(Gurrado per Books Brothers)
Benedetto sia il ritardo. Il plico speditomi dall’editore Marsilio, contenente Smokiana di Remmert-Ragagnin e Vita Morte Miracoli di Stefano Lorenzetto, è partito a fine novembre per raggiungermi non prima di inizio febbraio. Due mesi abbondanti, col Natale di mezzo, sufficienti a far perdere ai due volumi il carattere di novità, e a farmeli leggere con minor patema d’animo, una volta che il carattere di curiosità che spinge all’acquisto delle nuove uscite si era già (per fortuna) esaurito. Ma, soprattutto, questo iato temporale mi ha consentito di riflettere meglio e leggerli sotto luce differente, soppesandoli e riscontrando analogie e intersezioni che vanno al di là dalle due copertine, oggettivamente simili l’una all’altra.
Smokiana è il terzo volume che la premiata ditta Enrico Remmert e Luca Ragagnin dà alle stampe per Marsilio, concludendo un’ideale trilogia che, partendo da Bacco (Elogio della Sbronza Consapevole, 2004) è passata per Venere (Elogio dell'Amore Vizioso, 2006) e ora arriva con estrema coerenza al Tabacco (Smokiana, 2008). Lo stile è il consueto, e consta di una serie di citazioni, alcune delle quali fasulle, catalogate secondo dieci grandi temi inerenti al fumo: sigaro, pipa, sigaretta, fumo e filosofia, fumo e alcol, fumo ed eros, tabacchi tabacchiere tabaccherie, marijuana, canzoni sul fumo – più un’appendice sulle droghe varie, sviluppo e perversione della sigaretta.
Come per tutti i libri di citazioni, si scopre sempre qualcosa che non si conosceva. Come per tutti i libri di citazioni, ci si appunta qualche frasettina arguta da tirar fuori al momento opportuno (con un salutista, Pertini: “Mai un fumatore s’è lamentato di un non fumatore”; con una femminista, Stevenson: “Nessuna donna dovrebbe sposare un uomo astemio o che non fuma”). Come per tutti i libri di citazioni, si può fare il giochino delle presenze e delle assenze. C’è pressoché chiunque: Italo Svevo, ovviamente; Pirandello, Gadda, Pavese; Mark Twain, Atonia S. Byatt, Ian McEwan; Prévert, Garcia Lorca, Dostoevskij; Cat Power, Otis Redding, Giorgio Gaber. Se vogliamo concentrarci sulle assenze, un’eventuale riedizione non potrebbe fare a meno delle considerazioni di Christopher Marlowe sulla scoperta del tabacco in Un Morto a Deptford di Anthony Burgess. Né del sapido paradosso di Oscar Wilde (cito a memoria: “Lei fuma?” “Ebbene sì, mi rincresce ammettere che fumo.” “Me ne rallegro. Ogni uomo deve pur sempre avere qualcosa da fare. Girano troppi sfaccendati per Londra oggidì.”). Né si potrebbe trascurare il sillogismo parareligioso di Samuel Butler in Così Muore la Carne, vertente sulla questione se fumare sia peccato: San Paolo non lo proibisce esplicitamente, per cui non dovrebbe esserlo; ma San Paolo non può proibire il fumo poiché ancora non si conosceva il tabacco, per cui è plausibile che avrebbe ritenuto il fumo un peccato; però, se il Signore aveva impedito che il tabacco venisse scoperto in tempo da cadere sotto gli strali di un oltranzista notevolmente incazzoso come San Paolo, evidentemente il Signore stesso non voleva che fumare fosse peccato. Ne consegue che fumare non è peccato, per espresso volere divino.
