venerdì 13 giugno 2008

Contributi alla cultura americana

(Gurrado per Il Sottoscritto)


Mi era già capitato qualche volta di dover prendere delle misure prima di leggere un libro, ma si trattava di misure teoriche, cognitive, o eventualmente misure di ordine pubblico e volte a creare attorno a me un silenzio appena sufficiente alla minima concentrazione necessaria. Stavolta invece mi sono visto costretto a prendere le misure nel senso letterale del termine, con apposito righello, per pronunziarmi definitivamente sul bizzarro formato del primo volume in cui Massimo Coppola raccoglie un’antologia di scritti diversi per la rivista americana The Believer. In soldoni, il problema era: si tratta di volume quadrato o rettangolare? Accurati rilevamenti hanno certificato che la copertina si estende per venti centimetri in senso verticale e per venti centimetri e cinque millimetri in orizzontale. Ragion per cui è rettangolare ma sembra quadrato.

Tanto accanimento sulle dimensioni del libro, che schiferà chi tifa per il contenuto, si giustifica con l’attenzione che l’editore ISBN ha voluto dedicare alla forma estetica del volume in questione; che si giustifica ulteriormente con l’appartenenza di The Believer al gruppo editoriale McSweeney’s, fondato da Dave Eggers, la cui peculiarità consiste nel pubblicare una rivista di formato sempre diverso e come tale sfuggente agli occhi dell’acquirente abituale in cerca di conferme grafiche e no. Il comun denominatore, riproposto nell’edizione antologica italiana, è costituito dal layout e soprattutto dai disegni incongrui e surreali, talvolta in pieno stile-Jacovitti (ma gli americani non lo sanno).

Come l’originale americano, dunque, The Believer/1 è innanzitutto un libro da guardare. Prova ne sia il curioso inserto quadricromatico (comprensivo di due pagine di immagini avanzate ma che era un peccato buttar via) che fornisce una mappatura del superfluo e dell’implausubile, in qualche modo erede dell’inglesissima Miscellanea di Ben Schott – opera talmente inglese che, da un paio d’anni, s’è smesso di tradurla in Italiano mentre oltremanica continua imperterrita a uscire ogni Natale. Controprova ne è che il carattere scelto per i testi dell’inserto quadricromatico è talmente minuscolo che di tanto in tanto anche un lettore onnivoro come me s’è dovuto arrendere all’idea di limitarsi a guardare la grafica per un paio di minuti, apprezzarla più o meno a seconda dei casi, e poi girare pagina.

Abbastanza minuto è anche il carattere in cui è stampato il resto del volume, che raccoglie – come specifica il sottotitolo – una serie di “contributi interessanti dalla cultura americana”. Se non che anche qui la grafica è accattivante tanto quanto il corpo del carattere può risultare scoraggiante, e di conseguenza torna la tendenza a guardare il libro più di quanto si pensi a leggerlo. A ciò contribuisce il suo carattere antologico, che vive di necessari alti e bassi. Non si può perdere mezza parola, a costo di usare la lente d’ingrandimento, delle dodici pagine di dialogo forsennato fra Salman Rushdie e Terry Gilliam (alto); ma un’armatura della miglior volontà non è mi è stata sufficiente a superare la seconda pagina della recensione a W.G. Sebald che apre il volume (basso), e che fa correre il rischio di chiuderlo definitivamente e prematuramente. Per partito preso non leggo mai interviste ai musicisti, ritenendo paritariamente che gli scrittori dovrebbero evitare di esibirsi in concerto: ragion per cui ho saltato a pie’ pari le interviste a Jack White e a David Byrne (bassi aprioristici), così come solo per scrupolo ho letto solo le risposte delle interviste a Richard Rorty e David Dennet (bassi filosofici: avrei fatto meglio a leggere solo le domande).

Livelli altissimi sono invece raggiunti dal dialogo a due velocità fra Dave Eggers e David Forster Wallace, la cui alternanza fra celerità e lentezza è data dal fatto che Eggers poneva delle domande via mail a cui Wallace rispondeva via posta: di modo tale che, nel duplice gorgo della verbosità affabulatoria di Wallace e del narcisismo di Eggers diventa difficile distinguere l’intervistatore dall’intervistato, o entrambi da due giovanotti che chiacchierano oziosamente o, meglio ancora, da due autori che scrivono in parallelo su un canovaccio preordinato e ciò nondimeno friabile. Altresì sono alti i picchi delle note a pie’ di pagina (più ancora del testo) dell’interpretazione teologica di Superman fornita da Gustav Peebles; più alti ancora, per chi ha tempo sufficiente a immergersi in ventiquattro pagine di tre colonne ciascuna (scritte in piccolo, giova ricordarlo), quelli del monumentale reportage in cui Michelle Tea ci erudisce dall’interno riguardo alla molteplice evenienza: 1) che in Michigan esista un festival musicale femminista; 2) che le femministe declinino il plurale di woman in womyn invece di women, per evitare di inserirci men, che è il plurale di man; 3) che il festival in questione pulluli di signorine lesbiche; 4) che costoro siano particolarmente intolleranti nei confronti delle signorine transessuali (uomini diventati donne), le quali si ritengono femmine ma vengono ritenute maschi dalle femministe, e come tali allontanate dal festival; 5) che per protesta le signorine transessuali hanno edificato un campeggio di fronte alla sede del festival femminista; 6) che un buon numero di femministe lesbiche scappa nottetempo dalla sede del festival al campeggio antistante per garantirsi qualche storiella con dei signorini transessuali (donne diventati uomini), trattando mirabilmente da femmina chi si ritiene maschio e da maschio chi si ritiene femmina.

The Believer/1 prosegue nell’intendimento dell’editore ISBN, che già in precedenza (ad esempio pubblicando Bere caffé da un’altra parte di ZZ Packer) aveva inteso dar voce a una cultura americana nascosta non tanto all’America stessa quanto ai nostri occhi italiani e talvolta un po’ provinciali. Ci riesce senza dubbio, tanto più che la copertina stessa dell’antologia denunziava l’idea di stampare un libro che fosse più largo che lungo ma non troppo, rettangolare e quadrato al contempo; un antilibro gradevole a patto di non leggerlo tutto dall’inizio alla fine, parola per parola, ma di saltar pagine capricciosamente e poi magari fermarsi a guardare le figure. Un prodotto editoriale che anche dimensionalmente si rifà all’essere larger than life, come dicono gli americani stessi: ora eccessivo, ora trascinante, talvolta un po’ compiaciuto, sicuramente fuori misura con tutto quel che comporta di buono e di cattivo.

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