E così, ho finito di leggere pure tutto Sciascia. Non dico per vantarmene (ci mancherebbe: dovere), tanto più che la sensazione al momento di chiudere l’ultima pagina dell’ultimo dei tre volumoni dei classici Bompiani - dopo aver letto l’ultimo testo pubblicato lui vivente più l’appendice con rimasugli scarti e traduzioni varie più il breve saggio sulla fortuna critica più la bibliografia – non è il compiacimento dell’erudito né la soddisfazione del generale bavabeccarico che ha appena sedato una sommossa. Al massimo potrei ammettere di aver patito lo sconforto irragionevole che ho già provato leggendo Beckett o Burgess o Montale: ossia la triste consapevolezza di esser già nato – ancorché da poco – mentre loro erano ancora vivi operanti e di non essermene accorto, perdendo così la spontaneità della scoperta degli scritti nuovi che venivano via via producendo o la sorpresa di un’intervista, poniamo, sul quotidiano o settimanale comprato per altro motivo. Ma non è questo.
Piuttosto, com’è già stato con Joyce e Proust e Flaubert, la sensazione che mi ha colto nel momento in cui mi son reso conto che le opere di Sciascia erano terminante, che nessuna ne avanzava e che d’ora in avanti le avrei tutt’al più potute rileggere senz’alcuna concessione residua alla scoperta e alla sorpresa, è stata piuttosto di smarrimento e di solitudine, con alle spalle tutta la fatica di rintracciare i tre volumi, leggere un’opera per volta inframezzandola di libri altrui a fantasia e impormi di comprare il volume successivo solo e soltanto dopo aver terminato il precedente; è stata la sensazione netta che già descriveva Michel de Montaigne al tempo dei suoi Saggi, quando arguiva testualmente che pure sul cucuzzolo della montagna più alta non siamo seduti altrove che sul nostro culo.
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