(Gurrado per Books Brothers)
Libri letti (11): Né qui né altrove, di Gianrico Carofiglio; I promessi sposi, di Alessandro Manzoni; Eat Pray Love, di Elizabeth Gilbert; Il Re Sole, di Guido Gerosa; Addio alle armi, di Ernest Hemingway; Teatro, di Samuel Beckett; Io, Gesù, di Gilbert Sinoué; Half a Life, di V.S. Naipaul, Un orso sbrana Baricco, di Carlo Martinelli; Il grande uomo, di Kate Christensen; I sapori della modernità, di Gian Paolo Biasin.
Libri acquistati (1): Exit Ghost, di Philip Roth (Vintage)
Accade un giorno che mentre faccio colazione mi viene un’idea: così nitida e distinta che mi pare quasi di non averla avuta io. Non solo vedo – e distintamente – l’idea in questione, nel suo splendore lampante e nel preciso, raffinato groviglio di tutte le sue interconnessioni logiche; vedo addirittura le parole esatte con cui esprimerla, quasi non mi trovassi davanti a una tazza di latte ma stessi già leggendo cosa scriverò.
Ma, disdetta, proprio quel giorno ho un pranzo fuori. Non potendo liberarmene porto l’idea a passeggio con me, faccio attenzione che non mi cada e non si rompa; controllo reiteratamente la gabbia in cui l’ho rinchiusa per timore che le parole fuggano via – o, peggio, che si lascino sostituire dalle cugine sgraziate, come talvolta hanno, piuttosto umoristicamente, l’ardire di fare non appena sistemo le dita sulla tastiera. Facendo conversazione durante il pranzo, approfitto di ogni momento in cui non mi si rivolge nessuno per tornare a giocare con l’idea rinchiusa, lucidarle le metafore, spolverarle le citazioni, oliarle le virgole, moltiplicarne i sottintesi.
Poi, con una scusa, a dolce finito riesco a fuggire dall’ospitalità e a rinchiudermi solo col portatile (se uno se ne va dicendo che deve fare una cosa, nessuno gli dice che può anche farla più tardi; ma se se ne va dicendo che deve scrivere una cosa, tutti giù a dirgli che può scriverla dopo, con calma). Mi siedo e con rapidità napoleonica stendo 13.476 caratteri (spazi inclusi) in circa due ore, magari un’ora e mezza, forse anche meno tanto facilmente mi sembra di star tirando un filo d’inchiostro dal mio cervello, che con piacere quasi futurista ne segue i volteggi e i ghirigori. Le virgole girano a meraviglia. Le citazioni si incasellano come se originariamente fossero state scritte apposta. Le metafore non ne parliamo, un bijou. I sottintesi sono evidenti. Soprattutto è l’idea, monumentale, cristallina, a svettare in tutta la sua verità quasi assiomatica dalla prima riga all’ultimo punto fermo.
Per questo non resisto e, mentre di solito sono pudico e non parlo mai di quello che scrivo, l’altro giorno a pranzo con un amico approfitto di una considerazione teoretica sulla trippa ai fagioli per chiedergli con sforzatissima associazione d’idee: “Ma lo sai che ho scritto un pezzo proprio sulla trippa, no, proprio sul rapporto fra cibo e linguaggio nei Promessi sposi?”. Al che lui mi guarda e dice che ha giusto quello che fa per me; e mi consegna, pressoché seduta stante, un vecchio saggio del Mulino (inevitabilmente fuori commercio, fuori catalogo, fuori corso, fuori qualsiasi cosa possiate immaginare) intitolato I sapori della modernità. Sottotitolo, manco a dirlo, cibo e romanzo.
Così, la sera dopo, a seguito di una cena frugale e in vista di una levataccia, m’infilo a letto alle nove e un quarto per leggermelo tutto d’un botto. Il primo capitolo si diffonde per venti pagine sui Promessi sposi appunto, e non per niente si chiama il sugo della storia. Allibito, m’imbatto pari pari, sin dalle prime righe, nella stessa identica idea che con tanta premura ho incubato: la ritrovo fatta adulta, sviluppata oltre il confine delle sette cartelle, libera di stiracchiarsi a piacimento e di correre dove le pare. Le virgole magari lasciano a desiderare, le metafore sono quelle che si possono trovare in un saggio del Mulino, i sottintesi sono spiegati uno a uno come a una platea di bambini deficienti – ma l’idea, la mia idea, è tutta scritta lì. Coincidono perfino le citazioni, come se originariamente fossero state scritte soltanto per farmi dispetto.
Il volume è del ’91 (e costava, giova ricordarlo, ventiquattromila lire); all’epoca avevo undici anni ma, neppure cresciutello, mai mi sono interessato alla questione cibo e linguaggio (né tampoco ai saggi del Mulino) finché il mio amico non m’ha messo in mano il volume. La mia idea, controllo, risale all’8 gennaio 2009, quindi arriva con diciott’anni di ritardo. Altro che incubazione, è una maggiore età tutta intera. Eppure nella mia testa è arrivata prima, e il libro di diciott’anni avanti è giunto a tardiva conferma del mio geniale intuito.
Ieri mi chiama Valentina e chiede: “Ma lo sai che Pascoli dice le cose proprio come le penso? Io so già per fatti miei che i buoi sono placidi, so che masticano e ruminano, so che ripetono sempre gli stessi gesti e non fanno praticamente altro. E lui s’inventa un verso, il mite rimastico dei bovi, che esprime esattamente le mie idee al riguardo con le uniche parole che servivano a dirlo, evitando di usare quelle che avrei usato io, e impedendomi di usarne altre da oggi in poi.” A tutti, la consolo, capita di leggere cose che pensano. Sapessi, vorrei aggiungere, alle volte mi capita anche di leggere cose che ho già scritto.
