Sarebbe certo più patriottico leggere autori russi
ma, lo confesso, non nutro per questi scrittori
una tenerezza particolare.
ma, lo confesso, non nutro per questi scrittori
una tenerezza particolare.
(Anton Čechov)
Magari state in Inghilterra dove la temperatura è tracollata a nove gradi centigradi e piove come se fosse novembre, benché l’unica volta che sono stato in Inghilterra a novembre c’era continuamente il sole e non pioveva affatto; magari siete dei rugbisti e state in Irlanda a vagare per internet in attesa dell’amichevole internazionale di stasera (forza e coraggio) e vi consolate del ventaccio che spazza le verdi colline di Erin pensando che forse stasera il rugby in prima serata su La7 potrà avere degno seguito, visto che l’alternativa è un film orrendo con l’orrenda Julia Robers; magari state a Mantova, to’, a preparare l’esame di ammissione a medicina e siccome fa freddo e piove pure lì avete finito per raffreddarvi e siete stati costretti a mettervi una felpa, vergognandovene non poco a fine agosto. Fatto sta che io sto a Gravina, ci sono all’incirca quattrocento gradi (all’ombra e col frigorifero aperto) e la terra lancia vampate; così che, per quanto io mi sforzi di vestir leggero e grossomodo al momento indossi soltanto le mutande (questo non dico per sedurre le gentili lettrici, vi assicuro non c'è bisogno di tanto) non c’è verso di ragionare né tampoco di fare un discorso coerente, accurato, serio.
Se non facesse tanto caldo, ad esempio, potrei lanciarmi in una solerte intemerata contro Veltroni e il suo desiderio di accludere al suo nome una lista che comprenda tutto il meglio della società civile italiana. Quest’uomo ricoperto di buone intenzioni come un panino onusto di Nutella non s’è reso conto che così dicendo diceva altresì che le altre liste evidentemente non sono composte dal meglio della società civile italiana, e che quindi magari se uno sostiene Veltroni allora è una brava persona e un genio, mentre se sostiene Enrico Letta invece è un po’ sfigato, se sostiene la Bindi è addirittura Arturo Parisi e se sostiene Adinolfi evidentemente è qualcuno che sa chi è Adinolfi, pertanto è vivamente pregato di spiegarmelo. Che poi io li ho letti i cinquecento e rotti nomi che dovrebbero sostenere Veltroni, e m’è parso che al loro interno il meglio della società civile italiana sia Angela Finocchiaro (l’attrice, non la senatrice). Ovviamente se ne deduce che se a uno poi viene in mente di non votare alle primarie, peggio, di non sostenere il Partito Democratico, peggio, di non tatuarsene il simbolo sulla chiappa destra, peggio, di votare per un altro partito o, peggio, per un’altra coalizione è evidente che – altro che meglio della società civile italiana! – chi si comporta in maniera così puerile appartiene alla feccia della feccia. Insomma, è un coglione: ma detto dal bonario Veltroni fa tutto un altro effetto, suona carezzevole, sembra quasi un complimento e solo a stento ci si trattiene dal desiderio di ricambiare per non apparire troppo gretti.
Ma sono dichiarazioni estemporanee, le mie, ci mancherebbe. Se non stessi sudando tanto da iniziare a sospettare lo scioglimento del mio corpo, avrei fatto un discorso coerente, accurato, serio sulla superiorità morale della sinistra e sul perché Marina Sereni ha sempre quella faccia un po’ dispiaciuta dell’evenienza che il resto del mondo non riconosca il suo genio indiscusso. Che poi questa faccenda della netta distinzione fra dichiarazioni estemporanee e discorsi seri non è farina del mio sacco – non mi permetterei mai – ma viene dritta dritta da un’illuminazione del premier. Non c’è manco bisogno di specificarlo, credo: uno magari sta mangiando un gelato, o si sta facendo la barba, o sta corteggiando la fidanzata di un altro quando il mezzobusto del Tg1 immancabilmente assume la severa espressione di circostanza tipica dei funerali di Stato e riferisce: “Quelle sulla tassazione delle rendite sono dichiarazioni estemporanee, ma c’è bisogno di discorsi seri”, oppure: “Quelle sulla legge elettorale sono dichiarazioni estemporanee, ma c’è bisogno di discorsi seri”; e uno – che stia mangiando un gelato facendosi la barba mentre corteggia la fidanzata di un altro – prima ancora che il mezzobusto lo spieghi sa già che l’accorato appello viene da Prodi, l’uomo dei discorsi seri, il vendicatore delle dichiarazioni estemporanee, colui che facendosi forte dello slogan “la serietà al governo” ha girato tutta l’Italia su un tir giallo allo scopo precipuo di far diventare ministro Pecoraro Scanio.
