Il principale effetto della riforma universitaria introdotta nel 1999 da Luigi Berlinguer – il famigerato tre più due – è stato di raddoppiare le feste di laurea. Il candidato si presenta di fronte alla commissione, discute la tesi come può, viene proclamato dottore, indossa la corona d’alloro, si mette in posa pagando cinque o dieci euro a scatto, brinda con parenti e amici e il giorno dopo torna a lezione come se niente fosse, in attesa di laurearsi di nuovo un paio d’anni dopo se tutto va bene. Né si può escludere il caso limite: uno al mattino si laurea e al pomeriggio si sfila la cravatta, depone l’alloro e ancora tramortito dal pranzo faraonico va a sostenere un esame con un professore già membro della commissione mattutina, il quale magari lo boccia: così che a sera il neodottore, mentre parenti e amici ancora brindano per festeggiare, già beva per dimenticare.
Alla questione delle feste di laurea Repubblica ha dedicato qualche settimana fa una lenzuolata in cui il professor Maurizio Bettini, che insegna filologia classica a Siena, lamentava gli eccessi delle lauree-evento quanto a vestiario, filmini, palloncini, coriandoli e tappi di champagne. Ha ragione. Se con la tradizionale laurea del vecchio ordinamento la discussione era un evento accademico aperto a pochi intimi atterriti dall’autorevolezza dei docenti, nel giro di dieci anni è diventato di moda festeggiare la più squallida delle lauree brevi imbrattando tutto, sfasciando quel che si può e affiggendo sopra le lapidi degli antichi barbogi volantini fotocopiati con la foto del neodottore ubriaco o seminudo o assiso sulla tazza del cesso con didascalie che riecheggiano un ritornello di Checco Zalone: “Se ce l’ho fatta io / ce la puoi farcela anche tu; / se ce l’ho fatta io / figuriti tu”. Solo che lui scherzava e loro dicono sul serio, solo che lui sbagliava apposta e loro vanno fieri di poter scrivere del loro genio di famiglia: “Se c’è là fatta lui…”.
Ai suoi tempi Luigi Berlinguer presentava la propria riforma come ineludibile. Di ineludibile qui c’è solo l’evoluzione antropologica del popolo delle prime comunioni: quelli che dieci anni fa festeggiavano il pargolo in saio bianco con celebrazioni megagalattiche, quelli che da qualche tempo al diciottesimo compleanno gli regalano un servizio fotografico professionale che più tamarro non si può, a maggior ragione lo esaltano ora che è cresciuto e veste l’alloro, ancorché alloro triennale: tutti hanno diritto a un royal wedding per ogni tappa importante della vita, anche se il giorno dopo tornano a sedere fra i banchi spogliati di ogni fronda. Alle Università non resta che emettere velleitarie ordinanze (non schiamazzate! non lanciate uova o farina sugli affreschi! non scagliate il nonno nella fontana vuota!), assistere impotenti mentre vengono disattese e poi pagare i danni di tasca propria. A meno che non si colga al volo l’opportunità che sembra offerta da un’inversione di tendenza: lo scorso anno le statistiche hanno alfine registrato un numero di immatricolazioni, e quindi di rette, inferiore al numero di lauree, e quindi di feste. La mia modesta proposta per i magnifici rettori è dunque di sopperire ai mancati introiti e di ripianare le spese da eccesso d’entusiasmo emettendo un’innovativa ordinanza per cui l’ingresso alle sedute di laurea sia gratuito soltanto per il candidato ma costi dieci euro per genitori orgogliosi, zii tracotanti, compagni di bisbocce e amici goliardoni. Se è uno spettacolo, allora si paga il biglietto.