Libri letti (11): Né qui né altrove, di Gianrico Carofiglio; I promessi sposi, di Alessandro Manzoni; Eat Pray Love, di Elizabeth Gilbert; Il Re Sole, di Guido Gerosa; Addio alle armi, di Ernest Hemingway; Teatro, di Samuel Beckett; Io, Gesù, di Gilbert Sinoué; Half a Life, di V.S. Naipaul, Un orso sbrana Baricco, di Carlo Martinelli; Il grande uomo, di Kate Christensen; I sapori della modernità, di Gian Paolo Biasin.
Libri acquistati (1): Exit Ghost, di Philip Roth (Vintage)
Ma, disdetta, proprio quel giorno ho un pranzo fuori. Non potendo liberarmene porto l’idea a passeggio con me, faccio attenzione che non mi cada e non si rompa; controllo reiteratamente la gabbia in cui l’ho rinchiusa per timore che le parole fuggano via – o, peggio, che si lascino sostituire dalle cugine sgraziate, come talvolta hanno, piuttosto umoristicamente, l’ardire di fare non appena sistemo le dita sulla tastiera. Facendo conversazione durante il pranzo, approfitto di ogni momento in cui non mi si rivolge nessuno per tornare a giocare con l’idea rinchiusa, lucidarle le metafore, spolverarle le citazioni, oliarle le virgole, moltiplicarne i sottintesi.
Poi, con una scusa, a dolce finito riesco a fuggire dall’ospitalità e a rinchiudermi solo col portatile (se uno se ne va dicendo che deve fare una cosa, nessuno gli dice che può anche farla più tardi; ma se se ne va dicendo che deve scrivere una cosa, tutti giù a dirgli che può scriverla dopo, con calma). Mi siedo e con rapidità napoleonica stendo 13.476 caratteri (spazi inclusi) in circa due ore, magari un’ora e mezza, forse anche meno tanto facilmente mi sembra di star tirando un filo d’inchiostro dal mio cervello, che con piacere quasi futurista ne segue i volteggi e i ghirigori. Le virgole girano a meraviglia. Le citazioni si incasellano come se originariamente fossero state scritte apposta. Le metafore non ne parliamo, un bijou. I sottintesi sono evidenti. Soprattutto è l’idea, monumentale, cristallina, a svettare in tutta la sua verità quasi assiomatica dalla prima riga all’ultimo punto fermo.
Per questo non resisto e, mentre di solito sono pudico e non parlo mai di quello che scrivo, l’altro giorno a pranzo con un amico approfitto di una considerazione teoretica sulla trippa ai fagioli per chiedergli con sforzatissima associazione d’idee: “Ma lo sai che ho scritto un pezzo proprio sulla trippa, no, proprio sul rapporto fra cibo e linguaggio nei Promessi sposi?”. Al che lui mi guarda e dice che ha giusto quello che fa per me; e mi consegna, pressoché seduta stante, un vecchio saggio del Mulino (inevitabilmente fuori commercio, fuori catalogo, fuori corso, fuori qualsiasi cosa possiate immaginare) intitolato I sapori della modernità. Sottotitolo, manco a dirlo, cibo e romanzo.
Così, la sera dopo, a seguito di una cena frugale e in vista di una levataccia, m’infilo a letto alle nove e un quarto per leggermelo tutto d’un botto. Il primo capitolo si diffonde per venti pagine sui Promessi sposi appunto, e non per niente si chiama il sugo della storia. Allibito, m’imbatto pari pari, sin dalle prime righe, nella stessa identica idea che con tanta premura ho incubato: la ritrovo fatta adulta, sviluppata oltre il confine delle sette cartelle, libera di stiracchiarsi a piacimento e di correre dove le pare. Le virgole magari lasciano a desiderare, le metafore sono quelle che si possono trovare in un saggio del Mulino, i sottintesi sono spiegati uno a uno come a una platea di bambini deficienti – ma l’idea, la mia idea, è tutta scritta lì. Coincidono perfino le citazioni, come se originariamente fossero state scritte soltanto per farmi dispetto.
Il volume è del ’91 (e costava, giova ricordarlo, ventiquattromila lire); all’epoca avevo undici anni ma, neppure cresciutello, mai mi sono interessato alla questione cibo e linguaggio (né tampoco ai saggi del Mulino) finché il mio amico non m’ha messo in mano il volume. La mia idea, controllo, risale all’8 gennaio 2009, quindi arriva con diciott’anni di ritardo. Altro che incubazione, è una maggiore età tutta intera. Eppure nella mia testa è arrivata prima, e il libro di diciott’anni avanti è giunto a tardiva conferma del mio geniale intuito.
Ieri mi chiama Valentina e chiede: “Ma lo sai che Pascoli dice le cose proprio come le penso? Io so già per fatti miei che i buoi sono placidi, so che masticano e ruminano, so che ripetono sempre gli stessi gesti e non fanno praticamente altro. E lui s’inventa un verso, il mite rimastico dei bovi, che esprime esattamente le mie idee al riguardo con le uniche parole che servivano a dirlo, evitando di usare quelle che avrei usato io, e impedendomi di usarne altre da oggi in poi.” A tutti, la consolo, capita di leggere cose che pensano. Sapessi, vorrei aggiungere, alle volte mi capita anche di leggere cose che ho già scritto.
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