(Gurrado per Il Foglio)
Nel 1945 Evelyn Waugh produsse Ritorno a Brideshead. Nel 1958 Aldous Huxley completò il suo capolavoro con Ritorno al mondo nuovo. Nel 1964 Luciano Bianciardi ripescò il suo esordio, Il lavoro culturale, e vi accodò un capitoletto intitolato “Ritorno a Kansas City” dal nome esotico che aveva scelto di conferire a Grosseto. Tutto questo sfoggio di vacua erudizione per dire che al giorno d’oggi anche Antonio Pascale ripercorre i propri passi e tira fuori una nuova versione del suo primo libro, La città distratta. Nel 1999 fu pubblicato da L’Ancora del Mediterraneo, nel 2001 venne acquisito dall’Einaudi e ora viene nuovamente presentato in complessivo riassetto: a cominciare dal titolo, che diventa Ritorno alla città distratta.
Voltaire, visto che siamo in giornata di citazioni a casaccio, si lasciò sfuggire in una lettera la più sincera sentenza che mai fosse uscita dalla propria penna: “Guai a chi non si corregge sempre, sé stesso e le proprie opere”. Pascale ha una simile verve irrequieta quindi era plausibile che prima o poi intendesse rileggere da cima a fondo il proprio ottimo esordio. Non potendo rifarlo, perché altrimenti non sarebbe stato più il suo esordio, s’è limitato a glossarlo intercalando ai lunghi capoversi originari una serie di commenti che possono essere fulminei o dilungarsi per due pagine su un dettaglio che in prima battuta veniva accennato appena.
Questa dell’autore che riconsidera così esplicitamente ciò che ha scritto è un’operazione da non sottovalutare. Buona parte della cultura occidentale s’è salvaguardata grazie all’arte altomedievale del commento a testi altrui, in buona salute fino al XVIII secolo. L’autocommento è una sfida ancora più affascinante perché non di rado l’autore è la persona meno indicata per parlare del proprio testo o addirittura per coglierne l’intera portata. È un’operazione sperimentale perché costringe a soluzioni innovative: Pascale non ha remore e si dà sulla voce da solo, interrompendosi a metà di una frase per affrontare tutt’altro discorso che va a parare chissà dove. È un’operazione di successo perché di sicuro il lettore non si annoia – avete presente, stavolta andiamo al cinema, Le valigie di Tulse Luper di Peter Greenaway, con gli schermi che si dividono e si moltiplicano e le storie che letteralmente sbocciano una dall’altra? Alla fine uno non sa fare il riassunto della trama ma esce con la sensazione di aver speso bene i soldi del biglietto, avendo comprato un paio d’ore irripetibili.
Ecco, la trama. Non a caso ho circumnavigato la questione e mi sono ben guardato dallo stabilire se Ritorno alla città distratta fosse un saggio o un romanzo. Pascale per primo sembra non voler prendere posizione. Trattandosi del fedele ritratto di Caserta e delle sue dinamiche interne ed esterne, dovrebbe essere un saggio. Sviluppando l’argomento da un versante tutto narrativo e anzi animato da una sfrenata lust zu fabulieren, è indubbiamente un romanzo coi suoi artifici retorici e i suoi refrain (primo fra tutti “ma il problema è un altro”) e le storie piccole che s’inscatolano in quelle grandi. Chi ha visto Pascale di persona, o l’ha sentito parlare, sa che è un affabulatore instancabile e soprattutto instancante: sarebbe capace di ripetere a oltranza lo stesso repertorio senza raccontarlo mai in due maniere uguali. In tempi così grami per la narrativa ridotta a fatterello standard, è una dote per cui ringraziare in ginocchio.
Così il difetto più urtante di Ritorno alla città distratta non è contenuto nel testo ma in quarta di copertina, ove si riporta in grassetto il proclama di Saviano che assicura: “Senza La città distratta non avrebbe potuto esserci Gomorra”. Ebbe’? Io, personalmente, stavo benissimo anche quando c’era solo La città distratta e Gomorra non c’era affatto. Ora, dal testo si intuisce che fra Pascale e Saviano c’è conoscenza e rispetto reciproco. Sarò dunque lettore troppo malizioso, forse, ma questo sforzo di giustificare commercialmente un’operazione di buon profilo letterario con l’apposizione del bollino blu da parte di Saviano mi pare sminuire il talento letterario di Pascale. Ancora peggio sarebbe presupporre dietro Saviano/Uomo Del Monte l’idea che la frase possa essere letta all’inverso, ovvero “Senza Gomorra Pascale non sarebbe tornato a La città distratta”: come se senza l’anticamorrismo di massa non sarebbe valsa la pena di ritornare a uno spaccato societario d’élite per qualità e perspicacia. Chi lo pensa sbaglia. Senza Saviano Ritorno alla città distratta ci sarebbe stato lo stesso. Non ci sarebbe stato senza Bianciardi né Huxley né Waugh né Voltaire.
