venerdì 4 marzo 2011
La miglior maniera di riuscire a parlare in pubblico è non essere invitati a farlo. Più anzi si è invisi al pubblico e al relatore, più si riesce a essere incisivi. Di mille interventi degli astanti ai quali ho assistito nel corso di conferenze varie, da relatore o da moderatore o da mimetizzato dietro una copia della Gazzetta dello Sport, ne ricordo solamente tre; anzi ricordo i tre personaggi che li hanno fatti. A Pavia c’era un tizio che si presentava a tutte le conferenze di ogni argomento, sovente apparendo alla stessa ora in due collegi e tre aule dell’università; era agevolmente riconoscibile perché portava con sé uno zaino, un game boy e una barba lunga fino all’ombelico; parlava molto di rado ma, quando lo faceva, era indimenticabile in quanto tutti avevano passato la conferenza specifica e tutte le precedenti ad attendere e temere che, giunto il momento del dibattito, prendesse la parola. A Modena c’era un vecchietto che si presentava a ogni conferenza con un sacchetto di plastica in mano, che non abbandonava nemmeno quando – cioè sempre – riusciva a farsi consegnare il microfono; indipendentemente dall’argomento trattato dal relatore (i protocolli dei savi di Sion, la forma poetica dell’atmastuti, i vasi itifallici dell’antica Grecia) gli poneva immancabilmente una domanda sulla guerra in Iraq; poi la guerra in Iraq è bene o male finita e lui non s’è più visto; sarà plausibilmente morto di dolore. A Oxford appare di tanto in tanto un indiano con turbante arancione e barba bianca, che indossa una felpa altrettanto candida sulla quale però sono stampati a stampatello multicolore svariati inviti a pentirsi e a credere al vero Dio; sul retro della felpa autoprodotta l’indiano specifica l’identità del vero Dio, constante di una litografia in technicolor di Gesù Cristo e del suo numero di telefono (dell’indiano e non di Gesù Cristo, presumo, ma chi può dirlo). Tuttavia bisogna riconoscere che l’Inghiterra è molto più avanzata dell’Italia: per ogni conferenza che segue, l’indiano divulga su youtube un video di quindici minuti – durata invariabile indipendentemente dall’argomento – nel quale tiene la propria controconferenza. Ciò non lo distoglie tuttavia dal porre la propria domanda quando arriva il terrificante momento del dibattito; tuttavia non ascolta mai la risposta, e fa bene perché i relatori non ascoltano mai la sua domanda; finisce dunque che nella breve didascalia al proprio video (una pagina, una pagina e mezza) l’indiano – dopo avere spiegato che la Chiesa d’Inghilterra ha due capi, l’Arcivescovo di Canterbury per gli affari con Dio e la Regina per quelli con Mammona – concluda amaramente che tali professori erano così ubriachi del vino vecchio da non desiderare quello nuovo, suggerendo implicitamente dove riesca a trovare tutto il coraggio di presentarsi in pubblico bardato in cotal guisa.
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