(Gurrado per Il Foglio)
Nel bel mezzo del Settecento era ragionevole che un autore francese di un certo successo decidesse di imparare l’Italiano, benché maneggiandolo in maniera piuttosto incerta. Lo avrebbe utilizzato sia per scrivere lettere infuocate a sua nipote (“Baccio il vostro gentil culo e tutta la vostra vezzosa persona”), sia per tenersi in contatto con Goldoni nonché con autori bolognesi, mantovani o veneziani oggi irrimediabilmente dimenticati, sia per comporre un traballante saggio di geologia grazie al quale impetrare l’ammissione a quasi tutte le Accademie della Penisola. Tuttavia all’epoca l’Italiano non era solo la lingua dell’amore, della poesia lirica e della cultura alta, ma anche e soprattutto la lingua corrente della curia vaticana.
Non stupisce quindi che lo stesso autore francese, fra una lettera erotica e una richiesta di raccomandazioni, inaugurasse una fitta corrispondenza italiana con ecclesiastici di varia estrazione: il card. Passionei, già inquisitore a Malta; il card. Quirini, vescovo benedettino di Brescia e bibliotecario di Sua Santità; i gesuiti Boscovich e Jacquier, il camaldolese Calogerà, l’abate Sambuca, il futuro sovrintendente alla finanze pontificie Vergani e così via. Né stupirebbe che a un così accanito corrispondente di mezzo clero italiano potesse capitare di scrivere a due Papi; non fosse che l’autore francese in questione è passato alla storia quale acerrimo nemico del Cattolicesimo sotto lo pseudonimo di Voltaire.
Ma come, lo stesso Voltaire del Trattato sulla Tolleranza introdotto da Salvatore Veca? Infatti. Nel 1745 Voltaire era in procinto di far pubblicare la tragedia Il Fanatismo, ovvero Maometto profeta, che oggi non gli guadagnerebbe parecchi fan fra i sostenitori del multiculturalismo. Per quanto sia valida la lettura obliqua del Maometto come critica a certi eccessi politici del Cattolicesimo, si tende a dimenticare facilmente che resta innanzitutto il ritratto poco lusinghiero di un profeta che “semina fanatismo e sedizione, e conduce la sua armata nel nome di un Dio terribile”. Voltaire intuisce che può avere in Benedetto XIV, già cardinal Prospero Lambertini, un alleato prezioso per la sua brillantissima cultura. Spedisce allora un abate, amico di un’amica della sua concubina M.me du Châtelet, a esplorare personalmente in Vaticano la propensione del Papa nei suoi confronti. L’esito è glorioso: Benedetto XIV fa arrivare a Voltaire dei medaglioni con la propria immagine che diventano il pretesto per una breve e un po’ surreale corrispondenza.
A metà agosto 1745 Voltaire può infatti scrivere a Benedetto XIV, sempre nel suo Italiano immaginario, dichiarando di aver “ricevuto co i sensi della piu profonda venerazione e della gratitudine piu viva, j Sacri medaglioni di quali la vostra Santita s’e degnata honorar mi”. S’inventa su due piedi di avere appesa “nel mio cabinetto una stampa di vostra Beatitudine” e domanda “al cielo che Vostra Santita sia tardissimamente ricevuta tra quegli Santi dei quali ella con si gran fatica e successo, ha investigato la canonizatione”. Non contento, nello stesso giorno scrive un’altra lettera “al capo della vera relligione” con l’esplicita dedica del Maometto: “a chi potrei piu convenevolmente dedicare la crudelta e gli orrori d’un falso profeta, che al vicario ed a L’imitatore d’un Dio di verita, e di mansuetudine?”. Conclude che “in tanto profundissimamente inchinato Le baccio j sacri piedi”.
Papa Lambertini si prende la briga di rispondere “Dilecto filio Voltaire” un mese dopo, ringraziando “per così singolare bontà verso di noi, assicurandola, che abbiamo tutta la dovuta stima del suo tanto applaudito merito”. Qui le cose si fanno più complicate perché nel brogliaccio custodito nell’archivio vaticano il Papa risponde sì a Voltaire, ma non fa menzione del Maometto, mentre la copia in possesso di Voltaire parla espressamente de “la sua bellissima Tragedia di Mahomet, la quale leggemmo con sommo piacere”. È ragionevole pensare che la smania per ottenere l’appoggio papale avesse spinto Voltaire a farsi ricopiare in bella grafia la lettera pontificia con le migliorie che riteneva necessarie alla propria gloria. Fatto sta che tanto la bella copia quanto il brogliaccio riportano il tradizionale congedo del Papa: “ed intanto restiamo col dare a lei l’apostolica Benedizione”. Si può rimestare nel torbido finché si vuole ma il dato di fatto è incontestabile: Voltaire s’è inginocchiato, il Papa l’ha benedetto.