Nel 1945 Evelyn Waugh produsse Ritorno a Brideshead. Nel 1958 Aldous Huxley completò il suo capolavoro con Ritorno al mondo nuovo. Nel 1964 Luciano Bianciardi ripescò il suo esordio, Il lavoro culturale, e vi accodò un capitoletto intitolato “Ritorno a Kansas City” dal nome esotico che aveva scelto di conferire a Grosseto. Tutto questo sfoggio di vacua erudizione per dire che al giorno d’oggi anche Antonio Pascale ripercorre i propri passi e tira fuori una nuova versione del suo primo libro, La città distratta. Nel 1999 fu pubblicato da L’Ancora del Mediterraneo, nel 2001 venne acquisito dall’Einaudi e ora viene nuovamente presentato in complessivo riassetto: a cominciare dal titolo, che diventa Ritorno alla città distratta.
Voltaire, visto che siamo in giornata di citazioni a casaccio, si lasciò sfuggire in una lettera la più sincera sentenza che mai fosse uscita dalla propria penna: “Guai a chi non si corregge sempre, sé stesso e le proprie opere”. Pascale ha una simile verve irrequieta quindi era plausibile che prima o poi intendesse rileggere da cima a fondo il proprio ottimo esordio. Non potendo rifarlo, perché altrimenti non sarebbe stato più il suo esordio, s’è limitato a glossarlo intercalando ai lunghi capoversi originari una serie di commenti che possono essere fulminei o dilungarsi per due pagine su un dettaglio che in prima battuta veniva accennato appena.
Questa dell’autore che riconsidera così esplicitamente ciò che ha scritto è un’operazione da non sottovalutare. Buona parte della cultura occidentale s’è salvaguardata grazie all’arte altomedievale del commento a testi altrui, in buona salute fino al XVIII secolo. L’autocommento è una sfida ancora più affascinante perché non di rado l’autore è la persona meno indicata per parlare del proprio testo o addirittura per coglierne l’intera portata. È un’operazione sperimentale perché costringe a soluzioni innovative: Pascale non ha remore e si dà sulla voce da solo, interrompendosi a metà di una frase per affrontare tutt’altro discorso che va a parare chissà dove. È un’operazione di successo perché di sicuro il lettore non si annoia – avete presente, stavolta andiamo al cinema, Le valigie di Tulse Luper di Peter Greenaway, con gli schermi che si dividono e si moltiplicano e le storie che letteralmente sbocciano una dall’altra? Alla fine uno non sa fare il riassunto della trama ma esce con la sensazione di aver speso bene i soldi del biglietto, avendo comprato un paio d’ore irripetibili.
Ecco, la trama. Non a caso ho circumnavigato la questione e mi sono ben guardato dallo stabilire se Ritorno alla città distratta fosse un saggio o un romanzo. Pascale per primo sembra non voler prendere posizione. Trattandosi del fedele ritratto di Caserta e delle sue dinamiche interne ed esterne, dovrebbe essere un saggio. Sviluppando l’argomento da un versante tutto narrativo e anzi animato da una sfrenata lust zu fabulieren, è indubbiamente un romanzo coi suoi artifici retorici e i suoi refrain (primo fra tutti “ma il problema è un altro”) e le storie piccole che s’inscatolano in quelle grandi. Chi ha visto Pascale di persona, o l’ha sentito parlare, sa che è un affabulatore instancabile e soprattutto instancante: sarebbe capace di ripetere a oltranza lo stesso repertorio senza raccontarlo mai in due maniere uguali. In tempi così grami per la narrativa ridotta a fatterello standard, è una dote per cui ringraziare in ginocchio.
Così il difetto più urtante di Ritorno alla città distratta non è contenuto nel testo ma in quarta di copertina, ove si riporta in grassetto il proclama di Saviano che assicura: “Senza La città distratta non avrebbe potuto esserci Gomorra”. Ebbe’? Io, personalmente, stavo benissimo anche quando c’era solo La città distratta e Gomorra non c’era affatto. Ora, dal testo si intuisce che fra Pascale e Saviano c’è conoscenza e rispetto reciproco. Sarò dunque lettore troppo malizioso, forse, ma questo sforzo di giustificare commercialmente un’operazione di buon profilo letterario con l’apposizione del bollino blu da parte di Saviano mi pare sminuire il talento letterario di Pascale. Ancora peggio sarebbe presupporre dietro Saviano/Uomo Del Monte l’idea che la frase possa essere letta all’inverso, ovvero “Senza Gomorra Pascale non sarebbe tornato a La città distratta”: come se senza l’anticamorrismo di massa non sarebbe valsa la pena di ritornare a uno spaccato societario d’élite per qualità e perspicacia. Chi lo pensa sbaglia. Senza Saviano Ritorno alla città distratta ci sarebbe stato lo stesso. Non ci sarebbe stato senza Bianciardi né Huxley né Waugh né Voltaire.
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