Distinzione preliminare, forse ridondante ma necessaria per i non addetti ai lavori: un filosofo è ben differente da uno storico della filosofia. Confonderli sarebbe esattamente come scambiare un cavallo per un fantino, con grande offesa di entrambi. Di mio, sono un fantino: nel senso che anni e anni di filosofia coatta sono stati funzionali alla produzione di uno studio scientifico interamente basato sullo studio di determinati testi (nello specifico, di Voltaire), in considerazione di un determinato contesto temporale (ovviamente, il XVIII secolo) e all’interno di un tema portante (sorprendentemente. la teocrazia ebraica). Lo storico della filosofia, pertanto, si occupa esclusivamente della produzione di pensiero altrui, e la maggiore difficoltà nel mestiere (provare per credere) risiede esattamente nel non lasciar sovrapporre la propria voce, il proprio pensiero, a quella dell’autore di cui si parla. Il filosofo, al contrario, deve produrre del pensiero originale e la maggior difficoltà del suo mestiere (bel mestiere, eh, fare il filosofo!) consiste nel dire qualcosa che non sia già stato detto; o, peggio ancora, qualcosa che non faccia venire in mente al lettore: “Questo sono in grado di pensarlo anch’io”. Sempre ammesso che qualcuno legga veramente quello che scrivono i filosofi.
Leggere Peter Sloterdijk, in Italia, è ulteriormente ardimentoso in quanto l’hanno tradotto relativamente poco (ma l’anno scorso sono usciti Ira e Tempo per Meltemi e Derrida Egizio per Cortina), e soprattutto in quanto finora è stata accuratamente scansata la porzione principale della sua produzione: una corposa trilogia, scritta in Tedesco e leggibile soltanto in Francese, intitolata Sphères. Il primo volume, Bulles, è uscito nel 2002; il secondo, Globes, ha avuto una parziale traduzione in Italiano nel 2005 (L’Ultima Sfera: breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci); il terzo, Écumes, è quello sul quale voglio concentrami brevemente.
Prima di tutto, però, occorre specificare che, a fronte delle nostre abitudini culturali, un filosofo tedesco che per vari anni e varie migliaia di pagine non parli che di sfere, e sotto-parli rispettivamente di bolle, globi e schiume, non è un cialtrone né un visionario; il motivo per cui Sloterdijk è talmente ossessionato dalle palle è che la sua complessa teoria muove da una ridefinizione dell’interrelazione. Nel dettaglio, se tutti noi siamo naturalmente portati a considerare i rapporti umani come delle linee più o meno rette che collegano gli uni agli altri (secondo le strutture che già conosciamo: marito-moglie, genitore-figlio, amico-amico, produttore-consumatore, etc.), Sloterdijk al contrario ritiene che tali rapporti siano meglio definibili secondo l’archetipo della sfera, nella quale sono comunemente compresi non solo i singoli individui che compongono il rapporto ma anche (e per certi versi soprattutto) l’ambiente che li circonda. L’immagine primordiale di questa sfericità dei rapporti, anzi, è rintracciabile in natura senza sforzo alcuno: basti pensare alla globalità del ventre materno, una bolla che avvolge il suo piccolo e al contempo lo protegge, lo nutre e gli garantisce l’indispensabile orizzonte di figliolanza. Fuori dalla sfera materna, non esisterebbero figli.
Dall’interrelazione all’interazione si potrebbe dire che il passo è breve; e invece circumnaviga l’universo mondo. Questo infatti, non per niente, è un globo; ma, curiosamente, era globo anche prima che se ne scoprisse la forma tonda, di modo tale che agli albori dell’età moderna l’uomo si è ritrovato a dover affrontare, in maniera più o meno violenta, la catastrofe di una latenza o meglio, in termini che siano comprensibili ad altre persone oltre a me e Sloterdijk, il venir meno della sicurezza riguardo ai confini che era originata esattamente dall’ignoranza di cosa si trovasse di là dai confini stessi – la scoperta dell’America, pertanto, è stata allo stesso tempo e in primo luogo scoperta del problema di aver ignorato l’America fino ad allora. Simile passaggio stiamo vivendo noialtri ai nostri tempi, esattamente nel momento in cui utilizziamo il computer io per scrivervi e voi per leggermi; non avendo più nessun’America da scoprire, ci limitiamo con la tecnologia a ridefinire l’interno dei nostri confini, e grazie a questa definizione creiamo un globo pulsante, dalle prospettive ambigue e per certi versi terrificanti. Abitiamo un mondo che non è più il nostro; bensì è quello nel quale siamo gettati e al quale cerchiamo di far fronte, nel tentativo coronato da alterni successi di sbrogliare la matassa globale.
