(Gurrado per Il Foglio)
Di architettura capisco lo stretto necessario per distinguere un capitello corinzio da una scala mobile; ma appena ho visto la chiesa cubica che Fuksas ha costruito a Foligno, ho intuito subito che non doveva essersi ispirato alla kaaba tanto quanto all’aeroporto di Heathrow.
Presumo che prima o poi Fuksas si sia inevitabilmente trovato nella necessità di decollare da Londra e una volta superato il check-in e attendendo l’imbarco abbia avuto agio di visitare ogni anfratto dell’area partenze nel terminal 2, che solitamente conduce in Italia. Fra una cosa e l’altra avrà trascorso un’oretta nella zona in cui l’aeroporto mette a disposizione negozi di vario genere nonché un enorme pub sopraelevato nel quale Fuksas avrà potuto godere della visione di schiere di indigeni che trincano birra alle otto meno cinque del mattino, forse con la scusa del jet-lag. Poi magari sarà giunto il momento di andare in bagno e si sarà reso conto che alle tradizionali indicazioni col maschietto stilizzato e la femminuccia in gonnella si aggiungeva quella, invero più sorprendente, con un omino accovacciato ginocchia a terra e terga sui talloni. Incuriosito ormai più che spinto dal bisogno, Fuksas si sarà infilato nel cunicolo fra i gate 18 e 19 e seguendo le indicazioni delle frecce avrà trovato, in rapida successione e serena adiacenza: toilette per gentlemen, toilette per ladies e multi-faith prayer room.
Sala di preghiera multi confessionale: si tratta di un cubo, appunto, contrassegnato dalla curiosa figura accovacciata e delimitato da un pavimento e cinque pareti perpendicolari, una delle quali funge da soffitto ribassato. Lì probabilmente Fuksas avrà avuto visione anticipata della sua chiesa di Foligno e tutto soddisfatto sarà entrato nella ritirata per gentiluomini. Io invece, trovandomi per davvero nella sua stessa ipotetica situazione, ho preferito entrare nella sala di preghiera e ho visto l’orrore, l’orrore.
Ora, mi rendo conto che l’intenzione dei costruttori era di cercare unità e pace, figuriamoci, ragion per cui hanno voluto dotare il terminal 2 di un luogo di culto che andasse bene a passeggeri di cinque continenti: un cubo della preghiera universale che, come da definizione geometrica, mostrasse sempre la stessa faccia da versanti differenti. Allo stesso modo il Dio all’ascolto, hanno voluto sottintendere i costruttori, è sempre lo stesso sia che lo si chiami Allah o Manitù oppure Elvis. È un caso di fede on demand: come nel pub sopraelevato si può indifferentemente ordinare un cappuccino a mezzanotte o fish & chips all’alba, così nel cubo del terminal 2 si può entrare e pregare chi si vuole – non necessariamente il proprio Dio, magari anche quello altrui, magari tutti quanti sfruttando così il cubo della preghiera per la preghiera al cubo.
Peccato che io, pur volendo, non avrei saputo a chi rivolgermi vista l’assenza del Crocifisso, che com’è noto offende tre quarti delle religioni e per di più impressiona i bambini. Si sa che Dio può essere ovunque: è scritto nell’Esodo che apparve a Mosè nel bel mezzo di un pascolo e gli intimò di sfilarsi i calzari perché camminava su un suolo sacro. Ma nel sacro cubo di Heathrow io, ben lungi da un roveto ardente, ho trovato soltanto una Bibbia in Spagnolo, due tappeti arrotolati e un paio di infradito di cui mi sfugge la ragione. Nonché vari Corani e un miserabile foglio A4 che riportava l’elenco di tutte le feste delle principali religioni, caso mai un Cristiano avesse dimenticato di che giorno cade Natale o uno scintoista volesse provare l’ebbrezza di celebrare lo Yom Kippur. L’unico addobbo sulle pareti era una freccia per indicare la direzione della Mecca, che com’è noto non offende né impressiona mai nessuno. D’altra parte lo stesso omino stilizzato nell’insegna d’ingresso è accovacciato e non inginocchiato come un Cristiano: sembra piuttosto in procinto di prosternarsi faccia a terra nello stile dei mussulmani. E la freccia, i tappeti e fors’anche le infradito costituivano la testimonianza materiale che il cubo multiconfessionale di Heathrow fosse una moschea in divenire.
Fuksas ovviamente ha tutt’altre intenzioni, e sostiene infatti che non importa tanto la forma quanto che la gente di Foligno si senta spinta a entrare nella sua chiesa e pregare: anche Gesù dice a chiare lettere che “dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Fatto sta che nel cubo di Heathrow altro che due o tre, altro che unità e pace fra passeggeri di cinque continenti: a parte me non c’era nessuno perché non c’era nessuno nel nome del quale riunirsi. Mai come allora mi sono sentito solo e sperduto. Allora sono andato a cercare Dio altrove, riflettendo che, se Fuksas fosse entrato con me nel cubo di Heathrow, non gli sarebbe sfuggito che in materia di religione spesso la forma è il contenuto.
