Ma, in definitiva, che stavo a fare sul trenino della Nord, avanzando in piena Brianza? Andavo a vedere per la prima volta il figlio di Cosimo Argentina, che ho già plurimamente recensito qui e in vari posti. Perché, dirà chi lo conosce, ne ha avuto un altro? No, è sempre lo stesso figlio che ora ha quattro anni e la cui visione avevo rimandato di volta in volta, ripromettendomi comunque che accadesse prima della sua laurea. Anzi ne approfitto per ringraziare ufficialmente anche Argentina che avantieri mi ha citato in una poesia sul suo blog: “tutti a darla via, di sabato sera / nella stanzetta il Guru dorme fatto di grappa”. In questo caso, tuttavia, non di invenzione giornalistica si trattava ma di licenza poetica: fatto di grappa quantunque, nella stanzetta non dormivo ma approfittando dell’ora solare in più mi capacitavo nottetempo di come Argentina avesse una casa ampia, una moglie innamorata e un figlio tutto suo padre, di modo tale che per conseguire la più completa felicità gli mancassero soltanto (in ordine d’importanza) l’abbonamento a Sky e un cagnolino peloso.
Ciò nondimeno, con ammirevoli regolarità e dedizione, Cosimo Argentina continua a scrivere. Io non sarei in grado, ritenendo la vita da scrittore una sofferenza indicibile, descritta alla perfezione – meglio di come potrei mai – novantotto anni fa da Thomas Mann in Altezza Reale: vita da atleta, sempre a letto presto, giornate di fronte alla pagina da riempire in un modo o nell’altro, pile di libri da leggere e rileggere, citazioni sbagliate sempre in agguato, pubblico dai gusti isterici, editori spazientiti, amici che telefonano sempre mentre cerchi la parola giusta, fidanzate che non capiscono di essere meno importanti di (poniamo) Joyce, uno schermo verbale che vela da ogni immediato contatto, un continuo e frustrante tentativo di tradurre avvenimenti reali in episodi narrati, o più in generale la vana speranza di far quadrare il cerchio trasformando le cose in parole, la gente che non crede che scrivere sia un lavoro, peggio ancora la gente che dimentica che scrivere è una tecnica e pretende che ci si affidi all’ispirazione, il continuo senso di dover giustificarsi quando si chiede silenzio tutt’attorno, l’ironica commiserazione che si percepisce negli sguardi altrui quando non si viene pubblicati, il commento superiore del lettore che non sarebbe in grado di mettere per iscritto un concetto compiuto, la domanda eterna di chi ti chiede perché non scrivi libri che la gente possa leggere. Questo, tanto per fermarsi alla punta dell’iceberg.
Leggere, scrivere, rileggere, correggere, tagliare, stampare, rivedere, espungere, ristampare, fotocopiare, rilegare, impacchettare, spedire, sperare, rassegnarsi, telefonare, rassegnarsi, contrattare, rassegnarsi, promettere che non si farà mai più nulla del genere e poi ricominciare nel giro di un mese a leggere, scrivere, rileggere, correggere, senza che mai si scorga una fine: non c’è nulla da invidiare a uno scrittore. A conti fatti, ci si rimette più di quanto si guadagna; le possibilità di trasformare le parole in soldi sono statisticamente molto limitate; la presunta soddisfazione di vedere la propria opera racchiusa fra una copertina vera o fra gli scaffali di una libreria è abbondantemente superata dall’angoscia della vendita scarsa, dalla consapevolezza che autori peggiori hanno maggior successo, dal sospetto dell’aver perso tempo quando si incontra (poniamo) il compagno delle medie il quale alla stessa età ha uno stipendio e una moglie – oltre che, va da sé, l’abbonamento a Sky e il cagnolino peloso. O semplicemente, mi disse lo stesso Argentina qualche anno fa (cito a memoria, tradendo): uno ha fra le mani il suo libro appena pubblicato e già è roso dal pensiero del lavoro che lo attende per quello successivo, e dal timore di non essere all’altezza.
A me leggere e scrivere non piace per niente; ogni volta è una faticaccia, per di più inutile, ma è l’unica cosa che so fare (oltre ad allacciarmi le scarpe) pertanto porto la mia croce con pazienza sapendo che ve ne sono di peggiori (studiare filosofia, ad esempio) e sperando che prima o poi mi cada dalle mani così che io possa trascorrere la vita a guardare partite di calcio, basket, pallavolo e rugby in tromba ogni santo giorno della divina settimana, senza dover renderne conto a nessuno se non al bollettario della tv via satellite. Ventiquattr’ore a casa di Cosimo Argentina, però, dopo aver fenduto (fesso?) la Brianza leggendo Sade in treno, sono sufficienti a cambiare quasi idea: uno vede la moglie, vede il figlio, vede la casa e lo studiolo che finalmente gli consente di non dover scrivere capolavori in equilibrio precario, la libreria vera e propria in cui trasportare i libri che da ragazzo accatastava nella dispensa in cucina (o i manoscritti nel frigorifero), il computer perennemente acceso e le locandine di otto anni di romanzi che ornano il corridoio, la camera da letto, perfino il bagno; uno vede tutto ciò e si convince che potrebbe valerne la pena, forse, e torna a casa (sempre ammesso che ne abbia una) con tutte le buone intenzioni di leggere di più e scrivere sul serio, nonostante tutto. Queste sono le intenzioni, per i risultati vedremo.
Infine sul treno che da Milano Centrale mi riporta a Pavia, fetentissimo interregionale, capito di fronte a una siciliana carina e normanna (capelli chiari, occhioni verdi) con una valigia enorme quasi quanto quella che io insisto a portare in giro per l’Italia; per quanto io stia leggendo Sade col titolo in bell’evidenza, nel bel mezzo delle centocinquanta passioni omicide costei si toglie le cuffie dell’iPod, ripone il cellulare, si sfila il maglione e si lamenta del caldo improvviso; racconta che si è laureata a Palermo e che dopo un master a Milano stava andando a fare non so che stage a Grosseto. Errore imperdonabile, per la prima volta nella mia lunga carriera di cliente di Trenitalia, invece di abbozzare un sorrisetto di compassione e seguitare a leggere e a pensare a cosa scrivere domani, richiudo il libro e le rispondo.
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