(Gurrado per Ore Piccole)
Si possono paragonare i romanzi alle pietanze? Probabilmente no, ma in ogni modo Il Diavolo Custode di Luigi Balocchi, inteso Luis Balocch, è indubitabilmente una cassoeula. Lo lascia presagire la casa editrice, Meridiano Zero, quando nel risvolto parla di scrittura tanto “inedita, intensa, travolgente” che per decenza viene paragonata a un fiume in piena – ma chi la conosce sa che più di esso la cassoeula è travolgente, intensa e, se si è nati sotto il muro di Ancona, decisamente inedita; lo dice esplicitamente l’autore stesso, nell’apparentemente inutile digressione culinaria che apre il diciassettesimo capitolo, dersèt secondo la numerazione longobarda, che al lettore scaltro appare invece rivelatrice. La zuppa, spiega Balocchi, “s’abbandonava all’apocalisse delle gengive rosse fuoco sguainate (…) con suprema voluttà di mestoli di verze, sellero, cotica e fagioli. E di burro. (…) Che benediceva i molti grugni a picco sui piatti, laddove fumi succulenti andavano a mischiarsi con il puzzo delle pipe schioppettanti, dei toscani raccattati per la strada, della carta di giornale tormentata da salive corrosive. Del dialetto.” Né il riferimento caudato all’affastellamento dialettale è fantasioso, stante che quest’apocalisse culinaria avviene “come solo noi lombardi sappiamo fare”, a sancire la perfetta corrispondenza fra il piatto e il libro, fra romanzo e pietanza, lingua e digestione.
Per capire l’esordio narrativo di Balocchi bisogna partire dalla cassoeula e tener presente la gran tradizione barocca lombardografa, il Gadda senz’altro, forse ancor di più Manganelli. Bisogna altrettanto, nel leggere la storia del famigerato bandito d’inizio secolo scorso, Sante Pollastro, risolutamente dimenticare De Gregori, al quale tuttavia Balocchi ruba il titolo del tredicesimo capitolo (tredes), discograficamente chiamato Il bandito e il campione. Qui finiscono le analogie e amen. L’amicizia fra Pollastro (che De Gregori canta eufonicamente Pollastri) e Girardengo, motore della canzone di De Gregori, in Balocchi rimane sullo sfondo. Il manigoldo che le tre o quattro strofe di De Gregori necessariamente riducono a macchietta, in Balocchi diventa il centro di tutto un mondo: mondo di ladri, ovviamente, mondo di miasmi nordoccidentali, ma soprattutto mondo linguistico. E, per quanto Pollastro sia piemontese, la sua lingua ha zavorra lombarda, grazie all’autore Balocchi che al confine fra queste due terre vive, nel pavese, a Mortara.
Lombardissima è la numerazione dei capitoli, da vùn a vint. Ma fin qui, ordinaria amministrazione. Vieppiù longobarda è la scelta semantica, e anch’essa benché pregevole può rientrare nel già visto (anche ad altre latitudini: il Camilleri siculòfono, il Raffaele Nigro basentòfono, etc.). Ora, più lombarda di tutte è la sillabazione, la scansione ritmica del testo parola per parola, fonema per fonema. L’ho intuito in viaggio (esprimendo un po’ di perplessità leggendo del treno che per Balocchi va “come un colpo di cannone dritto in culo al paradiso” mentre la femminea voce metallica dell’Intercity al ralenty mi informava internazionalmente che in pochi minuti, in a few minutes, il treno arriverà, the train will stop, alla stazione di Molfetta, in Molfetta station); l’ho compreso appieno una volta arrivato a Pavia, pochi chilometri distante dalla casa di Balocchi, e sentendo la gente parlare con la stessa scansione ritmica, con la stessa sillabazione appunto, del libro su Sante Pollastro. Allora ho capito perché il romanzo funzionava.
Va premesso che in tempi postmoderni prosa e poesia si distinguono per la metrica: nel senso che la poesia non ce l’ha più, l’ha perduta nei gorghi di sciacquoni sperimentali che l’hanno trasformata in prosaccia con punteggiatura e capoversi a capocchia; così che la prosa, per difendersi dall’attacco sconclusionato della sua bieca rivale, ha progressivamente dovuto mettere in bella mostra la metrica interiore che nei secoli aveva scandito il fluire dei rètori, le spirali mariniane, la geometria manzoniana, le volute dannunziane, i barocchismi gurradeschi (sono neoparnassiano, io). Consente questa metrica nascosta di propendere per un termine piuttosto che un altro a parità di significato, contando le sillabe, misurandone gli effetti, stupendosi ogni volta nello scoprire come due o tre lettere in più o in meno (o messe prima, o spostate dopo) rendano illeggibile un pezzo altrimenti decente. È quello che i poeti – quasi tutti – hanno smesso di fare e che i cattivi prosatori non impareranno mai.
Sul fondo dell’esordio di Balocchi si sente distinto il clangore militaresco dell’ottonario longobardo. Facciamo un esempio: il primo capitolo conta cinque pagine soltanto? E gli ottonari abbondano in tromba, ben più di quanti un poeta medio sarebbe in grado di trovare per l’immortalità del suo poemetto: “Quattro amici e in mezzo lui”; “Serra il ghigno il bel Santéin. / Tace il fiato. Si fa sera”; “Già che il treno è ormai passato. / E ti restano i lampioni. / Quegli stessi che han rubato”; “I lampioni infissi al cielo”; “Ma il Santéin ha l’occhio sveglio”; “Per la grande apparizione / nel tremendo della vita”. Ed è solo la prima pagina, che ricalca passo passo la parlata dei lombardi che scandiscono il dialetto dividendolo per otto; e che tira dritta fino all’ottonario principe, il padre di tutti gli ottonari di Balocchi, il nome completo e anagraficamente cristallizzato del protagonista che presta la voce, il fiato e il ritmo al romanzo che lo canonizza: “Sante Decimo Pollastro”.
Il lettore lì per lì non ci fa caso, poi si rende conto che la prosa fila troppo liscia, e si corruccia all’idea vaga che ci sia da qualche parte un leitmotiv che gli sfugge. Poi ritrova la cadenza, intervallata per amor di lunghezza da periodare di più ampio respiro; conta le sillabe e sono otto; passa oltre, riconta le sillabe e sono otto; intuisce come questo ritmo lombardeggiante sia il burro, il collante che trionfa nella cassoeula narrativa di Balocchi; stupisce, ammirato, si guarda intorno e comunica la propria meraviglia ai vicini di scompartimento, indifferenti, consapevole lui di star leggendo prosa di solida pignatta, molto più nutriente e gustosa di tanta poesia nouvelle cuisine. I vicini di scompartimento lo prendono per matto, ma pazienza.
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