mercoledì 23 luglio 2008

Buone vacanze, per quel che è possibile



Già lo sto aggiornando pochetto; ora vado in vacanza e abbandono del tutto il blog per due settimane piene. Non penso di causare suicidi di massa, così a occhio. Se ne riparla l'11 agosto, per Santa Chiara.

domenica 20 luglio 2008

Scarti e rimanenze: La coscienza di Zündel

[Ora, non è che Gurrado sia un re Mida che trasforma in oro tutto quello che scrive. Può capitare, ci mancherebbe, che qualche articoletto o recensione si perda nei recessi virtuali o cartacei della testata per cui era stato scritto e che alla fine non venga pubblicato per mancanza di spaziotempo, o perché fra una cosa e l'altra è passato il momento buono e perde di senso. D'estate la tv manda le repliche, io ripesco fra le frattaglie qualche recensione ancora vergine.]

Avrebbe agevolmente potuto, lo svizzero Markus Werner, intitolare il suo primo romanzo De Ructari Eloquentia; invece ha optato per un più neutro, più descrittivo e più malinconico Zündel se ne va. Neri Pozza, che com’è noto sa scegliere le copertine tanto bene quanto i testi, l’ha illustrato con un giovane invecchiato, mestamente ripreso di spalle, che a testa china costeggia una riva tenendo un indecifrabile libro fra le mani. Il passo del giovane è abbastanza ampio da suggerire che cammini di fretta, senza lasciarsi trasportare dal romanticismo del luogo, dal cielo brumoso e dal mare appena appena increspato in superficie. Mi rendo conto che, se invece Markus Werner avesse scelto di intitolare il suo primo romanzo secondo il mio suggerimento, trovare un’adeguata copertina sarebbe risultato più difficoltoso – ma in Neri Pozza ho illimitata fiducia, pertanto chissà.

Zündel se ne va avrebbe anche potuto chiamarsi De Ructari Eloquentia perché con tre parolette latine avrebbe inchiodato il lettore al ritratto del protagonista Zündel: colto, snob, terreno e disincantato, che quando sua moglie gli annuncia di voler andare in vacanza da sola, sentendosi preso da un improvviso ma più che comprensibile afflato di antifemminismo, piglia e se ne va iniziando a vagare senza meta, con l’unica compagnia dell’insistente voce della coscienza (nel duplice senso di lume interiore e di consciousness) il cui continuo referto costituisce di fatto il romanzo che leggiamo. Allora Zündel rutta.

Alla prima colazione da solo, infatti, Zündel si rende conto dei latenti vantaggi dell’improvvisa libertà: “Finalmente posso bermi il caffé come mi pare. Per anni ho rinunciato a fare rutti. Per anni ho dovuto sopportare quelle stupide chiacchiere di prima mattina”. Il rutto, gesto di per sé ignobile se compiuto in presenza altrui, diviene una sorta di autoriconoscimento hegeliano grazie al quale il servo si fa padrone (Kojève sarebbe stato fiero di me, mannaggia). Un po’ come quando Tarzan il selvaggio si risveglia e, per prima cosa, lancia urla terrificanti percotendosi il petto leopardato.

Il rutto, in sé, è la rivincita dello stomaco sul cervello, ovvero la sostituzione dell’apparato digerente alla faticosa articolazione linguistica. Se consideriamo il contenuto, con lo scorrere delle pagine l’offesa che peggio ferisce il pensoso Zündel è di essere ritenuto un intellettuale, ossia un anti-uomo, un tizio che mette il cervello al centro di tutto e che – secondo l’accusa che Feuerbach moveva a Hegel – si pregia di camminare sulla testa. Il che porta Zündel a vibranti proteste e a sentite rivendicazioni di effettiva umanità: “E allora? Quale sarebbe la differenza tra me e un qualsiasi altro lavoratore? La sera sono stanco morto anch’io e il fine settimana anch’io mi lascio andare ai miei istinti. Faccio rutti, scorregge, bestemmio e bevo birra. Al lotto ci gioco anch’io. E anch’io sono infelice”. Il ritorno del rutto, nella circostanza, non è assolutamente casuale; filosoficamente parlando il rutto, proprio in quanto forma pura senza contenuto, così come il suo sfinteriale cugino germano è la certificazione della vita senza testa, di un temporaneo strappo al controllo razionale. Zündel sa benissimo che “l’intelletto uccide ogni gioia di vivere” e commenta: “il fatto che la femmina del pregadio (Manits religiosa) all’inizio dell’accoppiamento stacchi la testa al maschio con un morso, migliorando così le potenzialità sessuali di lui (nella testa sono infatti localizzati dei centri nervosi che inibiscono la copulazione), è tutt’altro che sorprendente. Senza testa si vive più spontaneamente”.

