Cosimo Argentina ha scritto un romanzo sorprendente soprattutto per chi conosce la sua precedente produzione, ormai decennale. Può sembrare un paradosso, ma la novità diventa più evidente se si considera che Maschio Adulto Solitario racchiude e riassume in circa trecento pagine gli stessi temi – e in alcuni casi addirittura gli stessi personaggi – dei suoi tre principali romanzi precedenti: Il Cadetto, Bar Blu Seves (entrambi Marsilio) e Cuore di Cuoio (Sironi).
Innanzitutto i luoghi di MAS sembrano costituire un pellegrinaggio sul passato narrativo (e biografico) di Argentina: c’è Bari, c’è
Dànilo Colombia si muove in un mondo popolato esclusivamente da personaggi abietti e grotteschi. Le donne, prima fra tutte sua madre, si muovono soltanto se richiamate da sesso, denaro e soprattutto da un istinto irrefrenabile di autodistruzione: è come se usassero Dànilo al solo scopo di punirsi di qualcosa che non è dato conoscere, come se la colpa non fosse solo stata biblicamente introdotta nel mondo da una donna ma di fatto coincidesse con l’essenza stessa dell’essere femmina. Gli uomini, al contrario, vivono di un’aggressività rutilante e senza eguali, priva della minima dignità; di volta in volta Dànilo si trova di fronte un capobranco selvaggio e prevaricatore al quale rifiuta di prestare il minimo ossequio, venendo così progressivamente cacciato dall’ambiente in cui si trova e costretto a scendere un ulteriore gradino nella descensio ad inferos che – con esplicito riferimento dantesco – MAS intende raccontare. Argentina accomuna con ironia questi vessatori dando loro identità diverse ma nomi simili: Corva, Carva, Corve e Corvo, per culminare in Vorca che, sposandone la madre vedova, di fatto spodesta Dànilo dal suo ruolo di naturale capofamiglia ereditato dal padre.
Da questo sfacelo si salvano due sole persone, un uomo e una donna. L’uomo è Anselmo, l’unico amico di Dànilo nonché l’unico maschio che sembri esprimere rare tracce d’umanità, e che per questo è punito nascendo albino e diventando cieco. La donna è Sara, giovane amore felice di Dànilo, che dopo poche pagine di romanzo si suicida senza ragione apparente. Il destino tragico che incombe su chi lo circonda rende Dànilo un eroe nero: un maschio adulto solitario che rifiuta la legge del branco pur non potendo, per ragioni contingenti, affrancarsi da esso. MAS è la storia di questo continuo attrito fra individuo e società, e sembra quasi essere una riproposizione romanzata del disagio della civiltà che tutti noi ci portiamo dentro.
Merita un’attenzione particolare la lingua di Cosimo Argentina. Chi ne ha letto i romanzi precedenti sa che spesso a ottime soluzioni lessicali si alternavano momenti di raccordo che lasciavano un po’ cadere la tensione sintattica e fabulatoria. In MAS non succede mai: il romanzo è dalla prima alla trecentesima pagina teso e vibrante come una corda di violino, e Argentina dimostra di essersi liberato completamente del pur ragionevole timore di essere giudicato per la scelta di una parola in luogo di un’altra. Dietro lo slang tarentino alternato con prosa alta e brani apertamente parodistici, è evidente una ricerca maniacale della parola giusta, come se ogni capoverso e, soprattutto, ogni riga di dialogo costituisse un verso poetico nel quale una scelta inadeguata sarebbe sufficiente a far crollare la metrica.
Maschio Adulto Solitario è un romanzo sorprendente perché rivela la raggiunta maturità narrativa e stilistica di Argentina, che lo colloca su un piano del tutto diverso dalla costumanza seriale di molta narrativa italiana: una scelta originale e personale (da maschio adulto solitario, appunto) che deriva dalla piena consapevolezza delle proprie capacità di scrittore. Il Sottoscritto ha intervistato Cosimo Argentina.
MAS è un romanzo complesso e, si vede, estremamente curato nella forma. Quanto tempo hai impiegato a scriverlo, anzi, quante volte l’hai riscritto? Hai cambiato la trama in corso d’opera?