Il problema si è che – come specifica finalmente il terzo volume della trilogia (per onestà, l’unico che io abbia letto per intero; ma a mia difesa va detto che già solo questo terzo volume misura 791 pagine, e che il Francese non è lingua da cristiani; che Sloterdijk stesso specifica che, essendo il terzo il volume riassuntivo che dà il senso all’intera trilogia, il lettore pigro quanto me può limitarsi a leggere questo; che a Modena ho avuto l’onore di assistere a una settimana intera di lezioni tenute dal medesimo Sloterdijk, fresco del compimento dell’opera sua e desideroso di comunicarne gli esiti) – dicevo, il problema si è che siamo vittime della mutata percezione della globalità. Se dovessimo raffigurare il mondo, oggi, il globo terracqueo verdazzurro, pertondo e schiacciato ai poli non sarebbe immagine migliore della congerie di bolle di sapone ritratte sulla copertina di Écumes: una schiuma, appunto, in cui ogni bolla è un mondo a sé stante e ciò nondimeno legato al resto da uno o più lati; una ragnatela di interazioni curvilinee che trovano la propria miglior spiegazione nel rapporto fra l’uomo e l’ambiente.
Ora, Sloterdijk non è ambientalista. Se è per questo, via via che lo leggevo non sono riuscito ad attribuirgli nessun -ismo di sorta, per quanto mi sforzassi; quello che meglio rifulge dalla sua teoria è che non la asservisce a nessuno scopo contingente, nessuna battaglia politica o sociale o intellettiva. Sloterdijk fa casomai il contrario, lasciando che i diversi versanti di queste battaglie, così come ogni sfaccettato e contraddittorio aspetto dei giorni nostri e dei secoli passati, rientri con liscissima naturalezza nelle anse della sua teoria generale e onnicomprensiva. Non è questo o quel principio (o avvenimento, o ipotesi, o preoccupazione) a giustificare le teorie di Sloterdijk, ma è Sloterdijk a giustificare disinteressatamente ogni possibile principio (o avvenimento etc. etc.) con le proprie teorie; il che è esattamente ciò in cui consiste, a un livello più profondo, il mestiere del filosofo.
Quanto a uomo e ambiente, pertanto, Sloterdijk ravvisa un mutamento nei loro rapporti che si inscrive a perfezione nella dinamica delle sfere: ossia, se storicamente l’assalto di un uomo all’altro era sempre avvenuto in linea retta (si pensi all’arma bianca, si pensi alla pistola), il globo schiumoso si caratterizza invece a partire dal dato di fatto che l’assalto di un uomo all’altro si identifichi con lo spostamento d’aria. Questo mutamento ha una data precisa: il 22 aprile 1915, seconda battaglia di Ypres, i tedeschi attaccano gli alleati mediante gas di cloro; ne consegue che, a partire dal 22 aprile 1915, l’assalto dell’uomo all’uomo ha mirato a colpire la vittima sempre meno nel suo corpo e sempre più nel suo ambiente, nella sfera che lo circonda (conferma spettacolare ne sono stati gli attacchi dell’11 settembre 2001, che hanno colpito nel corpo chi si trovava all’interno delle Torri Gemelle ma anche nell’ambiente coloro che assistevano all’assalto dal vivo o per tv, cambiandone gli orizzonti di sicurezza). Il mondo delle schiume si caratterizza a partire da un istinto bellicoso che porta gli abitanti di una bolla a richiedere riconoscimento agli abitanti di una bolla vicina attaccando la bolla, l’ambiente: a sottrar loro il simulacro collettivo della stessa immunità di cui si gode originariamente nella ur-sfera, il grembo materno.
