domenica 11 gennaio 2015

Super-Houellebecq, parte quarta. Cinque anni fa, in esilio a Oxford, leggevo il fantaromanzo La carta e il territorio e mi domandavo: ma quand'è ambientato? Così notavo che Houellebecq non dava una data esplicita ma forniva indizi più che esatti, e iniziavo un ragionamento che va ben oltre il 2022 in cui è ambientato Sottomissione. Eccolo qui.

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Quesito per solutori più che abili: in che anno si colloca la voce narrante dell’ultimo romanzo di Houellebecq? Inutile mettersi a sfogliarlo parossisticamente alla ricerca di un numeretto: l’indizio si trova a pagia 346, quando viene menzionata la morte di Frédéric Beigbeder, “avvenuta all’età di settantun anni”. Poiché Beigbeder esiste veramente, in quanto autore de Un roman français e di 99 francs, e poiché Beigbeder è nato nel 1965, si deduce che l’anonima voce narrante si pregia di parlarci dal 2036. Si tratta di una voce anonima che sicuramente non coincide con quella dell’autore, in quanto Houellebecq – è stato ripetuto fino alla nausea su tutti i giornali, quindi guai a chi non lo sa – compare nel romanzo in qualità di personaggio secondario, alter ego del protagonista Jed Martin. Se dalle pagine emerge chiaramente la predilezione di Martin per Houellebecq, che come lui è solitario, beone e ex donnaiolo e ciclotimico, è più difficoltoso ma non peregrino stabilire la corrispondenza inversa secondo la quale Martin è una riproduzione su piano differente di Houellebecq ai suoi esordi. Gli indizi ci sono, sparsi qua e là: Martin è più giovane di Houellebecq e come lui viene travolto da una fama improvvisa e universale che non sembra in grado di gestire. Soprattutto, le opere con le quali l’artista figurativo Martin guadagna fama sono, nell’ordine, una serie di fotografie dettagliate di oggetti inerti, la riproduzione di carte topografiche riprese da angolazioni tali da conferirvi profondità e una serie di ritratti pittorici di uomini famosi e no intenti ad attendere alla propria professione. Chi ha letto Houellebecq dagli esordi potrebbe senza difficoltà riconoscere nelle opere di Martin i suoi primi tre romanzi: la prosa tagliente e i personaggi inermi de L’estensione del dominio della lotta (1994); la percezione allucinata della globalizzazione che travolge la sfera privata in Piattaforma (2001) e la cristallizzazione delle ossessioni degli uomini in base alla loro professionalità che caratterizza la dicotomia fra i fratellastri Michel Djerzinski e Buno Clément ne Le particelle elementari (1998). Sono tutti tradotti da Bompiani, quindi se non li avete letti potete agevolmente documentarvi. Si potrebbe contestare quest’allegoria argomentando che la seconda e la terza opera sono disposte in ordine cronologico inverso, ma personalmente ritengo che sia fatto a bella posta e in piena coerenza con la leggera sfasatura fra vero e falso che si presenta nel romanzo: il lettore sa che Jed Martin non esiste ma che tutto ciò che lo circonda (Houellebecq e Beigbeder, i celebri soggetti del suo ciclo di quadri sui mestieri, le carte Michelin, le compagnie idrauliche che omettono di riparargli la caldaia) esiste e come. Addirittura, per narrare di sé in terza persona in maniera più asettica, Houellebecq inizia a definirsi come “l’autore de Le particelle elementari”, “l’autore del Senso della lotta”, e così via fino a citare l’unico seminario di scrittura creativa tenuto da Houellebecq, all’università di Louvain-la-Neuve (un’università cattolica che esiste veramente) nel 2011. Il 2011, per chi non se ne fosse accorto, è l’anno venturo. Ponendosi come narratore da un lontanissimo futuro, oltre a poter citare seminari di creative writing che forse non terrà, Houellebecq acquisisce la prospettiva vertiginosa che gli consente di risultare credibile come personaggio e scrivere un romanzo estremo in forma tradizionale. Se Houellebecq non avesse vinto il premio Goncourt neanche stavolta ci sarebbe stato da scendere in strada e fare la rivoluzione, altro che per la riforma delle pensioni. L’unico rimpianto è che, coerentemente con la sua scelta di understatement, non abbia giocato di più con la prospettiva temporale indicandosi anche quale autore di romanzi che non ha ancora scritto. In compenso ha descritto la propria morte con particolare realismo, non immemore della morte di Moni Vibescu ne Le undicimila verghe di Apollinaire. Lui e il suo amico Beigbeder possono essere contenti: morire in un romanzo allunga la vita anche oltre il 2036.