Non sono sparito, non è che invece di togliermi il gesso i medici hanno pietosamente deciso di sopprimermi; solo che la rimozione s'è mangiata quattro-ore-quattro di martedì pomeriggio e ieri era il mercoledì delle Ceneri, decisamente una giornata non adatta ai cachinni. Adatta invece, visto che le tre parole d'ordine sono penitenza-digiuno-elemosina, a capire da dove Samuel Beckett aveva tratto ispirazione per i suoi due sofferenti e affamatissimi barboni Vladimiro (quello che parla sempre, non per niente Di-di) ed Estragone (quello che non sta mai fermo, non per niente Go-go). Ieri sono salito per la prima volta su un autobus, dopo la forzata sosta, e la prima cosa che ho visto sono stati due barboni, uno seduto con le gambe attorno a un cane lupo, l'altro che cambiava continuamente posto per far spazio a chi saliva via via. Quello del cane mangiava un'insalata russa in offerta al supermercato e l'altro beveva una cola dalla frizzantezza infinitesimale. Si lamentavano del traffico.
Insomma, ora cammino. Cammino male, cammino piano, cammino con le stampelle ma poggio per terra tutti i piedi (due). In momenti di coraggio salgo le scale; in attimi di temerarietà le scendo. Le quattro ore di cui sopra non sono state impiegate tutte per togliere il gesso (vabbe' che s'indurisce), operazione che avrà portato via tutt'al più dieci minuti. Il resto l'ho passato aspettando i raggi x, aspettando il responso dei medici, aspettando di nuovo i raggi x, aspettando la fisioterapista, aspettando Godot. Godot, nell'ospedale di Oxford, consiste in un'infermiera che sbuca da una stanza e strilla il nome della persona di turno, la quale è seduta fra gli altri pazienti e al suo turno si alza e, se può, cammina verso la porta da cui è stata chiamata. Se non che l'infermiera è inglese quindi per chiamare si regola così: guarda la sala d'attesa, inspira una quantità d'aria sufficiente a urlare il primo canto della Gerusalemme liberata, inizia a proclamare il nome dell'eletto, immediatamente si rende conto di star urlando in un luogo pubblico, si vergogna e abbassa repentinamente il volume della propria voce subito dopo la prima sillaba del nome che deve comunicare.
Poniamo che io mi chiami Antonio Gurrado. Per chiamarmi, dovrò aspettare che l'infermiera esca dalla porta apposita e urli: "An-srububbuz srububbuz". Il che è complicato in quanto con questo criterio vengono pronunciati alla stessa maniera tutti i nomi che iniziano con la stessa sillaba ragion per cui l'infermiera potrebbe star dicendo sia "Antonio Gurrado" sia "Andrew Morgan" sia "Aniruddha Brachamutanda" sia "Anvedi che santo / vestito d'amianto".
Poi arriva il momento in cui il medico chiude il separé dello stanzino in cui ti ha palpato il piede nudo (l'infermiera in queste circostanze si tiene purtroppo alla larga) e ti dica di provare ad alzarti e a muovere uno o due passi. In quel momento ci si ritrova in piedi, immobili per un secondo intero, a chiedersi come si fa a camminare: ricordo che me l'avevano insegnato un giorno, ma visti i recenti risultati non dovevo essere stato molto attento.
La citazione evangelica più banale che viene in mente in questa circostanza è la guarigione del paralitico (Matteo 9, 5): "Alzati e cammina". Però c'è da chiedersi in che lingua Gesù abbia parlato a un paralitico che chiedeva l'elemosina (e che forse mangiava insalata russa e si lamentava del traffico). Sicuramente non in francese; poco verosimilmente in latino, non necessariamente in greco, magari nemmeno in aramaico. Sono sicuro che nella circostanza Gesù abbia parlato in dialetto; l'esortazione allora dev'essere suonata molto poco solenne, estremamente confidenziale, minacciosa quasi: "Jàlz't e camìn".
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