Dai cinesi non comprerei un telo da mare, figuriamoci un’Olimpiade.
D’altra parte bisogna considerare che – per quel che concerne lo svolgimento delle gare – non fa estrema differenza che l’agone sia a Pechino o ad Atene o a Londra o a Campobasso (la situazione muta radicalmente solo nel caso di discipline che vedano la presenza determinante di giudici, come hanno dimostrato gli smaccati favori ad atleti cinesi nei tuffi, nella ginnastica e soprattutto nella ritmica, dove i fidanzati delle nostre signorinelle avrebbero fatto bene a utilizzare palla, cerchio e nastro per seviziare dapprima e dipoi impiccare i giurati, difendendo in un sol colpo l’onore della Patria e della donna, due cose indissolubilmente connesse che purtroppo nessuno fa più). Dal punto di vista geosportivo boicottare l’Olimpiade cinese non avrebbe avuto senso, se non quello di far perdere quattro anni di lavoro soprattutto ad atleti di discipline che di solito devono alla parentesi olimpica le loro due uniche settimane di gloria, se pure va bene. Per loro in realtà non conta tanto l’organizzatore contingente, quanto l’organizzazione generica e sovranazionale – ossia il Comitato Olimpico Internazionale. Il Cio, dal suo canto, mai come quest’anno ha confuso spirito olimpico e imbecillità, dapprima precipitandosi ciecamente verso un’Olimpiade erroneamente assegnata a una nazione che non aveva il minimo diritto di ospitarla; quindi tentando di escludere dalle competizioni, a mo’ di bue che dice cornuto al ciuccio, l’Iraq (punto esclamativo!) per ingerenza politica nelle manifestazioni sportive (ri-punto esclamativo!), cosa mai avvenuta nemmeno negli anni in cui Uday Hussein torturava gli atleti protagonisti di prestazioni deludenti (tri-punto esclamativo!); infine proibendo agli Spagnoli di indossare il lutto per la sciagura all’aeroporto di Madrid. Diciamo che Jacques Rogge ha voluto onorare i costumi del paese ospitante, e la sua civiltà. Durante i suoi discorsi d’apertura e chiusura, nessuno s’è levato per dirgli che stava facendo la figura del coglione.
Personalmente, fossi stato il Governo, avrei consentito agli atleti di partecipare pur senza usare il Tricolore, ma soltanto il gonfalone del Coni. Sia chiaro, del Tibet me ne frega poco e niente – né ammiro il buddismo d’accatto dei vari manifestanti stagionali (compresa Carla Bruni in Sarkozy, che resta estremamente affascinante nel momento in cui si fa infilare la sciarpa al collo dal Dalai Lama, ma manca di ricambiare con un bel crocifissone ligneo, forse immemore dell’evenienza chela Francia debba la propria grandezza ai cardinali e non ai sanculotti, a Carlo Magno e non a Robespierre). Da Italiano, motivi per boicottare le Olimpiadi ne avrei trovati a bizzeffe: questi cinesi avranno pur inventato gli occhiali, i fuochi d’artificio e la carta igienica, ma costituiscono un’ottusa dittatura paracomunista e anticattolica, vietano l’introduzione entro i propri confini di simboli religiosi, difettano di sindacati e pertanto possono esercitare una concorrenza sleale che svantaggia e devasta i nostri commercianti, praticano sovente l’immigrazione clandestina, gestiscono a casa nostra una criminalità sotterranea e – se qualcuno l’ha dimenticato – nello scorso giugno hanno organizzato a Milano una sommossa contro la polizia (che il governo Prodi ha bonariamente scambiato per manifestazione preolimpica). Rispedire di corsa l’invito a Pechino sarebbe stato il minimo; invece noi preferiamo essere uno Stato senza religione, senza simboli, senza dogane né forze dell’ordine: poi un bel dì ci risvegliamo e auspichiamo, da parte di giovanotti e giovanotte che hanno trascorso quattro innocenti anni in palestra, un gesto di responsabilità che li porti a rinunciare nobilmente a stipendi, rimborsi spese, sponsorizzazioni e gloria.
