Di primo acchito, Dèjà Vu ha elementi sufficienti tanto a entusiasmare il lettore quanto a causargli più che legittimi dubbi. Il titolo (efficace traduzione dall’inglese Remainder) ad esempio è affascinante quanto la copertina scelta dalla ISBN per l’edizione italiana, che consente di poter scorgere nome dell’autore, titolo e codice a barre esclusivamente guardandoli in tralice, come fossero stampati in inchiostro simpatico, secondo un gioco ottico che cerchi di arrivare all’intelletto e alla memoria del lettore senza passare per gli occhi. Si resta invece un po’ perplessi leggendo la succinta biografia di Tom McCarthy, lì dove si apprende che è al suo esordio come romanziere ma che è già affermato come artista concettuale soprattutto in quanto fondatore di un network avanguardistico dalla denominazione minacciosa:
La trama è indubbiamente ambiziosa: un giovane viene colpito da un oggetto piovuto dal cielo – una sorta di deus ex machina postmoderno, per l’occasione parte di un ipertecnologico macchinario di un’azienda pressoché onnipotente – e perde del tutto la memoria. Il buco nero con la descrizione del quale si apre la prima pagina segna di fatto il rinnovamento del trauma della nascita. L’accordo legale che in cambio del silenzio consegna al protagonista una somma sconsiderata, talmente alta che si ha difficoltà a realizzarla, è il correlativo dell’apertura davanti agli occhi di Adamo di un intero Paradiso Terrestre potenzialmente infinito (ma, a conti fatti, destinato a non durare). Tom McCarthy intende usare il protagonista come burattino che scandagli l’insondabile mistero della memoria umana e dell’intelletto attivo che regola le azioni: per prima cosa, il protagonista smemorato deve imparare a camminare, anzi ricordarsi come si fa, secondo un procedimento inverso a quello automatico che consente a chiunque di mettere un piede davanti all’altro senza pensarci affatto e senza inciampare più di tanto. Deve, insomma, ritrovare la naturalità di azioni indotte.
Altrettanto ambizioso è il progetto che si propone il protagonista, plausibile alter ego dell’autore. La sua idea è quella di rincorrere un fugace, flebilissimo ricordo balenatogli davanti a una crepa in un muro, ricostruendo pari pari dapprima la crepa, quindi il muro, poi la stanza e l’appartamento e il palazzo tutto. Con la sua sconfinata ricchezza il protagonista può creare un enorme souvenir, pullulante di personaggi ripresi dal suo incerto passato, e vivere lì insieme a loro nell’attesa della reiterazione perpetua di un momento irripetibile.
Il procedimento è, più o meno, quello che ha portato l’uomo dalla casuale scoperta del fuoco alla sua – per così dire – invenzione consapevole a seguito di tentativi più o meno fallimentari. La fabbricazione del ricordo, in Déjà Vu, passa attraverso infinite prove corali per rimettere in scena, reinterpretare una determinata fetta di vita nella maniera più naturale possibile.
Sin dalle prime pagine il protagonista nota, col decisivo aiuto di Robert De Niro, che gli attori migliori sono quelli che vivono con naturalezza una vita innaturale, in cui non si scivola mai su un tappeto mal messo né si deve lottare col portello del frigorifero che si blocca di tanto in tanto. Lo stesso pretende il protagonista dalla pletora di attorucoli che scrittura per reinterpretare i momenti più kitsch, e per questo memorabili, della sua vita precedente. Se non che la reinterpretazione non è né può essere mera riproduzione: non è la stessa cosa, ad esempio, che un pianista suoni all’infinito una determinata frase senza essere visto o che si faccia sostituire da una registrazione reiterata di sé stesso che suona. C’è un impercettibile scatto di millisecondi che tuttavia, alla conoscenza istintiva della memoria latente, diventa decisivo per separare il verosimile dall’inverosimile – che è la stessa cosa, in questo caso, che distinguere il vero dal falso.
Per questo l’ambizioso progetto dello smemorato protagonista naufraga dopo essere degenerato verso una morbosità prima grottesca poi preoccupante. E l’altrettanto ambizioso progetto del necronauta McCarthy ha miglior riuscita? Può darsi; sicuramente nella sua prima parte il romanzo è vivace e intrigante, lasciando sperare in ulteriori margini di crescita che tuttavia – man mano che le pagine aumentano e si avanza la necessità di concludere la storia, di trovare un bandolo, di dare un senso – non vengono mostrati. Sembra anzi che dalla metà in poi McCarthy si limiti a farsi venire delle idee, brillanti senza dubbio, e a buttarle giù a casaccio e alla rinfusa, senza preoccuparsi di scandire l’avvicendarsi delle scene secondo una progressione ragionevole.
È probabile che si tratti di un voluto effetto concettuale, che anche senza sconfinare nello sperimentalismo denota una certa disinvoltura nella definizione di libertà artistica. È probabile anche che possa essere un po’ d’inesperienza narrativa, come forse tradisce il finale, indubbiamente funzionale alla tematica della reinterpretazione e reiterazione, ma un po’ troppo simile a quello de L’Amore ai Tempi del Colera. Chiudo con una curiosità, anzi quasi un capriccio: letto in lungo e in largo il suo romanzo, ponderata la sua biografia e perfino visitato il sito della sua società necronautica (“la morte è un tipo di spazio che vogliamo mappare, penetrare, colonizzare e, successivamente, abitare”), non ci si capacita di come a Tom McCarthy sia saltato in mente di dedicare il suo esordio narrativo come l’ultimo dei principianti – ai suoi genitori.
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