Ho impiegato moltissimo rispetto al mio standard (massimo un anno per romanzo, addirittura tre mesi per Cuore di Cuoio): stavolta ci sono voluti circa quattro anni. In questi quattro anni ho ristrutturato il testo circa una decina di volte; l’ultima, poi, è stata una vera rifondazione. La trama invece era quella che si era insinuata nel mio cervello dapprincipio. Si sa come succede, no? C’è già tutto nella testa e l’autore deve semplicemente tirar fuori quello che aveva già masticato e rielaborato nel suo cervello. Solo un’azione di estrazione, insomma. Lo scrittore è il dentista di sé stesso.
Il titolo mi sembra perfetto, sia per il suono, sia per la metrica (è un ottonario), sia per i significati espliciti e reconditi (l’acronimo MAS è molto significativo per un romanzo militare). Ti era già chiaro in mente prima della stesura?
Sì, anzi no. All’inizio c’era il provvisorio Torneranno gli orchi a mangiare i bambini?, ma poco dopo è diventato Maschio Adulto Solitario. Per gli ultimi quattro anni quest’ottonario, come dici tu, è stato il mio tormentone personale, pronto a rimbalzarmi nel cervello nel corso della lunga ed elaborata fase di gestazione.
Descrivendo nei dettagli una storia così eccessiva ed efferata non hai pensato che potessero riemergere in qualche modo i sospetti di autobiografia che, in maniera più o meno giustificata, aleggiano da dieci anni su tutti i tuoi precedenti romanzi?
Indubbiamente, tanto che ho dovuto convincere mia madre che lei è una persona molto migliore della madre del protagonista e che eviterò di farle fare una fine altrettanto atroce. Però, sempre, un vero narratore mette in gioco la propria persona: se non attraverso l’autobiografia – che probabilmente alla fine non interessa a nessuno –, attraverso ferite e sentimenti che offre al pubblico ludibrio. Il romanziere è un giullare malefico che parla solo di ciò che conosce, direttamente o indirettamente… Quando lesse il manoscritto, in tempi non sospetti, Agnese Manni mi disse una cosa che mi lasciò senza parole ma che condivido appieno. Disse che MAS è il mio libro meno autobiografico ed è quello che mi rappresenta di più. Sono d’accordo con lei.
E sono d’accordo anch’io. MAS inoltre racchiude i temi dei tuoi tre principali romanzi, ma al contempo li supera. È stata un’operazione studiata o istintiva? Ti senti giunto a una nuova e superiore consapevolezza narrativa?
Secondo me, il punto di non ritorno è Cuore di Cuoio, del 2004. Lì ho capito che la mia prosa doveva essere un crogiuolo di sensazioni, codici, linguaggi incrociati… Circa i temi: sì, scrivo più o meno sempre delle stesse cose, tanto che MAS potrebbe risultare un Cadetto riveduto e corretto. Eppure non lo è. Io non faccio nulla a tavolino, amo l’istintività e sono convinto che il narratore troppo razionale finisca per irreggimentarsi, per scivolare nella letteratura appiattita. Io sto con Van Basten, non con Sacchi: voglio usare solo quello che si può chiamare talento, dono, sicuramente nulla di calcolato.
MAS è una discesa agli inferi, topos fin troppo usato nella letteratura. Come ti sei organizzato, tecnicamente, per fare i conti con questo passato di tue letture personali che però è sedimentato nell’inconscio letterario collettivo?
Per me vale il principio “leggi e dimentica”. Tutto quello che si legge scende e sedimenta, quindi un narratore puro non ha i gravami che può collezionare invece un intellettuale prestato alla narrativa. Un narratore scrive: punto. Per dirla con Hemingway, non ha nessuna coscienza tranne in quello che scrive. Tanto più che io sono sempre più interessato ai romanzi e sempre meno ai narratori; quindi in MAS non c’è Céline ma Viaggio al Termine della Notte, non Dante ma l’Inferno, non Dick ma Ubik e così via. In fin dei conti scrivo cose tutto sommato trite e ritrite, però secondo una sensibilità che cerco di affinare libro dopo libro per avvicinarmi alla mia scrittura. Mia.
Stai scrivendo qualcos’altro al momento?
E certo, non potrei farne a meno. Ma non dico nulla per scaramanzia. Mi limito a godermi la soddisfazione per aver incontrato un ottimo editore come Manni.
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