1598: in Pene d’amor perdute, William Shakespeare racconta del re di Navarra che con tre fedeli signori decide di dedicarsi per tre anni a una vita di studio intenso rinunziando a ogni contatto con l’altro sesso. Quattro secoli dopo, Chetan Bhagat inverte i numeri: tre studenti indiani devono affrontare quattro anni di cristallina eccellenza presso il terrificante Indian Institute of Technology, che seleziona gli ammessi in ragione di uno su cento e dove per avere un percorso accademico netto non ci si deve dimenticare solo delle donne ma anche di ogni possibile altro divertimento. Il re di Navarra e i suoi tre accompagnatori vedono fallire miseramente il proprio progetto a seguito dell’arrivo della principessa di Francia con annesse tre damigelle; in tempo ancor più breve (siamo o non siamo il secolo dell’istantaneo?) i tre studenti indiani mollano ogni velleità d’eccellenza concedendosi con monumentale entusiasmo a canne e vodka e limitandosi a vivacchiare nel politecnico conservando la media strettamente necessaria – cinque virgola qualcosa, secondo il titolo originale (che più precisamente suona Five point someone, cinque virgola qualcuno), o appunto Un misero 18 secondo il nostro sistema di valutazione.
Shakespeare a parte, l’academic novel ha una curiosa fioritura a ogni latitudine. A cominciare dalla meravigliosa ossessione di David Lodge, che nell’immaginaria università di Rummidge ha ambientato i suoi migliori romanzi (Scambi, Il professore va al congresso, Ottimo lavoro, professore!; senza dimenticare Pensieri, pensieri), a memoria possiamo ricordare: per
Fosse un’autobiografia, Un misero 18 perderebbe buona parte del suo interesse; ancor meno interesse riscuoterebbe se fosse un romanzo giovanilista sulla figaggine della vita universitaria a Bologna o altrove, come a centinaia ne sfornano i giovani autori italiani (alcuni dei quali hanno dai trentasette anni in su). Di là dalle vicissitudini della trama, indubbiamente ingegnosa anche se qua e là scolpita con più accetta che cesello, viene voglia di andare avanti nella lettura per la perspicacia con cui Bhagat elenca e anzi mette in scena i mali del mondo accademico, presentandoli dal punto di vista dello studente ma frapponendo saggiamente un cospicuo velo di autoironia. Per meglio riuscire nel suo intento, Bhagat utilizza tre protagonisti allo stesso livello: Alok, che viene da una famiglia povera e vede nell’eccellenza universitaria la propria unica occasione di riscatto; Ryan, che essendo il più intelligente di tutti è quello che agli esami riceve i voti più umilianti; infine Hari, il narratore, che ha sempre la risposta giusta ma non riesce a parlare quando viene interrogato. Ognuno di loro è il grimaldello per evidenziare (ingegneristicamente) un bug all’interno delle rigide convenzioni dell’IIT, sintetizzando “quattro anni di corsa senza senso, attraverso lezioni, compiti e testi” nell’icastica sentenza: “Il sistema è stupido”.
I difetti dell’IIT che affiorano in Bhagat sono gli stessi che sono stati evidenziati da Lodge, Marías, Mastrocola, Wolfe, Nicholls e tutti gli altri nei vari cantoni del mondo accademico; Bhagat, che ha una solida formazione tecnica, prende carta e penna e li elenca per bocca di Ryan: “1. Sopprime il talento e l’individualità. 2. Ruba i migliori anni di vita alle menti più brillanti del paese. 3. Giudica tramite un sistema draconiano di medie che distrugge i rapporti personali. 4. Ai professori non importa niente degli studenti. 5. Gli studenti usciti dall’IIT non hanno dato alcun contributo al progresso della nazione”.
L’elenco è indicativo del tono con cui Bhagat affronta l’argomento: non si appiattisce sull’iconoclastia delle posizioni studentesche (tentare di cavalcare le onde anomale non è mai furbo) ma non per questo risparmia ai professori, e in generale al sistema accademico, l’onta di passare attraverso il vaglio severissimo degli alunni che ne sono le vittime. La voce di Hari, combattuto fra il senso del dovere di Alok e la scoperta ribellione di Ryan, funge da mediatrice fra queste posizioni estreme e rende estremamente godibile il romanzo, non solo all’organo interiore che ci fa immaginare lo svolgimento della trama via via che l’apprendiamo ma anche alla lettura in sé e per sé. Fra un tentennamento e l’altro, inoltre, Hari va a letto con la figlia del suo peggior professore – che è comunque un modo significativo di esprimere un sano scetticismo riguardo all’impenetrabilità del sistema dell’IIT.
Proprio per la sua freschezza narrativa e per la mimetizzazione pressoché completa con il punto di vista dello studente mediocre, Un misero 18 pesca a piene mani dal linguaggio gergale dei corridoi dei collegi, senza per questo risultare mai stucchevole. Tutt’al più ci sarebbe voluta un po’ più d’attenzione in sede di traduzione (realizzata, ironia della sorte, nell’ambito di un corso accademico, ossia quello di traduzione letteraria presso
Concludo dichiarando che l’accostamento iniziale alla trama di Pene d’amor perdute non deve sembrare tanto peregrino: come in Shakespeare, in Bhagat c’è una lettera nascosta che viene a galla; come in Shakespeare, i tre studenti dell’IIT ordiscono un raggiro destinato a fallire; l’anno di penitenza imposto dalle tre damigelle si trasforma in un semestre di sospensione decretato dal comitato disciplinare; e il precipitare degli eventi è garantito in Shakespeare dalla morte e in Bhagat dalla pessima salute di un personaggio che non compare mai sulla scena. Ma per conoscere l’ordine esatto e la ragion d’essere di tutti questi episodi, vale senz’altro la pena di leggere il romanzo.
[Chetan Bhagat, Un misero 18, e/o (2008), 309 pagine, €14]
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