lunedì 6 febbraio 2012


I cantori istituzionali dl 150° anniversario dell’unificazione hanno una memoria oltremodo selettiva. Non hanno quanto meno posto nel giusto risalto un curioso e istruttivo evento risorgimentale che segnò il punto di svolta nella lotta psicologica fra l’oppressore austriaco e gli indipendentisti lombardi; l’allora vicesegretario della congregazione municipale di Milano, Francesco Crippa, lo racconta così: “Verso le ore 4 pomeridiane del giorno 3 gennaio 1848, le contrade della città di Milano cominciarono ad essere innondate da bande di soldati che, contro la loro abitudine, i loro mezzi pecuniari, e le severe discipline militari, avevano il sigaro in bocca. Non pochi ne avevano due contemporaneamente” (il testo è riportato da Denis Mack Smith ne Il Risorgimento Italiano, Laterza). Era accaduto che da un giorno all’altro, la notte di Capodanno 1848, i milanesi tutti avevano deciso di smettere di fumare per non versare ulteriori soldi nelle già esose casse del governo austriaco. I soldati governativi, dopo la provocazione della passeggiata con due sigari per bocca, erano passati a malmenare la popolazione inerme; dopo due mesi sarebbero arrivate le Cinque Giornate di Milano.

L’episodio dello sciopero del fumo è istruttivo per cause e modalità. Il Crippa spiega che si trattava di una protesta – limitata ma ferma – originata dal senso di non essere adeguatamente rappresentati da un governo per il quale si pagavano dure conseguenze pecuniarie: “Il desiderio di miglioramenti politici, che dal più al meno fermenta ora in tutta Europa, aveva fatto nascere in molti il divisamento d’una pubblica e solenne dimostrazione da cui apparisse che qui non erasi contenti del modo con cui si era governati”; tuttavia “piacque a qualche superiore autorità il dichiarare implicitamente che tale malcontento non esisteva”. L’italianissimo colpo di genio dei rivoltosi fu di non squalificarsi con azioni violente o passibili di sanzioni ma di rinunciare a un vizietto, poco oneroso per loro ma ben retributivo per il governo, al quale nessuna legge avrebbe potuto costringerli. Il Crippa scorge chiaramente questo punto: “Non volendo né dovendo adoperare forme illegali, si adottò unanimemente il già ventilantesi partito di non fumare, e con maraviglioso ed indimenticabile esempio fedelmente ci si attenne al proposito”.

Veniamo ai nostri giorni. Se un governo aumenta direttamente o indirettamente il prezzo di ogni genere di conforto, e inventa addirittura una tassa sulla fortuna ossia sul vizietto di giocare a un gratta-e-vinci; se si ritiene che questo governo non rappresenti le intenzioni effettive della popolazione che è chiamato a beneficiare; se a ragione non si vuole infrangere la legge evadendo le imposte o ordendo atti terroristici un po’ patetici, allora basterebbe astenersi unanimemente per tutto il 2012 dall’entrare nelle ricevitorie così da non versare nelle già esose casse statali un solo euro in più del dovuto. La tassa sulla fortuna andrebbe deserta – senza giocate non ci sarebbero vincite – e si darebbe ciò che il Crippa definiva “una solenne prova che non erano veritieri i rapporti officiali e le dichiarazioni semi-officiali, con cui l’autorità politica voleva far credere che realmente queste provincie fossero a pieno contente del modo con cui si governano”. Sarebbe soprattutto la prova che gli italiani non hanno impiegato questi 150 anni a diventare gli austriaci di sé stessi.