Pavia, stazione di Pavia. È lunedì mattina presto, e a tela di ragno da un punto imprecisato della sala d’aspetto si dipartono la fila per la biglietteria manuale, la fila per la biglietteria automatica, la fila per il bar e quella per il giornalaio, in maniera tale che tutti i treni siano in orario e ciò nonostante tutti i viaggiatori siano in ritardo. Io ho un appuntamento a Milano alle dieci: sgomito, maledico e riesco a sistemarmi nella fila per la biglietteria automatica. Arriva il mio turno, seleziono il biglietto desiderato, inserisco il bancomat. La macchinetta automatica si inceppa e si riporta alla schermata iniziale espellendo con sdegno la mia tessera di sopravvivenza. Dietro di me, la folla mormora. Riprovo da capo e, allo stesso punto di prima, la macchinetta si inceppa e si riporta alla schermata iniziale dandomi tacitamente del terrone atavico. Dietro di me, la folla si agita. Un gentiluomo che deve parimenti andare a Milano si offre di fare due biglietti, uno per me e uno per lui, dietro pagamento di sei euri. Lo ringrazio e gli porgo una banconota da cinque euri. Cerco la residua moneta ma trovo solamente un’ulteriore banconota da cinquanta euri. Dico al gentiluomo di star lì e corro in edicola, mi sobbarco un’altra fila trepidando per l’orario del treno, pavento il ritardo colossale ma finalmente riesco a spuntare di fronte al giornalaio al quale chiedo una copia della Gazzetta dello Sport, lui la prende e me la porge, e il favore di cambiarmi la banconota da cinquanta euri. Lui dice di no, si riprende la Gazzetta e repentino mi volge le spalle. Lo ringrazio per la consueta gentilezza lombarda e vado a farmi cambiare i soldi al bar. Terza fila. Ne ottengo cinque banconote da dieci euri; torno in edicola, quarta fila, e schioppando di fronte al medesimo giornalaio gli chiedo se non gli è di troppo disturbo darmi in cambio di una banconota da dieci euri una copia della Gazzetta dello Sport e nove euri di resto in varia guisa. Il giornalaio esegue e grugnisce, o grugnisce ed esegue, in simultanea. Lo ringrazio per la sua squisita cortesia che rende onore a tutta la nazione, metto l’euro dovuto in mano al gentiluomo ormai cianotico per il ritardo accumulato e insieme prendiamo al volo il treno che, essendo arrivato in stazione prima delle otto del mattino, mi consentirà di percorrere trenta chilometri arrivando a Milano trenta secondi prima dell’appuntamento delle dieci dopo aver cambiato due bus, un tram e una navetta a caso.
Modena, stazione di Modena. È giovedì pomeriggio tardi, Pavarotti è morto da poche ore e il suo corpo ancora tiepido sta per essere adagiato in Duomo. Io scendo sfatto dall’intercity a pedali che mi ha portato lì da Bari, intento per otto ore a spiegare a tutti i variabili compagni di viaggio che sì, stavo indubbiamente andando a Modena, ma no, non per Pavarotti. Sono le sette meno cinque e prima di raggiungere il mio alloggio di fortuna faccio tuttavia capolino nell’edicola per chiedere se La Gazzetta di Modena e Il Resto del Carlino hanno pubblicato qualche speciale in morte del maestro. Il giornalaio mi dice che il Carlino ha fatto uno speciale allegato all’edizione pomeridiana. Gli chiedo di comprare una copia del Carlino, allora, e gli porgo un euro. Il giornalaio controlla l’orario, realizza che solo un folle comprerebbe un quotidiano cinque minuti prima della chiusura dell’edicola, e mi dice: “Ma va’, lo speciale glielo regalo”. Ringrazio l’edicolante, ripongo l’euro nel portafoglio, ficco lo speciale pavarottesco del Carlino nella tasca anteriore dell’enorme valigia che da più di un mese mi fa da casa portatile, esco dalla stazione e raggiungo il centro di Modena e con esso la felicità.
Gravina, stazione di Gravina. C’è un bar ma non ci sono i treni.
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