Ormai è in classifica da un mese abbondante quindi non si può più parlare di sorpresa: tuttavia non bisogna dimenticare che iniziando a leggere il nuovo romanzo di Michela Murgia si viene presi da un istintivo sollievo. Riavvolgiamo. Nel 2006 Il mondo deve sapere (Isbn) aveva scandagliato con ironia feroce il sottobosco dei call center, con buona pace della Kirby. L’anno dopo il libro era diventato spettacolo teatrale, opera di David Emmer e Teresa Saponangelo, e nel 2009 Paolo Virzì vi si era ispirato per il suo film Tutta la vita davanti – non so quanto liberamente in quanto non l’ho mai visto. Fatto sta che sulle spalle della Murgia si era abbattuta una disgrazia difficilmente sopportabile da un autore trentenne: il suo libro era uscito dalla carta primigenia ed era diventato un ente a sé stante, aveva preso il sopravvento sulla sua creatrice e veniva sminuzzato in una vulgata che permetteva al pubblico di parlarne conoscendolo solo per sentito dire.
Ne sono conseguiti frequenti inviti a parlare a tavole rotonde e simposi sul precariato. Per quel che ne so non è infrequente che gli organizzatori di queste cose non abbiano tempo per leggere i libri di cui fanno parlare, ma che in compenso desiderino sentirne parlare in una certa maniera. L’autore, in tal caso, può trovarsi incartato. Soprattutto può venire tentato dal demone della reiterazione e iniziare a produrre per partenogenesi romanzi in serie, tutti sullo stesso tema. In particolare – l’ha notato anche il ministro Brunetta – di questi tempi va di moda una certa insistenza narrativa sui nuovi modelli di lavoro e sull’eroe precario e – ma questo il ministro Brunetta non l’ha detto esplicitamente – Michela Murgia correva questo rischio.
Invece Accabadora parla di tutt’altro e questa è la prima ottima notizia. Volendo fare gli spiritosi potremmo dire che una protagonista che lavora sulle morti altrui non corre alcun rischio di diventare precaria: l’accabadora è Tzia Bonaria Urrai, vedova di Soreni, che di notte viene sovente chiamata dai compaesani per soffocare dolcemente i malati terminali. Questo compito ingrato, che ripugna alla ragione e potrebbe farla apparire inumana, rende Tzia Bonaria invece umanissima per tre motivi: perché omaggia una tradizione locale che si perde nei secoli e della quale lei è serva e non padrona; perché interviene solo lì dove il suo intervento è effettivamente necessario, difendendo anche violentemente la vita del moribondo quando la morte viene invocata come soluzione e non sollievo; perché si fa carico della morte altrui spegnendo progressivamente la propria vita. Le sue stesse vittime la percepiscono come ultima madre.
Prima che venissero create le scuole di narrativa, era cosa nota che i romanzi si caratterizzano come tali perché mettono in scena la cosiddetta crisi dei personaggi. In Accabadora parrebbe che questa crisi intervenga nel momento in cui Tzia Bonaria si trova di fronte al dilemma di uccidere o meno il giovane Nicola Bastíu, che s’è vista amputata una gamba e, conciato com’è, viene preso da un insopprimibile desiderio di non sopravviversi più quindi implora Tzia Bonaria di soffocarlo nonostante sia perfettamente cosciente. Io credo invece che la crisi della protagonista sia stata collocata dalla Murgia nell’ultimo posto in cui a uno verrebbe in mente di andare a cercarla: la prima pagina del libro, quando la vedova Listru vende a Tzia Bonaria la sua ultimogenita Maria che diventa fillus de anima dell’accabadora. Di solito, quando inizia a leggere un romanzo, uno è sovrappensiero e non ci fa caso: così a partire dalla seconda pagina ci si ritrova con l’inscindibile coppia Maria e Tzia Bonaria già formata e la si dà per scontata. Invece con l’improvvisa decisione di accogliere una bambina nella sua misteriosa casa Tzia Bonaria incide una crepa nella sua stessa vita e nella percezione che il paese ha di lei. La donna con cui si identifica la morte ha accolto presso di sé una bambina che è la vita; le restanti centosessanta pagine ne sono la diretta conseguenza.
Michela Murgia deve mediare fra questi due estremi. Per riuscirci deve scendere nell’agone narrativo e sporcarsi della polvere che si alza dalle strade di Soreni. Lo fa, e questa è la seconda ottima notizia: se strappassimo una pagina di Accabadora e una di Il mondo deve sapere, nessuno riuscirebbe a capire che l’autrice è la stessa. All’ironia spumeggiante cede il passo una narrazione fitta e densa, fatta di descrizioni minuziose e in cui ogni oggetto pare caricarsi dello stesso peso simbolico e un po’ inquietante che hanno le immagini sacre che circondano il letto di Maria nella sua prima notte da Tzia Bonaria.
Non ho dubbi che Michela Murgia abbia voluto riprodurre non la parlata sarda, che sarebbe stata temo incomprensibile, ma il ritmo del linguaggio e della vita isolani. Non a caso ha inserito quasi incidentalmente un dialogo preziosissimo e illuminante riguardo alle sue scelte semantiche. Tzia Bonaria rimprovera Maria dicendole: “Anche se qui tutti ti capiscono in sardo, l’italiano bisogna saperlo, perché nella vita non si sa mai.
Per riuscirci Michela Murgia ha puntato forte sul linguaggio e l’ha calibrato con estrema attenzione, sapendo che anche nella narrativa il grosso del tempo se ne va a prendere la mira, mica a sparare. Se un difetto può essere trovato, è una certa insistenza sulla necessità di fare paragoni sensazionali che talvolta ingolfano un po’ la scorrevolezza del testo e magari qua e là risultano ingiustificati; ma li accogliamo volentieri perché
Piuttosto mi preoccupa la reazione del pubblico: l’altro giorno ero in libreria e le pile di Accabadora erano visibilmente più basse delle altre, così come fra i più venduti
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