Si sveglia tardi, l’arcivescovo Nichols. Poteva farlo un paio d’anni fa, quando lui era ancora a capo della diocesi di Oxford e io mi sentii chiedere dalla mia vicina di camera al St Hugh’s College, in procinto di tornarsene in America: “Hai Facebook?” “No.” “Vabbe’, allora niente”. E niente fu: mai più vista né sentita nonostante mesi di buon vicinato e profferte di aggiornamenti eterni. Oggi potrei anche ricostruire il suo nome ma mi guardo bene dal ricontattarla per chiederle se si ricorda ancora di me. Potrebbe rispondere di sì.
Infatti ora Facebook ce l’ho ma lo uso soprattutto per offendere le persone. Tre richieste di amicizia su quattro vengono scartate, non solo premendo il miracoloso pulsante “ignora” – che andrebbe importato anche nella vita reale – ma anche rispondendo con una mail circostanziata nella quale spiego nel dettaglio i motivi del rifiuto. Vi assicuro che dà una sensazione molto più piacevole dell’antiquato gesto di sbattere il telefono in faccia agli immeritevoli.
Come sempre non conta tanto lo strumento in sé ma il suo utilizzo. L’arcivescovo Nichols lamenta problemi evidenti (disumanizzazione, isolamento) e presunti (il suicidio?) ma se fossi in lui proporrei piuttosto metodi alternativi, iniziative ludico-luddiste per dare più importanza alle persone e meno ai loro profili virtuali. Ad esempio: invece di allungare all’infinito la lista di amici ponendo tutti sullo stesso piano, ridurla progressivamente eliminando quelli che hanno meno ragion d’essere. Se oggi ho, vediamo, 134 amici, entro la fine del mese potrei soppiantarne quattro che ritengo superflui o dannosi riducendoli a 130 per fare cifra tonda. Entro la fine di settembre scenderei a
Ma forse non c’è nemmeno bisogno di questi mezzucci: basta aspettare che la gente muoia. Non parlo di suicidarsi eliminando il proprio profilo (tanto più che Facebook è un Dio geloso, che si compiace di chiedere per centinaia di volte al tuo indirizzo mail perché te ne vai, e non andartene, e pensaci due volte, e pensaci tre, e torna fra noi), parlo proprio di morte naturale. Purtroppo gli utenti di Facebook hanno un’età media piuttosto bassa quindi il loro decesso è un evento ancora raro; ma il tempo gioca a favore della comare secca e, per estensione, dell’arcivescovo Nichols. Se io per esempio schiattassi questa sera, il mio profilo su Facebook continuerebbe a vivere e prosperare come se niente fosse. La mia casella postale accoglierebbe comunque gli aggiornamenti dei gruppi “Il telo sulla Ghirlandina”, “Le donne preferiscono gli uomini di destra” e “Ci avete rotto il cazzo con Roberto Saviano”. Verrei comunque sommerso di test quali “Scopri quanto sei valdostano” e “A quale delle Desperate Housewives corrispondi?”. Orde di sconosciuti molesti si lamenterebbero perché non rispondo più alle loro casuali richieste d’amicizia.
Sempre che qualcuno non si accorga che sono morto e decida di diffondere la notizia. La bacheca di Facebook si presta agevolmente anche all’uso funerario e l’esibizionismo tracimerebbe al momento del saluto estremo: “Ci manchi”, “Per l’ultima volta ciaoooo”, “Grazie di tutto e a presto, anzi spero di no”, “Brutto maiale mi dovevi dieci euri”. Qualcuno creerebbe l’evento delle mie esequie. Man mano che gli utenti invecchiano e muoiono, ai sopravvissuti verranno a noia questi profili imperituri e anche in questo caso si finirà con il fallimento di Facebook e la gloria dell’arcivescovo Nichols. Il quale si accorge adesso che Facebook spersonalizza ma in Inghilterra non lo ascolta nessuno: non perché sono tutti protestanti ma perché sono già tutti su Twitter.
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