E c’è sempre lì quello che parte
Ma dove arriva se parte
Sempre ammesso che parte
(Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto)
Scusate, “la” o “le”? Dall’indegno polverone, dalla ridda di voci discordi che s’è sollevata alla notizia, ieri, che Maria Vittoria Brambilla (potremmo chiamarla Emmevubbì) ha registrato il nome e il marchio del Partito della Libertà (una), altro non s’è sentito che gente dire e scrivere sui giornali questo o quell’altro riguardo al Partito delle Libertà (tante), che è cosa leggermente diversa, o declinare indifferentemente la/le Libertà in questione al singolare o al plurale (tanto per dire: su Il Giornale di oggi il titolo parla della Libertà e l’editoriale delle Libertà), o – nel caso dei giornalisti televisivi – limitarsi a smozzicare le parole e informarci sul nuovo Partito dell[segue vocale inintelligibile, quel dittongo muto che invano le nostre professoresse di Inglese alle medie inferiori hanno tentato di insegnarci per tre anni] Libertà.
Non per niente, ma se iniziamo a fare confusione sugli articoli non va mica bene. Già non s’è capito per una buona mezza giornata se questo partito fosse un ulteriore affiliato alla Casa delle Libertà (al plurale – forse, hanno fatto tanto casino da mandarmi in confusione), se è un contenitore vuoto nel quale eventualmente confluiranno gli aderenti al partito unico (ma allora che ci fa alle elezioni di Courmayeur?), se è il partito di Brambilla Michela Vittoria (potremmo chiamarla Biemmevvù; ma allora perché ha ceduto il simbolo a Berlusconi?), se è il nuovo partito di Berlusconi (e Forza Italia la vendiamo a metà prezzo come partito usato?), insomma non si capisce un accidente. Si capisce soltanto che se si vuole avere qualche notizia chiara non bisogna guardare – nemmeno in caso di necessità estrema - il Tg3, che ieri notte ha riferito la notizia in maniera talmente confusionaria da farmi credere che lo speaker stesse avendo una crisi epilettica, e talmente imparziale da concludere testualmente: “Berlusconi smentisce a modo suo”. Si capisce anche un’altra cosa, però, e mi ha fatto specie di non averla trovata scritta da nessuna parte; quindi la scrivo io.
Michela (Vittoria) Brambilla può piacere o non piacere. Di sicuro è alta, è bella, ha una meravigliosa capigliatura fulva (mi piacciono le rosse) (ognuno ha le sue debolezze) (che ci volete fare) e ci tiene oltremodo a presentarsi bene, a colpire con l’aspetto. Alta e bella quantunque, non sta ferma (altrimenti sarebbe una statua – la statua della libertà, appunto, o delle libertà, a seconda) anzi si muove con rapidità napoleonica del tutto estranea alla politica nostrana (che di rapido ha solo la corsa alle poltrone) e se dice che fa una cosa, la fa. Questo perché non è una politica di professione e quindi è abituata, dalla sua storia personale d’imprenditrice, a fare piuttosto che a dire; ciò non toglie che dice e dice, quindi ha una notevole presa comunicativa soprattutto su chi non è appassionato di politica e la segue distrattamente, si annoia, cambia canale – a meno di vedere all’improvviso una rossa alta e bella che dice cose sensate e per giunta le fa.
Ora, la reazione snobistica di Prodi – che in Inglese sarebbe stata definita stiff upper lip, espressione raffinata e intraducibile che in questo caso, riferendosi a Prodi, potrebbe essere tradotta soltanto in termini irripetibili – mi ha fatto pensare lì per lì alla parabola del cardo. La sapete? Male se non la sapete, vuol dire che leggete troppa Repubblica e poca Bibbia, guardate troppi Tg3 e andate poco a messa. La parabola del cardo (Giudici 9, 8-15) racconta degli alberi che decidono di darsi un re; viene scelto per primo l’ulivo (che prima di venire usato da Prodi era un albero nobile e utile), ma questi declina la nomination: “Rinunzierò forse al mio olio, grazie al quale si onorano dei e uomini, e andrò ad agitarmi sugli alberi?”. Viene scelto allora il fico (evitate le battutacce), il quale pure rifiuta: “Rinunzierò alla mia dolcezza, al mio frutto squisito, e andrò ad agitarmi sugli alberi?”. La terza scelta è la vite (i cui benefici effetti abbiamo saggiato tutti almeno una volta, spero), ma si fa da parte anch’essa: “Rinunzierò al mio mosto che allieta dèi e uomini, e andrò ad agitarmi sugli alberi?”. Alla fine viene scelto il cardo che, essendo buono soltanto a pungere, non ha niente da sacrificare e quindi è perfetto per il governo. Prodi è il cardo, per questo si irrita quando vogliono far re la vite (o il fico, o un ulivo che non è il suo).
Ieri – non l’ha detto nessuno, ma s’è visto chiaramente – s’è verificata una prima, istintiva divisione fra le viti e i cardi: le viti ritengono che in politica si debba dimostrare di essere stati e di essere ancora buoni a qualcosa d’altro, e inoltre sanno benissimo che chi ha combinato qualcosa d’altro nella vita, entrando nell’agone politico, ha da perdere più di quanto possa guadagnare; tuttavia corrono questo rischio. Michela Vittoria Brambilla (Emmevubbì Biemmevvù) poteva dire parafrasando: “Rinunzierò forse alla vita agiata, al lavoro redditizio, ai vestiti eleganti e ai miei bei capelli rossi?”; non l’ha detto, e ha deciso di sporcarsi le mani. I cardi, dal canto loro, ritengono che la politica debba essere il rifugio di chi non sa fare molto altro (bandisco immantinente un concorso a premi: cosa ha fatto Prodi di buono prima di diventare ministro nel quarto governo Andreotti, circa trent’anni fa? e dopo?) e che per farla non si debba (saper) fare altro. Ne consegue che per i cardi (e per gli ulivi di nuova generazione) ogni caratteristica che il mondo giudica positivamente divenga, una volta immersa nell’acido muriatico della politica, un difetto insormontabile: la ricchezza è un crimine, la bellezza una colpa, la capacità di fare ciò che si dice una pericolosa tendenza autoritaristica.
Come insegna il buon senso, e come diceva Aristotele che aveva sempre ragione, la soluzione sta nel giusto mezzo: ci vogliono i politici di professione (poiché la politica è un mestiere e bisogna saperlo fare) e ci vogliono i professionisti prestati alla politica (poiché si può far politica anche sapendo fare un altro mestiere). Ben venga la Brambilla, dunque, e ben venga chiunque sa darsi una mossa. Dal punto di vista strettamente politico, di là dalla distinzione fra cardi e viti, ieri non è successo niente di importante. Si è semplicemente detto pubblicamente che un’idea e un nome che ronzano in testa a più persone da tempo ora esistono veramente perché sono regolarmente depositati presso un notaio. Stanno lì, nessuno se li può rubare, ora tutto sta a utilizzarli a tempo e modo opportuni. L’importante è non fare la fine del Partito Democratico. A proposito del Piddì: ma hanno depositato nome e simbolo, o sono troppo impegnati a decidere chi mette per primo i piedi in testa agli altri?
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