D’altra parte Voltaire è recidivo. Nel 1761, quando è ormai riconosciuto patriarca antireligioso, tutt’a un tratto scrive a Clemente XIII gettandosi di nuovo “a j sacri piedi di sua beatitudine” in qualità di “gentiluomo della camera di sua maestà cristianissima”. La richiesta lascia basiti: lui e sua nipote, che nel frattempo è diventata la sua nuova concubina e alla quale non scrive più, “la supplican’umilmente di degnarsi di concedere loro alcune sante relliquie per l’altare della nuova chieza che Francesco di Voltaire edifica nel feudo di Ferney”. In una lettera parallela al card. Passionei Voltaire spiega: “Non domando un corpo santo. Sono indegno d’un tanto onore, basta per me un dito, un capelo”.
Le ragioni per convincere il Papa sono ancora più scioccanti. La tenuta di Ferney si trova “nella vicinanza della herezia”, ossia a due passi dalla Ginevra calvinista, e Voltaire ritiene “che sia convenevole di spiegare tutti i segni della fede in faccia de gli inimici”. Non si sa se le reliquie arrivassero o meno a destinazione; ma la chiesa di Ferney venne allestita, col proclama DEO EREXIT VOLTAIRE sul frontone, e fu una parrocchia cattolica nella quale Voltaire di tanto in tanto prese anche la comunione con grande scandalo degli astanti.
Che si trattasse di mussulmani o calvinisti, il Cattolicesimo restò un rifugio nel quale Voltaire poté tornare a farsi accogliere quando si sentiva minacciato dall’intolleranza delle altre religioni. Da piccolo era stato educato dai gesuiti; non abbracciò mai il protestantesimo pur avendo vissuto in Inghilterra e in Svizzera; scrisse volentieri a Papi e cardinali; attorno al suo cadavere si levarono i vespri funebri dell’abate di Scellières, e venne seppellito con messa solenne grazie ai buoni uffici di un nipote reverendo. È più che sufficiente a giustificare il sospiro che si lascia sfuggire nel Trattato sulla Tolleranza: “Grazie a Dio, sono un buon cattolico”.
Nel bel mezzo del Settecento era ragionevole che un autore francese di un certo successo decidesse di imparare l’Italiano, benché maneggiandolo in maniera piuttosto incerta. Lo avrebbe utilizzato sia per scrivere lettere infuocate a sua nipote (“Baccio il vostro gentil culo e tutta la vostra vezzosa persona”), sia per tenersi in contatto con Goldoni nonché con autori bolognesi, mantovani o veneziani oggi irrimediabilmente dimenticati, sia per comporre un traballante saggio di geologia grazie al quale impetrare l’ammissione a quasi tutte le Accademie della Penisola. Tuttavia all’epoca l’Italiano non era solo la lingua dell’amore, della poesia lirica e della cultura alta, ma anche e soprattutto la lingua corrente della curia vaticana.
Non stupisce quindi che lo stesso autore francese, fra una lettera erotica e una richiesta di raccomandazioni, inaugurasse una fitta corrispondenza italiana con ecclesiastici di varia estrazione: il card. Passionei, già inquisitore a Malta; il card. Quirini, vescovo benedettino di Brescia e bibliotecario di Sua Santità; i gesuiti Boscovich e Jacquier, il camaldolese Calogerà, l’abate Sambuca, il futuro sovrintendente alla finanze pontificie Vergani e così via. Né stupirebbe che a un così accanito corrispondente di mezzo clero italiano potesse capitare di scrivere a due Papi; non fosse che l’autore francese in questione è passato alla storia quale acerrimo nemico del Cattolicesimo sotto lo pseudonimo di Voltaire.
Ma come, lo stesso Voltaire del Trattato sulla Tolleranza introdotto da Salvatore Veca? Infatti. Nel 1745 Voltaire era in procinto di far pubblicare la tragedia Il Fanatismo, ovvero Maometto profeta, che oggi non gli guadagnerebbe parecchi fan fra i sostenitori del multiculturalismo. Per quanto sia valida la lettura obliqua del Maometto come critica a certi eccessi politici del Cattolicesimo, si tende a dimenticare facilmente che resta innanzitutto il ritratto poco lusinghiero di un profeta che “semina fanatismo e sedizione, e conduce la sua armata nel nome di un Dio terribile”. Voltaire intuisce che può avere in Benedetto XIV, già cardinal Prospero Lambertini, un alleato prezioso per la sua brillantissima cultura. Spedisce allora un abate, amico di un’amica della sua concubina M.me du Châtelet, a esplorare personalmente in Vaticano la propensione del Papa nei suoi confronti. L’esito è glorioso: Benedetto XIV fa arrivare a Voltaire dei medaglioni con la propria immagine che diventano il pretesto per una breve e un po’ surreale corrispondenza.