Non è giusto né saggio (né umanamente possibile) che nel breve corso di una recensione io ripercorra la miriade di temi che Peter Sloterdijk mette sul tappeto in uno dei saggi più affascinanti e densi che mi sia capitato di leggere da che sono dotato di una retta ragione. Pertanto mi limiterò a elencare i tre nudi motivi per i quali vale la pena di mandare una mail all’editore Maren Sell e richiedergli ginocchioni l’invio domestico di una copia del volume Écumes: Sphères III, ed eventualmente di imparare il Francese all’unico scopo di leggerselo due o tre volte (se altrimenti preferite imparare il Tedesco, peggio per voi).
Innanzitutto, perché Soterdijk è dotato del coraggio che spesso difetta ai filosofi di ultima generazione: ossia quello di presentare un’unica teoria coerente, sensata, complessa, semplice e ciò nondimeno adattabile con bella evidenza a ogni possibile fenomeno sotto il sole. Se andate a ripescare i vostri appunti del liceo, vi renderete conto che per mancanza di tempo avrete catalogato l’intero contenuto dell’Abbagnano secondo una serie di corrispondenze biunivoche del tipo: “Talete: acqua. Leibniz: monade. Kant: noùmeno. Hegel: idea. Heidegger: boh”. In questa possibilità di sussumere un’opera intera sotto un’unica paroletta mnemotecnica, se ben ricordate, vi sarà parso che consistesse tutta la loro grandezza; e allo stesso modo in coda a quegli appunti potete con notevole soddisfazione aggiungere la postilla: “Sloterdijk: sfera”.
In secondo luogo, perché nonostante il minaccioso spessore del dorso del libro e la preoccupata considerazione che il primo capitolo non inizia, sant’Iddio, prima di pagina 273, vi assicuro che una volta superato l’ostacolo costituito dalla lingua Francese il libro scorre che è una meraviglia. Questo perché Sloterdijk ha una cultura talmente vasta (sferica, globale, schiumosa!) da consentirgli di spaziare con estrema sicurezza fra argomenti campi e tempi del tutto dissimili; ancor più, di infiorare la sua argomentazione con una serie di resoconti storici, giudizi letterari, aneddoti vari, letture alternative dell’arte contemporanea che rendono pressoché impossibile la noia (che, contrariamente a quanto comunemente si crede, non è il tratto distintivo della filosofia, così come quello dell’opera non è che i cantanti urlino e non si capisca cosa dicano). In una parola, Sloterdijk è quello che Platone avrebbe definito col termine synoptikòs, sinottico, colui che vede insieme: ossia colui che è in grado di elevarsi al di sopra della media altrui, in maniera tale da godere di un punto di vista che gli permetta di scorgere relazioni e cause/effetti intrinseci fra cose i cui legami sono tutt’altro che evidenti.
Infine, perché Peter Sloterdijk scrive gran bene; talmente bene da far risultare piacevole perfino nella traduzione (dell’eroico Olivier Mannoni), travolta dal suo turbine infinito di parole e immagini. Più di tutto amo i suoi attacchi tranchant a inizio capitolo: “Per i vivi sembra che non ci sia nulla di più naturale che dimenticare i morti, e per i morti sembra che non ci sia nulla di più normale del fatto di ossessionare i vivi” (da Derrida Egizio); “Si può definire il conservatorismo quale forma politica della melanconia” (Écumes, cap. III.1); e così via. Un buon inizio d’altra parte è soltanto un espediente che permette di incollare al libro l’attenzione del lettore per avvilupparlo pagina dopo pagina nelle molteplici bolle della perfetta prosa di Sloterdijk, degna del migliore dei romanzieri di quando i romanzi erano una cosa seria. Per questo, a leggerlo, si resta con un solo rimpianto: è quasi un peccato che sia un filosofo.
(Il 13 giugno 2006 Peter Sloterdijk, cercando di illustrare la teoria della ridefinizione dei rapporti umani alla luce delle nuove tecnologie, mi chiese: “Se la sua fidanzata dovesse improvvisamente non rispondere alle sue telefonate per più giorni, o magari per un’intera settimana, lei come si comporterebbe, che soluzione adotterebbe?” Gli risposi: “Che domande, cambio fidanzata”.)
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