Chissà, chissà che fine ha fatto Nuzzi. Andavamo insieme alle medie superiori e una sera del maggio 1997, nel corso di una delle solite barbosissime feste di compleanno, mi vide arrivare da lontano e mi venne incontro chiedendo: “Hai visto Pantani, oggi?”. Non una parola di saluto, né un apprezzamento sulla ruspante eleganza delle nostre coetanee ai primi armeggi col fondotinta, né una considerazione sulla temibile verifica di Storia dell’Arte che incombeva sulle nostre povere nuche innocenti. “Hai visto Pantani, oggi?”.
L’avevo visto, Pantani, quel giorno. Dopo un anno e passa di sosta forzata, più di due anni dopo essere stato investito da uno sconsiderato autista, alla prima tappa ondulata del Giro d’Italia della risurrezione, nel giorno che segnava l’inizio delle nuove speranze per il più talentuoso e promettente dei giovani ciclisti italiani, un gatto aveva attraversato la strada. Un gatto aveva attraversato la strada della curvilinea discesa del Chiunzi, incocciando sbadatamente la ruota della bicicletta sul sellino della quale sedeva il più talentuoso e promettente dei giovani ciclisti italiani – ma il gatto, felino intuitivo quantunque, presumibilmente non poteva saperlo. Il gatto, che si sarà fatto un po’ male anche lui, avrà solamente scorto con la coda dell’occhio una bicicletta che sferragliava, una massa rumorosa che si catapultava sull’asfalto, un corpo vestito di giallo che rotolava in un fosso. Poi sarà scappato il più veloce possibile, il gatto: e non avrà fatto nessun caso al rovesciarsi delle speranze di tutta una nazione pedalante, né al mesto corteo di maglie gialle che, lento lento, accompagnava Pantani lacero verso il traguardo, a colpi di tristi incoraggiamenti e di vane pacche sulla schiena, man mano che si accumulavano impassibili i minuti di ritardo.
Io sono sicuro che un anno dopo, mentre io e Nuzzi ci preparavamo agli esami di maturità almanaccando su quali materie sarebbero state sorteggiate (ancora erano gli esami di maturità veri, quelli) – dicevo, io sono sicuro che un anno dopo Marco Pantani abbia pensato al gatto del Chiunzi ascendendo perentorio verso Plan di Montecampione. Aveva la maglia rosa sulle spalle, Pavel Tonkov alle calcagna e un’inimica cronometro individuale all’orizzonte. Allora pensava al gatto, Pantani, tentava uno scatto, si mangiava ogni volta un po’ di salita – e l’ombra lunga di Tonkov dietro di lui. Ripensava al gatto, ritentava uno scatto, e l’ombra di Tonkov sempre dietro. Il gatto si faceva sinuoso, enorme, beffardo e inafferrabile come quello di Alice nel Paese delle Meraviglie: un ghigno derisorio sospeso lì in alto. Ragion per cui Pantani scattava la terza, la quarta, l’ennesima volta (e Tonkov sempre dietro, ci mancherebbe altro).
Io mi sarei seduto, a quel punto, io avrei desistito pensando che in fin dei conti la maglia rosa ce l’avevo e che Dio in qualche modo avrebbe provveduto. Chiunque si sarebbe seduto, credo, chiunque avrebbe desistito. Anche Tonkov: e infatti Pantani piazzò il suo scatto millesimo primo e l’ombra di Tonkov, miracolosamente, non c’era più. In cima a Plan di Montecampione, calvo e stremato, Pantani rizzò la schiena e diede le ultime pedalate a occhi chiusi, bocca aperta e braccia spalancate. Un crocifisso in maglia rosa: a significare quanto religiosamente nel ciclismo incedere nella gloria e piegarsi alla sofferenza vadano sovente insieme, anzi, siano la medesima faccenda inscindibile.
Nell’estate, passati gli esami di maturità e preparandomi inconsapevolmente alla progressiva, definitiva e inevitabile separazione da Nuzzi (uno che ti telefonava mezz’ora dopo la scuola al solo scopo di comunicarti che nel pomeriggio c’era la crono, o il Mortirolo, o qualsiasi pezzo di strada asfaltata conferisse un senso nuovo al pomeriggio e un valido motivo per non fare i compiti) – dicevo, nell’estate lessi Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Vi appresi dell’esistenza di Fagotto, gattaccio malefico che incarnava il male e assisteva Satana nei secoli dei secoli. Sarà un caso ma, leggendolo a letto dopo pranzo, il libro mi cadde di mano e contrariamente al mio solito mi addormentai pesante, risvegliandomi di soprassalto cinque minuti, no, un quarto d’ora, no, mezz’ora dopo forse, con un pensiero fisso che mi urlava nel cervello: il Galibier, il Galibier! E nel preciso istante in cui accesi la tv dopo aver cercato il telecomando in ogni dove, vidi un muro di pioggia dal quale si distingueva appena un omino che si ingrandiva progressivamente pedalando verso la telecamera un po’ più veloce del gruppetto che lo inseguiva. Era giallo e blu. Era Pantani. Fagotto e tutti i gatti suoi pari giacevano immoti sul materasso, immobilizzati nel libro aperto e schiacciati dalla copertina rovesciata. Intuii che stavolta sarebbero toccati a Ullrich, scortato dai suoi compagni di squadra fucsia, gli impassibili minuti di ritardo, le vane pacche sulla schiena e i più tristi degli incoraggiamenti. Pantani, lui, nel giro di un paio d’ore sarebbe diventato meravigliosamente giallo.
Non so Nuzzi, ma io tendo a non festeggiare
Non era Nuzzi, però. Anzi, siccome sono sicuro che Nuzzi oggi come allora legga
(Sempre sullo stesso argomento, e sempre sullo stesso sito, è bene leggere l'interento del maestro Andrea Majetti: A Marco, qui nous a fait rêver; nonché quello di Frank Parigi: Quando ci portava in cima.)
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