venerdì 28 settembre 2007

Lo scozzese giapponese: intervista ad Alan Spence

(Gurrado per Stilos: il quindicinale dei libri, anno IX n.18)

Il quinto romanzo dello scrittore e poeta scozzese Alan Spence, Terra Pura, è il primo a essere tradotto in Italia. Non sorprende, poiché si può facilmente rinvenire un afflato universale nella storia transoceanica di Thomas Blake Glover, giovane dipendente di una ditta di esportazioni, che nel 1859 si vede trasferito da Aberdeen a Nagasaki. Dalla storia (vera, sia detto incidentalmente) di Glover, Spence ricava un lungo romanzo che ha tre chiavi di lettura.

La prima è storica. A metà del XIX secolo il Giappone era letteralmente un altro mondo rispetto all’Europa e in particolare rispetto al piccolo sistema chiuso di Aberdeen, al quale l’autore fa significativamente riferimento come “il mondo conosciuto”. Il Giappone, per contrasto, assume la valenza di un territorio da esplorare e dalle potenzialità ipoteticamente infinite: in questa miniera di affari (alcuni loschi) e di politica Thomas Glover saprà infilarsi arditamente e ne riceverà gloria, fama, denaro, così da diventare nel giro di una decina d’anni uno degli uomini più potenti dell’intero Giappone – niente male per uno Scozzese.

Va rimarcato come lo sfondo storico del romanzo di Spence presenti implicitamente il Giappone come terreno aperto tout court. L’avventura giapponese di Glover inizia infatti solo cinque anni dopo la riapertura dei porti a seguito dell’isolamento commerciale decretato più di due secoli prima, nel 1639. Nel corso di questi duecentoquindici anni di chiusura il Giappone – per così dire – si cristallizza, diventa una realtà a sé stante del tutto aliena al progredire del resto del mondo. Questa distanza culturale viene percepita appieno già dai familiari di Glover, ad Aberdeen, e si riverbera nei loro timori che il giovane, una volta sbarcato a Nagasaki, finisca con la testa mozzata per via delle leggi complesse e incomprensibili alla sensibilità occidentale che regolano i rapporti fra il mikado (l’imperatore, che aveva per lo più compiti cerimoniali), lo shogun (il detentore del potere esecutivo e giudiziario) e i semplici sudditi, per non parlare dei nuovi venuti dall’estero.

Il talento di Glover sta proprio nell’evitare accuratamente la decapitazione, o qualsiasi altra pena corporale, compenetrandosi come nessuno mai nelle maglie apparentemente insuperabili della società e della cultura nipponiche: e qui sta, a un livello più generale, la seconda chiave per leggere Terra Pura. Di là dalla storia personale di Glover, si tratta di un romanzo sulla difficile interrelazione fra due culture del tutto difformi, quali quella ben radicata nel mondo anglosassone, culminante nell’istituzione giuridica dell’habeas corpus, e quella non altrettanto garantista del lontano oriente. Lì dove i colleghi occidentali di Glover incontrano notevolissime difficoltà (tanto che uno di essi, sir Laurence Oliphant, lamenta i propri reiterati e frustranti “sforzi di venire a patti con questo paese glorioso ed esasperante”), l’intraprendente scozzese vede delinearsi un sentiero che conduce direttamente all’espansione commerciale prima e alla diretta ingerenza politica poi, tradendo così uno dei due principi basilari del timoroso commercio britannico (l’altro è “attento a con chi fotti”: anche in questa circostanza, tuttavia, Glover si rivelerà piuttosto disinvolto).

Ciò che caratterizza Glover, e che manca a sir Oliphant e a tutti i suoi altri colleghi di varia risma, è la capacità di mimetizzarsi appieno, di trasferirsi in Giappone anima e corpo. Al suo breve ritorno ad Aberdeen, sette anni dopo aver lasciato la Scozia, Glover avverte che non si sentirà a casa finché non rivedrà il porto di Nagasaki. Il suo desiderio di adattarsi completamente alla cultura giapponese traspare dall’entusiasmo col quale, sin dal primo giorno, tenta di apprenderne la lingua – lingua che alle orecchie occidentali suona disperante, secondo le parole di un altro personaggio inglese, sir Rutherford Alcock: “Non ha generi per i sostantivi, non ha articoli determinativi, usa innumerevoli forme diverse per rivolgersi alle persone, a seconda del rango, e ha una pletora imbarazzante di verbi”.