Per questo motivo il momento più bello dell’Olimpiade, quello in cui ho provato uno spontaneo sollievo nell’animo, è stato ieri pomeriggio – quando sono risuonate le prime note di God Save the Queen e il nostro eroe Boris Johnson (sindaco conservatore di Londra del quale ho sempre parlato più che bene in tempi non sospetti, a giugno 2007 e a maggio di quest’anno) è arrivato giacca sbottonata e capelli al vento a riprendersi i cinque cerchi variopinti per riportarli su latitudini più civili, dove non a caso sono stati inventati e da dove sarebbe meglio non esportarli più di tanto.
Indubbiamente il miglior boicottaggio possibile è stato quello applicato sempre ieri dal pugilatore patrio Roberto Cammarelle, il quale prima di congedarsi ha preso un cinese e l’ha sfasciato di mazzate.
D’altra parte bisogna considerare che – per quel che concerne lo svolgimento delle gare – non fa estrema differenza che l’agone sia a Pechino o ad Atene o a Londra o a Campobasso (la situazione muta radicalmente solo nel caso di discipline che vedano la presenza determinante di giudici, come hanno dimostrato gli smaccati favori ad atleti cinesi nei tuffi, nella ginnastica e soprattutto nella ritmica, dove i fidanzati delle nostre signorinelle avrebbero fatto bene a utilizzare palla, cerchio e nastro per seviziare dapprima e dipoi impiccare i giurati, difendendo in un sol colpo l’onore della Patria e della donna, due cose indissolubilmente connesse che purtroppo nessuno fa più). Dal punto di vista geosportivo boicottare l’Olimpiade cinese non avrebbe avuto senso, se non quello di far perdere quattro anni di lavoro soprattutto ad atleti di discipline che di solito devono alla parentesi olimpica le loro due uniche settimane di gloria, se pure va bene. Per loro in realtà non conta tanto l’organizzatore contingente, quanto l’organizzazione generica e sovranazionale – ossia il Comitato Olimpico Internazionale. Il Cio, dal suo canto, mai come quest’anno ha confuso spirito olimpico e imbecillità, dapprima precipitandosi ciecamente verso un’Olimpiade erroneamente assegnata a una nazione che non aveva il minimo diritto di ospitarla; quindi tentando di escludere dalle competizioni, a mo’ di bue che dice cornuto al ciuccio, l’Iraq (punto esclamativo!) per ingerenza politica nelle manifestazioni sportive (ri-punto esclamativo!), cosa mai avvenuta nemmeno negli anni in cui Uday Hussein torturava gli atleti protagonisti di prestazioni deludenti (tri-punto esclamativo!); infine proibendo agli Spagnoli di indossare il lutto per la sciagura all’aeroporto di Madrid. Diciamo che Jacques Rogge ha voluto onorare i costumi del paese ospitante, e la sua civiltà. Durante i suoi discorsi d’apertura e chiusura, nessuno s’è levato per dirgli che stava facendo la figura del coglione.
Personalmente, fossi stato il Governo, avrei consentito agli atleti di partecipare pur senza usare il Tricolore, ma soltanto il gonfalone del Coni. Sia chiaro, del Tibet me ne frega poco e niente – né ammiro il buddismo d’accatto dei vari manifestanti stagionali (compresa Carla Bruni in Sarkozy, che resta estremamente affascinante nel momento in cui si fa infilare la sciarpa al collo dal Dalai Lama, ma manca di ricambiare con un bel crocifissone ligneo, forse immemore dell’evenienza che
Per questo motivo il momento più bello dell’Olimpiade, quello in cui ho provato uno spontaneo sollievo nell’animo, è stato ieri pomeriggio – quando sono risuonate le prime note di God Save the Queen e il nostro eroe Boris Johnson (sindaco conservatore di Londra del quale ho sempre parlato più che bene in tempi non sospetti, a giugno 2007 e a maggio di quest’anno) è arrivato giacca sbottonata e capelli al vento a riprendersi i cinque cerchi variopinti per riportarli su latitudini più civili, dove non a caso sono stati inventati e da dove sarebbe meglio non esportarli più di tanto.
Indubbiamente il miglior boicottaggio possibile è stato quello applicato sempre ieri dal pugilatore patrio Roberto Cammarelle, il quale prima di congedarsi ha preso un cinese e l’ha sfasciato di mazzate.
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