mercoledì 26 settembre 2007

Vero falso

(Gurrado per Ore Piccole)

Come considerazione generale, si potrebbe notare che paradossalmente un romanziere raggiunge il massimo successo quando la propria fama viene superata da quella del personaggio che egli stesso ha creato. Se ciò accade, è perché è riuscito in tre imprese difficili: a raggiungere con la sua opera un numero enorme di lettori, a convincerli dell’esistenza del personaggio mediante una solida plausibilità narrativa, a renderli affezionati al personaggio grazie al delineamento di pochi tratti precipui e particolarmente amabili (o particolarmente deprecabili) che lo facciano percepire come vivo e presente, del tutto umano.

Tanto è accaduto, indubbiamente, ad Arthur Conan Doyle con Sherlock Holmes, la fama del quale ha trasceso quella dell’autore stesso fino a renderlo maschera a sé stante e per certi versi marchio di fabbrica, col tipico copricapo e la pipa sempre fumante. L’imprevedibile penetrazione di Sherlock Holmes nell’immaginario collettivo (così che lo conosca anche chi non ha mai letto un romanzo in vita sua) lo ha di fatto svincolato dal proprio autore, e lo ha reso per certi versi “di pubblico dominio” – grazie soprattutto, non va dimenticato, alla straordinaria vivacità descrittiva di Conan Doyle. Egli stesso anzi dovette rendersi conto della dispettosa indipendenza del personaggio quando, avendolo fatto morire ne L’Ultima Avventura, dovette risuscitarlo con uno stratagemma narrativo ne L’Avventura della Casa Vuota, a furor di pubblico.
“Rivelando” che nei tre anni trascorsi fra la sua presunta morte e la sua ricomparsa in realtà Holmes aveva prestato servizio (segreto) per il governo britannico, di fatto Conan Doyle dava il proprio placet all’idea che la sua creatura si muovesse indipendentemente dalla volontà dell’autore, e che quindi esistesse una cesura fra il “personaggio” e la “persona” di Sherlock Holmes. Questo ha dato il via a un filone narrativo iniziato nel 1928 (due anni prima della morte di Conan Doyle) con l’articolo pseudo-accademico di Ronald Knox, Studies in the Literature of Sherlock Holmes: lo studioso partiva dal presupposto della reale esistenza dell’investigatore di Baker Street per costruirgli addosso un’ironica ragnatela di rimandi. Su scala del tutto diversa, lo stesso sarebbe avvenuto al cinema pochi decenni dopo con La Vita Privata di Sherlock Holmes di Billy Wilder (1970) e con Il Fratello più furbo di Sherlock Holmes di Gene Wilder (1975).

In ordine di tempo, l’ultimo tassello a questa raffinata tradizione di giochi letterari è stato aggiunto da Laurie R. King, scrittrice americana che s’è appropriata di Sherlock Holmes inventando Mary Russell, la sua giovane apprendista poi divenutane moglie nonché inseparabile assistente. Degli otto romanzi che la King ha pubblicato sulle loro inchieste, Neri Pozza ne ha tradotti due: dopo L’Allieva e l’Apicultore, è appena arrivato Il Gioco.

Si tratta di una spy story ricca di colpi di scena, pertanto del viaggio di Russell e Holmes nei più gelidi anfratti dell’India coloniale si può dire ben poco senza rovinare la sorpresa al lettore. Tuttavia meritano di essere messi in evidenza tre elementi che rendono Il Gioco gradevole anche ai non abituali divoratori di libri gialli. In primo luogo l’abilità mimetica di Laurie R. King: come Watson in Conan Doyle, Mary Russell è al contempo testimone privilegiata delle indagini di Holmes, ingranaggio indispensabile nel loro meccanismo e, soprattutto, voce narrante. La narrazione autodiegetica (ben tradotta da Valeria Giacobbo) viene condotta con notevole sapienza dalla King, che riversa nel testo tutta la sua conoscenza dei costumi (presumibilmente appresi dalla letteratura) del primo novecento inglese, così da far risuonare senza soste per più di quattrocento pagine la voce di una spregiudicata e ironica giovane donna del 1924.

Un ulteriore motivo di interesse è l’acutezza con la quale Laurie R. King spiazza il lettore ottenendo un continuo attrito fra le rigide esigenze dei paletti posti dal romanzo storico – il primo governo laburista, sotto Ramsay MacDonalds; i complicati rapporti con l’Unione Sovietica da poco costituita; il non facilmente identificabile terrorismo di matrice socialista – e la necessità di inventare nei dettagli una storia di spionaggio in una regione inesistente (della quale fornisce però precisa mappatura).


Soprattutto, degna di nota appare la ragione che muove Holmes, e con lui sua moglie, a prendere parte al gioco spionistico cui fa riferimento il titolo. Alcuni lettori, anzi, potrebbero cogliere nel titolo stesso un fugace riferimento al gioco sopranazionale che si conclude alla morte dei giocatori, secondo la definizione datane da Rudyard Kipling in Kim. È proprio alla ricerca del disperso Kimball O’Hara – conosciuto dall’investigatore nei tre anni della sua presunta morte, e ormai diventato un signore di mezz’età ma ancora al servizio della Corona – che si muove la famiglia Holmes, finendo nelle grinfie di un governatore sadico, squilibrato eppure del tutto lucido secondo una pittoresca metafora della follia politica del XX secolo. Un altro personaggio sfuggito di mano al proprio autore, dunque: così che, quando sua moglie gli chiede stupita se davvero “il ragazzo di Kipling” sia una persona reale, Sherlock Holmes può serenamente risponderle: “Quanto lo sono io”.

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