A metà agosto 1745 Voltaire può infatti scrivere a Benedetto XIV, sempre nel suo Italiano immaginario, dichiarando di aver “ricevuto co i sensi della piu profonda venerazione e della gratitudine piu viva, j Sacri medaglioni di quali la vostra Santita s’e degnata honorar mi”. S’inventa su due piedi di avere appesa “nel mio cabinetto una stampa di vostra Beatitudine” e domanda “al cielo che Vostra Santita sia tardissimamente ricevuta tra quegli Santi dei quali ella con si gran fatica e successo, ha investigato la canonizatione”. Non contento, nello stesso giorno scrive un’altra lettera “al capo della vera relligione” con l’esplicita dedica del Maometto: “a chi potrei piu convenevolmente dedicare la crudelta e gli orrori d’un falso profeta, che al vicario ed a L’imitatore d’un Dio di verita, e di mansuetudine?”. Conclude che “in tanto profundissimamente inchinato Le baccio j sacri piedi”.
Papa Lambertini si prende la briga di rispondere “Dilecto filio Voltaire” un mese dopo, ringraziando “per così singolare bontà verso di noi, assicurandola, che abbiamo tutta la dovuta stima del suo tanto applaudito merito”. Qui le cose si fanno più complicate perché nel brogliaccio custodito nell’archivio vaticano il Papa risponde sì a Voltaire, ma non fa menzione del Maometto, mentre la copia in possesso di Voltaire parla espressamente de “la sua bellissima Tragedia di Mahomet, la quale leggemmo con sommo piacere”. È ragionevole pensare che la smania per ottenere l’appoggio papale avesse spinto Voltaire a farsi ricopiare in bella grafia la lettera pontificia con le migliorie che riteneva necessarie alla propria gloria. Fatto sta che tanto la bella copia quanto il brogliaccio riportano il tradizionale congedo del Papa: “ed intanto restiamo col dare a lei l’apostolica Benedizione”. Si può rimestare nel torbido finché si vuole ma il dato di fatto è incontestabile: Voltaire s’è inginocchiato, il Papa l’ha benedetto.
D’altra parte Voltaire è recidivo. Nel 1761, quando è ormai riconosciuto patriarca antireligioso, tutt’a un tratto scrive a Clemente XIII gettandosi di nuovo “a j sacri piedi di sua beatitudine” in qualità di “gentiluomo della camera di sua maestà cristianissima”. La richiesta lascia basiti: lui e sua nipote, che nel frattempo è diventata la sua nuova concubina e alla quale non scrive più, “la supplican’umilmente di degnarsi di concedere loro alcune sante relliquie per l’altare della nuova chieza che Francesco di Voltaire edifica nel feudo di Ferney”. In una lettera parallela al card. Passionei Voltaire spiega: “Non domando un corpo santo. Sono indegno d’un tanto onore, basta per me un dito, un capelo”.
Le ragioni per convincere il Papa sono ancora più scioccanti. La tenuta di Ferney si trova “nella vicinanza della herezia”, ossia a due passi dalla Ginevra calvinista, e Voltaire ritiene “che sia convenevole di spiegare tutti i segni della fede in faccia de gli inimici”. Non si sa se le reliquie arrivassero o meno a destinazione; ma la chiesa di Ferney venne allestita, col proclama DEO EREXIT VOLTAIRE sul frontone, e fu una parrocchia cattolica nella quale Voltaire di tanto in tanto prese anche la comunione con grande scandalo degli astanti.
Che si trattasse di mussulmani o calvinisti, il Cattolicesimo restò un rifugio nel quale Voltaire poté tornare a farsi accogliere quando si sentiva minacciato dall’intolleranza delle altre religioni. Da piccolo era stato educato dai gesuiti; non abbracciò mai il protestantesimo pur avendo vissuto in Inghilterra e in Svizzera; scrisse volentieri a Papi e cardinali; attorno al suo cadavere si levarono i vespri funebri dell’abate di Scellières, e venne seppellito con messa solenne grazie ai buoni uffici di un nipote reverendo. È più che sufficiente a giustificare il sospiro che si lascia sfuggire nel Trattato sulla Tolleranza: “Grazie a Dio, sono un buon cattolico”.
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