessa maniera una settimana intera di dichiarazioni entusiastiche dei sostenitori del Manchester United sui giornali inglesi, alcuni dei quali sono seri, e soprattutto da parte del gracile biondino con la pinta di birra in mano non aveva fatto altro che confermarmi che questi non avevano ancora ben capito contro cosa, e contro chi, stavano per schiantarsi.
Novanta minuti a San Siro sono molto lunghi. Lo sanno bene i tifosi del Milan, soprattutto quando costretti a guardare degli squallidi 0-0 contro squadre indegne nei turni più inutili di campionato. Ma lo sanno meglio ancora gli avversari che il Milan ha via via fatto capitolare nella sua lunga e gloriosa storia europea, talmente lunga e talmente gloriosa che soltanto un interista si azzarderebbe a dire il contrario. Un esempio per tutti è il Real Madrid, che nel maggio 1989 si sentì forte del pareggio (1-1 in casa!) dell’andata e venne a San Siro per fare la mezza partita cosiddetta, sperando nell’episodio rocambolesco che li avrebbe catapultati in finale per l’inerzia del blasone. Risultato? Ancelotti, Gullit, Rijkaard, Van Basten e Donadoni: 5-0.
All’andata il Manchester United ha dimostrato che, quando si tratta di invadere in forze una città nemica, non hanno eguali e alla fine la spuntano comunque; al ritorno il Manchester United ha scoperto che entrare coi carri armati è facile, scendere dai carri armati no. Per il corpo a corpo di ieri sera, che mi aveva reso talmente nervoso da farmi inserire in mattinata un intero paragrafo su Gullit nella mia tesi riguardante Voltaire e la teocrazia ebraica, ho preparato le armi decidendo per il silenzio e il profilo basso. Mica per niente: ero seduto in mezzo a cinquanta inglesi di vario sesso (talvolta indistinguibile) e di varia dimensione. C’era il gracile biondino che, per quanto canna al vento, una pinta vuota poteva tirarmela appresso. C’era Mister Gollasso, che ha urlato molto meno di quanto si aspettasse. E c’ero io, l’unico italiano, l’unico milanista, l’unico a stare seduto in silenzio come se fosse a teatro.
Il profilo basso è finito all’undicesimo del primo tempo: quando abbiamo, cioè, quando Kakà ha segnato io sono scattato in piedi a braccia divaricate e pugni chiusi verso il basso, urlando anzi ruggendo parole che, essendo in Italiano, mi hanno garantito di sopravvivere. Poi mi sono guardato attorno e ho visto cinquanta inglesi, tutti seduti, tutti immobili, tutti zitti in un silenzio carico di rimprovero. Avrei dovuto mormorare delle scuse, poiché in fin dei conti sono ospite, ma poi ho pensato: scusate ’sta minchia, è la legge del più forte.
A poco a poco hanno ripreso coraggio ed ecco che nuovamente io nuovamente mi sono trovato in piedi a vedere Seedorf che raddoppiava e a pronunziare parole delle quali non comprendevo il senso e che probabilmente sono contenute nel libro dell’Apocalissi mentre una lingua di fuoco rossa e nera mi ornava il capo. Al terzo goal, mi usciva il fumo dalle narici e invece di esultare protestavo contro il cronista che per tutto il tempo aveva parlato di Gilardino come Gilardinho, pronunziandolo Gilardigno.Poi la linea è tornata allo studio. Io mi sono accasciato sulla mia poltroncina, stanco morto come se avessi giocato io; la lingua di fuoco si è ritirata, il fumo ha smesso di uscirmi dalle narici e avevo perfino dischiuso i pugni, restando coi segni delle unghie sul palmo delle mani. Gli inglesi, andandosene a poco a poco a meditare sui propri errori e a chiedersi se meglio non fosse non essere mai nati, non hanno potuto accorgersi che in tv la linea tornava allo studio e che, a commentare il dopopartita per sky, ci foss Ruud Gullit. Io me ne sono accorto invece, e ho pensato che – Ancelotti, Gullit, Seedorf, Kakà e Berlusconi – in fin dei conti non è cambiato molto, speriamo.
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