Veltroni è troppo buono e Prodi troppo serio per comprendere che d’estate, con questo caldo, le dichiarazioni estemporanee vengono spontanee e che le buone intenzioni inacidiscono all’istante. Montezemolo, per dirne una, è come mia madre che non può prendere lo zucchero nel caffé, ma che ciò nondimeno si prepara il cucchiaino nella tazzina e poi si mette pure a girarlo con convinzione. Montezemolo uguale, ogni tanto si sveglia e decide di fare il Presidente del Consiglio: però come mia madre, solo col cucchiaino e senza zucchero. Quindi fa un discorso piuttosto sensato (che Prodi bollerebbe quale dichiarazione estemporanea e nel quale Veltroni faticherebbe a riconoscere il meglio della società civile italiana, visto che non si parla bene di lui) e spiega al governo come si governa e all’opposizione come ci si oppone; dopo di che, amen: rivendica che non sta mica al governo né all’opposizione, lui, e che quindi non può fare niente di niente.
Insomma, se in questo momento non stessi lasciando preoccupanti tracce di cellule morte per l’arsura sulla tastiera del portatile ci sarebbe da azzardare una spiegazione freudiana sul perché Montezemolo spieghi così bene agli altri il loro mestiere e poi si rifiuti di farlo; però abito su una villetta comunale assolata che è ricettacolo di originali guitti impegnati a urlarsi l’un l’altro incomprensibili fonemi di richiamo e lamento, pertanto mi limito a parlare del caffè. Mia madre ha l’abitudine di berlo dopo le quattro del pomeriggio, ma io preferirei prenderlo dopo pranzo; mica per vizio, ci mancherebbe, è che in questi giorni ne ho un disperato bisogno, avendo avuto l’avventato desiderio di iniziare a leggere i racconti di Čechov, milletrecento e rotte pagine, e io finisco sempre i libri che inizio, sempre che non muoia prima di vecchiaia. Così ogni pomeriggio, subito dopo pranzo, mi metto mesto mesto col mio enorme e azzurro volume čhecoviano, e leggo per una, due, tre ore, insomma finché non mi addormento col naso sul muro o fino a quando nel mio cervello non prende il sopravvento l’arguta considerazione di Achille Campanile sulla narrativa russa, più arguta di un’intera biblioteca di critica letteraria specifica: e cioè che i romanzi russi si caratterizzano tutti per il triplice esplicito intento di non far capire al lettore cosa stia accadendo, a chi, e perché – il tutto per un numero di pagine prossimo all’infinito. E dire che per quanto sostenuto da Achille Campanile nella mia idiosincrasia, di tanto in tanto ci riprovo a farmi piacere i russi, ormai da anni: lessi Delitto e Castigo al liceo, fra atroci sofferenze che cessarono miracolosamente una volta che finì il romanzo; Guerra e Pace è perfetto da regalare a chi vi ha fatto del gran male; Padri e Figli di Turgenev ha l’unico pregio di durare esattamente quanto un viaggio da Pavia a Desenzano ma non per questo è meno noioso di uno scompartimento vuoto d’inverno – che altro? ah, l’orrore, l’orrore: La Madre di Gorkij è più che sufficiente a ringraziare la divina Provvidenza che l’ha fatto morire di tubercolosi; e la sola idea che ancora mi manchino Mandel’štam, Lermontov, Pasternak, la Achmatova e un’altra sporca dozzina già mi fa rimpiangere di essere nato.
Non so, sarà che la grafia cirillica è particolarmente scomoda e quindi fa venire voglia agli autori di vendicarsi su lettori innocenti, sarà la cattiva alimentazione, sarà che la Russia è una nazione atipica che quando vuol farsi due risate manda i cacciabombardieri contro gli aeromobili britannici – fatto sta che queste poco avvincenti letture trascorse a sperare ogni volta che la fine del mondo facesse finire il libro prima del tempo mi hanno aiutato ad apprezzare quel poco di buono che da lì è arrivato: Gogol’ innanzitutto, qualcosa di Puškin (soprattutto La Donna di Picche), Il Maestro e Margherita di Bulgakov (ma non tutto il resto), le cose più brevi di Dostoevskij (Le Notti Bianche) e di Tolstoj (Padre Sergij); e soprattutto il vero e presumibilmente insormontabile capolavoro della letteratura russa, Oblomov di Gončarov: un romanzo talmente bello che sembra essere stato scritto da qualche altra parte, tant’è vero che qualche tempo fa lo consigliai a Vicky che è lettone e che mi aveva chiesto libri che non avesse già letto in russo (lei i russi li ha letti tutti, un giorno le chiederò di raccontarmeli sinteticamente); solo dopo un paio di minuti ho capito di aver detto qualcosa di piuttosto offensivo per lei e per tutta una nazione.
Certo, si fa per scherzare, sono dichiarazioni estemporanee e mica discorsi seri; anche perché io non appartengo al meglio della società civile italiana e sono piuttosto un delinquente. Stabilito questo, però, valga l’esortazione generale a diffidare di quelli che si vantano di amare gli autori russi (tranne Vicky, ci mancherebbe): perché o desiderano ingannarvi o non li hanno letti affatto, e per fare la figura degli intellettuali aperti al mondo (di solito sono gli stessi che dicono di trovare adorabile il cinema iraniano, o il cibo africano, o Veltroni) pronunziano Tolstoj con la prima o aperta, spalancata quasi fosse una a - Tàlstoj. L’unica risposta che meritano è quella di Oreste del Buono: “Ma quale Tàlstoj del cozzo!”.
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