Di architettura capisco lo stretto necessario per distinguere un capitello corinzio da una scala mobile; ma appena ho visto la chiesa cubica che Fuksas ha costruito a Foligno, ho intuito subito che non doveva essersi ispirato alla kaaba tanto quanto all’aeroporto di Heathrow.
Presumo che prima o poi Fuksas si sia inevitabilmente trovato nella necessità di decollare da Londra e una volta superato il check-in e attendendo l’imbarco abbia avuto agio di visitare ogni anfratto dell’area partenze nel terminal 2, che solitamente conduce in Italia. Fra una cosa e l’altra avrà trascorso un’oretta nella zona in cui l’aeroporto mette a disposizione negozi di vario genere nonché un enorme pub sopraelevato nel quale Fuksas avrà potuto godere della visione di schiere di indigeni che trincano birra alle otto meno cinque del mattino, forse con la scusa del jet-lag. Poi magari sarà giunto il momento di andare in bagno e si sarà reso conto che alle tradizionali indicazioni col maschietto stilizzato e la femminuccia in gonnella si aggiungeva quella, invero più sorprendente, con un omino accovacciato ginocchia a terra e terga sui talloni. Incuriosito ormai più che spinto dal bisogno, Fuksas si sarà infilato nel cunicolo fra i gate 18 e 19 e seguendo le indicazioni delle frecce avrà trovato, in rapida successione e serena adiacenza: toilette per gentlemen, toilette per ladies e multi-faith prayer room.
Sala di preghiera multi confessionale: si tratta di un cubo, appunto, contrassegnato dalla curiosa figura accovacciata e delimitato da un pavimento e cinque pareti perpendicolari, una delle quali funge da soffitto ribassato. Lì probabilmente Fuksas avrà avuto visione anticipata della sua chiesa di Foligno e tutto soddisfatto sarà entrato nella ritirata per gentiluomini. Io invece, trovandomi per davvero nella sua stessa ipotetica situazione, ho preferito entrare nella sala di preghiera e ho visto l’orrore, l’orrore.
Ora, mi rendo conto che l’intenzione dei costruttori era di cercare unità e pace, figuriamoci, ragion per cui hanno voluto dotare il terminal 2 di un luogo di culto che andasse bene a passeggeri di cinque continenti: un cubo della preghiera universale che, come da definizione geometrica, mostrasse sempre la stessa faccia da versanti differenti. Allo stesso modo il Dio all’ascolto, hanno voluto sottintendere i costruttori, è sempre lo stesso sia che lo si chiami Allah o Manitù oppure Elvis. È un caso di fede on demand: come nel pub sopraelevato si può indifferentemente ordinare un cappuccino a mezzanotte o fish & chips all’alba, così nel cubo del terminal 2 si può entrare e pregare chi si vuole – non necessariamente il proprio Dio, magari anche quello altrui, magari tutti quanti sfruttando così il cubo della preghiera per la preghiera al cubo.
Peccato che io, pur volendo, non avrei saputo a chi rivolgermi vista l’assenza del Crocifisso, che com’è noto offende tre quarti delle religioni e per di più impressiona i bambini. Si sa che Dio può essere ovunque: è scritto nell’Esodo che apparve a Mosè nel bel mezzo di un pascolo e gli intimò di sfilarsi i calzari perché camminava su un suolo sacro. Ma nel sacro cubo di Heathrow io, ben lungi da un roveto ardente, ho trovato soltanto una Bibbia in Spagnolo, due tappeti arrotolati e un paio di infradito di cui mi sfugge la ragione. Nonché vari Corani e un miserabile foglio A4 che riportava l’elenco di tutte le feste delle principali religioni, caso mai un Cristiano avesse dimenticato di che giorno cade Natale o uno scintoista volesse provare l’ebbrezza di celebrare lo Yom Kippur. L’unico addobbo sulle pareti era una freccia per indicare la direzione della Mecca, che com’è noto non offende né impressiona mai nessuno. D’altra parte lo stesso omino stilizzato nell’insegna d’ingresso è accovacciato e non inginocchiato come un Cristiano: sembra piuttosto in procinto di prosternarsi faccia a terra nello stile dei mussulmani. E la freccia, i tappeti e fors’anche le infradito costituivano la testimonianza materiale che il cubo multiconfessionale di Heathrow fosse una moschea in divenire.
Fuksas ovviamente ha tutt’altre intenzioni, e sostiene infatti che non importa tanto la forma quanto che la gente di Foligno si senta spinta a entrare nella sua chiesa e pregare: anche Gesù dice a chiare lettere che “dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Fatto sta che nel cubo di Heathrow altro che due o tre, altro che unità e pace fra passeggeri di cinque continenti: a parte me non c’era nessuno perché non c’era nessuno nel nome del quale riunirsi. Mai come allora mi sono sentito solo e sperduto. Allora sono andato a cercare Dio altrove, riflettendo che, se Fuksas fosse entrato con me nel cubo di Heathrow, non gli sarebbe sfuggito che in materia di religione spesso la forma è il contenuto.
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