lunedì 12 settembre 2011
Quanto basta per giudicare un romanzo? Alle volte temo di eccedere ma leggendo Uomini e cani di Omar Di Monopoli ho trovato conferma che possono bastare due lettere: emme-o. Se "mo" contravviene alla lezione di Dante che nel XXXI del Paradiso muove gli occhi "mo su mo giù e mo recirculando", se "mo" è scritto con l'apostrofo come se fosse l'abbreviazione di "modo" invece che una particella temporale, allora è altamente probabile che siano guai. Omar Di Monopoli piazza dei bei "mo" apostrofati e, ritenendosi implicitamente superiore a Dante (che forse ignora), scrive il resto del romanzo di conseguenza: pesco fior da fiore. Una competizione elettorale descritta con un qualunquismo corrispondente in pieno allo stile convenzionale della prosa. Una "locale macchina elettorale" che "si era messa in moto di buon mattino": al sabato, perché quando il gioco si fa duro i romanzieri duri non rispettano il silenzio elettorale. Luoghi comuni che a furia di essere rimasticati sfidano la geografia patria, come quando una giovane rientrata in Salento dal Nord Italia dice che a Bologna "un mare così se lo sognano" (il mare di Bologna è, com'è noto, oltremodo inquinato). Personaggi che parlano come calciatori intervistati da Enrico Varriale: "Essere arrivato oggi qui dove sono è diventato per me un traguardo importante". L'abuso di stereotipi linguistico-sociali: "Abbiamo vissuto con le pezze al culo ma la pagnotta non ci è mai mancata". Il chiaro disagio nel tentativo di esprimersi in forme originali che risultano lambiccate se non surrealmente burocratesi: "L'esile donnina in tuta da ginnastica acetata cui quegli occhi appartenevano" (alla tuta?)". Il momento spaghetti western: "Il vecchio aveva riservato per sé la sua ultima cartuccia". Il momento James Bond: "La bocca di Mariuccio Minghella si rilassò in un sorriso viscido. Dannatamente viscido". Una licenza che continua "a passare di mano in mano senza trovare rigetto" invece che ricetto. Addirittura "tre marziali coppie di carabinieri, ognuna delle quali trainate" eccetera eccetera. L'insistenza sulla particella "quel". L'insistenza sulla locuzione "una cazzo di". L'insistenza sulla locuzione "una dannatissima". La sperimentale, sorprendente combinazione "una cazzo di dannatissima". Un onesto riconoscimento dell'influenza lessicale dei fumetti: "Alla fine, l'aveva acciuffata" (come ha notato un'amica, l'autore fa uno sforzo per mantenersi un centimetro al di qua di "corpo di mille balene"). Tutto questo perché ho la pessima abitudine, se inizio un romanzo, di finirlo invece che abbandonarlo non appena trovo un apostrofo che accoltella il "mo". In realtà avrei fatto meglio a rileggere l'archivio delle mie stesse mail; a un critico che mi chiedeva se fosse il caso di leggere Uomini e cani per farsi un'idea della contemporanea narrativa pugliese, esattamente tre anni fa avevo risposto: "Non l'ho letto perché, avendo aperto il volume a caso in libreria, ho notato che le frasi raramente sono più lunghe di soggetto-predicato-complemento. Magari mi sbaglio, ma preferisco avere torto marcio piuttosto che perder tempo a leggerlo e aver ragione". Col tempo avevo dimenticato questa saggia considerazione e oggi è inutile che me la prenda con l'amico che me l'ha raccomandato di recente (sarà stato il caldo), con l'editore che l'ha ristampato in edizione economica, con l'edicola che l'ha esposto e con la fascetta che ostentava la favorevole recensione di Repubblica (altro pessimo segno): è solo colpa mia se non potrò mai più riavere i sette euri e novanta che ho speso e i due pomeriggi che ho buttato.