Benedetto sia il ritardo anche perché ogni sezione del volume viene introdotta dal racconto di qualche arguto aneddoto sul fumo: in particolare, segnalo quello su Sir Walter Raleigh, accanito fumatore di pipa, che vince una scommessa con la regina Elisabetta sulla possibilità di pesare il fumo (col non trascurabile dettaglio che di lì a poco Raleigh sarebbe stato condannato a morte da Giacomo I, accanito non fumatore). Ogni raccontino inizia col protagonista che guarda l’orologio (o la cipolla, o la clessidra) e aspira una boccata: segno inequivocabile che il comun denominatore del volume è l’attesa. Infatti fumare – quello che Pavese definiva “vizio assurdo” – è il gesto procrastinatore per eccellenza: fuma chi aspetta, fuma chi vuol farsi aspettare, fuma chi vuol prendere tempo, chi riflette, chi preferisce chiudere il cervello per l’intervallo di una sigaretta. Il fumo, che dallo stato solito del tabacco passa a quello aereo ascendendo verso il cielo, è la stessa scalinata trascendente per la quale l’uomo si sottrae al proprio essere uomo, alle proprie corporeità e materialità (fino a culminare nella trasformazione in epigono di Perelà, l’omino di fumo inventato da Palazzeschi). Il fumatore non produce ma consuma – e, dettaglio non trascurabile, si consuma: si accorcia la vita, si rode i polmoni, si ammuffisce i gangli. Soprattutto, lo fa consapevolmente (e ciò rende gli avvertimenti iettatori sui pacchetti tanto inutili quanto odiosi, e stupidi). Il fumo uccide; e allora?
Di meno mie parole ha bisogno Vita Morte Miracoli, in cui Stefano Lorenzetto raccoglie ventuno dialoghi (“sui temi ultimi”) con persone che hanno ricevuto nella propria vita più o meno evidenti, e più o meno impressionanti, segnali del divino. Ciò che Lorenzetto privilegia, tuttavia, è un divino quotidiano, che rifugge la spettacolarità. Si tratta di un libro da leggere e ponderare per poi fare i conti con la propria coscienza; quindi l’attività di recensore, al riguardo, è tanto inutile quanto gli avvertimenti di cui sopra (nonché dannosa come le sigarette, peraltro). Di mio, posso limitarmi a segnalare la breve ma perspicace introduzione di Giuliano Ferrara, che dà la misura di tutto il volume; le pagine conclusive di Luigi Amicone, che con estrema serenità incrocia la teoria alla propria vita privata (mai fidarsi di chi non lo fa, è quasi sempre in malafede, oppure un ingenuo presuntuoso); la toccante intervista a Mario Melazzini, medico incurabile, che pur potendo muovere infinitesimali porzioni del corpo si aggrappa con tutte le forze al suo ruolo di primario del day hospital oncologico della Maugeri di Pavia, pensando più a salvare vite altrui che a terminare la propria; e quella assolutamente vibrante a Francesco Agnoli, professore di filosofia e ardimentoso cattolico che, da controriformista, non poteva vivere altrove che a Trento. Una volta tanto, si tratta di guardare più ai contenuti che alla forma: ne esce un libro denso che può tanto entusiasmare quanto infastidire.
Suggestionato dalla precedente lettura di Smokiana, ho i miei buoni motivi per ritenere che possano esserne infastiditi soprattutto i non fumatori (o gli astemi, o i vegetariani, o quelli che vogliono farci alzare presto al mattino); coloro insomma che tacciano di integralismo le vittime che perseguitano. Come il fumatore si pone al di fuori della razionalità salutista, che prevede l’obbligo all’ottimizzazione quantitativa dell’esistenza, così il miracolato, il malato terminale che rifiuta di morire, il moribondo che non dispera e il difensore delle quattro cellule che costituiscono la vita umana si pongono tutti al di fuori e al di sopra dell’economia medicale, che vuole l’uom$o sempre e comunque in perfetta salute e per la quale l’embrione non è del tutto uomo, il moribondo non ha altra prospettiva che la morte della materia, il malato terminale è un capro al macello da far smettere di soffrire quanto prima, il miracolato è un ciarlatano ovvero un superstizioso. Allo stesso modo, è bene che chi fuma sia obbligato a smettere e che chi sta male si decida una buona volta a guarire o a morire – senza terze possibilità. Per fortuna la vita va oltre; per fortuna c’è il ritardo, lo iato temporale, lo sbrego nella catena ininterrotta di consumo e produzione materialistica e corporale. Spesso il buon senso prevale sulla ragione, e auguriamoci che sia sempre così; ma resta il pericolo ipotetico, resta la mia concreta paura, che a lungo andare per il nostro bene possa sorgere un ottimistico nazismo eugenetico (tanto più che, sia detto fra parentesi, Hitler non fumava).
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.