Nella lingua sta appunto la terza chiave di lettura del romanzo. Gli sforzi di Glover sono ben sintetizzati dal tentativo di adattare i sintagmi giapponesi ai fonemi britannici, ottenendone soluzioni piuttosto comiche ma efficaci, tali che watakashi (“io”) diventi waterkoosh, omai (“tu”) diventi o my, e così via. Il massimo punto di contatto fra Glover e la cultura giapponese è ben simboleggiato da Spence nella trascrizione dello stesso nome del protagonista, dovuto alle difficoltà fonetiche dei giapponesi: così che Thomas Blake Glover divenga Tomasu Bureku Guraba. È Glover stesso, non frapponendo alcuno iato fra il suo essere Glover e il suo essere Guraba-san, ad accogliere in sé la cultura giapponese, venendone ricambiato con la rapida gloria e il tanto denaro cui facevamo riferimento in precedenza. La completa fusione si verifica con la nascita dell’unico figlio destinato a sopravvivere, al quale si decide di dare lo stesso nome del padre: non Thomas Glover, tuttavia, ma Tomisaburo Guraba. Solo a questo punto le due culture si toccano e Glover diventa a pieno titolo, secondo la definizione del Times Literary Supplement, un vero samurai scozzese. Stilos ha intervistato Alan Spence.

Quella di Thomas Blake Glover è una storia vera, presumo piuttosto nota in Scozia. Cosa l’ha spinta a riscriverla sotto forma di romanzo?
A dire il vero la figura di Glover è più nota in Giappone che in Scozia. Spero che il mio libro, insieme ad altre iniziative, possa contribuire a cambiare le cose. Qualcosa anzi è già accaduto: lo scorso anno il parlamento scozzese ha dedicato una cerimonia speciale al centenario della sua nascita! D’altra parte la storia di Glover è un tale concentrato di avventura, amore e intrigo politico che – una volta conosciutala nel dettaglio – non ho potuto resistere dal raccontarla a mio modo. Tanto più che sono sempre stato affascinato dalla cultura giapponese, sin da ragazzo.

Nonostante questo precoce fascino per l’esotico, lei ha esordito trent’anni fa con una raccolta di racconti tutti ambientati a Glasgow, Its Colours They Are Fine. Qual è stato il percorso letterario e intellettivo che l’ha portato fino in Giappone?
Come dicevo in precedenza, il mio amore per il Giappone, per il suo infinito fascino paesaggistico e culturale, risale alla mia infanzia. Più di trent’anni fa, e quindi prima ancora di esordire nella narrativa, ho iniziato a comporre degli haiku, e non ho mai smesso. Sono sicuro di essermi reincarnato almeno una volta in Giappone.

Lo crede davvero?
Fermamente.

Il suo romanzo non si apre con Thomas Glover ma con suo figlio Tomisaburo, sgomento di fronte a una scena di devastazione universale quale lo sganciamento della bomba atomica su Nagasaki nel 1945. Il capitolo successivo, ambientato nel 1858, si apre con un pastore che declama in una chiesa di Aberdeen il versetto biblico dell’istante immediatamente successivo alla creazione (Genesi 1,2): “E la terra era priva di forma, ed era vuota”. Immagino che sia una simmetria voluta.
Il parallelo è in sé una specie di meditazione sulla vacuità. Il vuoto, anzi, è il tema che pervade il libro, culminando alla fine con la realizzazione del personaggio femminile, Maki. A dire il vero, proprio in relazione a questo tema sotterraneo, man mano che scrivevo, la storia di Maki è diventata quasi più importante di quella di Glover stesso.

Tanto più che Glover è un personaggio positivo, di vitalità straordinaria. Infatti per lui il Giappone è (con un’altra metafora biblica) una terra fantastica in cui scorre latte e miele (Esodo 3, 17), o meglio “seta e tè”. Cosa resta del suo coraggio di partire alla scoperta di questa terra promessa ora che le distanze fra i due capi del mondo intero si sono decisamente accorciate, e di fronte alla globalizzazione della cultura?
Be’, Glover era un uomo del suo tempo – anzi, una vera e propria incarnazione del suo tempo: avventuriero, per certi versi eroico, entusiasta e ciò nondimeno spietato. Una persona molto complessa (così come complesso è il personaggio Glover che ho creato nel mio romanzo). Lui stesso ha collaborato decisivamente alla globalizzazione, ma Terra Pura intende mostrarne anche il lato negativo: non a caso inizia con la distruzione della sua amata Nagasaki da parte dei bombardieri americani che cercavano di colpire i cantieri navali Mitsubishi che Glover stesso, ai suoi tempi, aveva aiutato a scoprire.

Dove ci condurrà col prossimo romanzo? Tornerà in Scozia?
A dire il vero sono ancora preso dalla ricerca delle fonti e del materiale vario. Però posso anticipare che sarà ambientato a Bali, parzialmente ai giorni nostri e parzialmente negli anni sessanta. Insomma, alla fine ripropongo il tema del confronto e del conflitto fra Est e Ovest.

Bene, grazie – anzi, arigato gosaimasu.
Prego, do itashimashite!

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