Se invece consideriamo la forma, la ructari eloquentia di Zündel si manifesta nello stile borborigmico mediante il quale la trama viene portata avanti, a singulti peristaltici e squarcianti lampi d’intuizione. Forse un po’ discontinuo, forse talvolta difficile a seguirsi per il lettore distratto, il breve esordio di Markus Werner risente dell’essere stato originariamente pubblicato nel 1984, quando certe acrobazie sperimentali erano pressoché d’obbligo. Ora non lo sono più, e il pubblico che vuole storie potrà lamentarsi nei confronti degli autori dai quali vent’anni fa egli stesso pretendeva piroette. Io non so quale possa essere al riguardo la reazione di Werner (il quale nel frattempo ha pubblicato vari altri romanzi, fra i quali Quando la Vita Chiama tradotto da Neri Pozza un paio d’anni fa); ma, persistendo nella capitale distinzione fra autore e personaggio, posso intuire piuttosto facilmente quale sarebbe la plausibile reazione di Zündel di fronte alle esigenze del pubblico. Sarebbe piuttosto rumorosa, scommetto.

Hegeliano e anti-hegeliano senza forse nemmeno saperlo, alla fine Zündel se ne va anche rispetto ai razionali canoni che reggono il mondo; la lenta destrutturazione del suo cervello, il venir meno dell’autoconsapevolezza e lo sfaldarsi della sua coscienza interiore sono le inevitabili conseguenze di una scelta paradossalmente razionalissima: rinunziare alla ragione, ai doveri coniugali, alle aspettative altrui e alle buone maniere faticosamente conseguite, sapendo qual è il momento in cui smettere di parlare e parlare per spiegarsi faticosamente e iniziare invece a rendere noto con coraggio prearticolato il proprio travaglio interiore, e intestinale.

martedì 8 luglio 2008

Il ricordo della crepa sul muro

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Di primo acchito, Dèjà Vu ha elementi sufficienti tanto a entusiasmare il lettore quanto a causargli più che legittimi dubbi. Il titolo (efficace traduzione dall’inglese Remainder) ad esempio è affascinante quanto la copertina scelta dalla ISBN per l’edizione italiana, che consente di poter scorgere nome dell’autore, titolo e codice a barre esclusivamente guardandoli in tralice, come fossero stampati in inchiostro simpatico, secondo un gioco ottico che cerchi di arrivare all’intelletto e alla memoria del lettore senza passare per gli occhi. Si resta invece un po’ perplessi leggendo la succinta biografia di Tom McCarthy, lì dove si apprende che è al suo esordio come romanziere ma che è già affermato come artista concettuale soprattutto in quanto fondatore di un network avanguardistico dalla denominazione minacciosa: la International Necronautical Society. Prima ancora di aprire il romanzo dunque, senz’averne nemmeno letto una parola, si parte con la speranza e col sospetto che Déjà Vu possa essere sorprendentemente stimolante o un distributore automatico di delusioni, o montagna o topolino.

La trama è indubbiamente ambiziosa: un giovane viene colpito da un oggetto piovuto dal cielo – una sorta di deus ex machina postmoderno, per l’occasione parte di un ipertecnologico macchinario di un’azienda pressoché onnipotente – e perde del tutto la memoria. Il buco nero con la descrizione del quale si apre la prima pagina segna di fatto il rinnovamento del trauma della nascita. L’accordo legale che in cambio del silenzio consegna al protagonista una somma sconsiderata, talmente alta che si ha difficoltà a realizzarla, è il correlativo dell’apertura davanti agli occhi di Adamo di un intero Paradiso Terrestre potenzialmente infinito (ma, a conti fatti, destinato a non durare). Tom McCarthy intende usare il protagonista come burattino che scandagli l’insondabile mistero della memoria umana e dell’intelletto attivo che regola le azioni: per prima cosa, il protagonista smemorato deve imparare a camminare, anzi ricordarsi come si fa, secondo un procedimento inverso a quello automatico che consente a chiunque di mettere un piede davanti all’altro senza pensarci affatto e senza inciampare più di tanto. Deve, insomma, ritrovare la naturalità di azioni indotte.

Altrettanto ambizioso è il progetto che si propone il protagonista, plausibile alter ego dell’autore. La sua idea è quella di rincorrere un fugace, flebilissimo ricordo balenatogli davanti a una crepa in un muro, ricostruendo pari pari dapprima la crepa, quindi il muro, poi la stanza e l’appartamento e il palazzo tutto. Con la sua sconfinata ricchezza il protagonista può creare un enorme souvenir, pullulante di personaggi ripresi dal suo incerto passato, e vivere lì insieme a loro nell’attesa della reiterazione perpetua di un momento irripetibile.

Il procedimento è, più o meno, quello che ha portato l’uomo dalla casuale scoperta del fuoco alla sua – per così dire – invenzione consapevole a seguito di tentativi più o meno fallimentari. La fabbricazione del ricordo, in Déjà Vu, passa attraverso infinite prove corali per rimettere in scena, reinterpretare una determinata fetta di vita nella maniera più naturale possibile.

Sin dalle prime pagine il protagonista nota, col decisivo aiuto di Robert De Niro, che gli attori migliori sono quelli che vivono con naturalezza una vita innaturale, in cui non si scivola mai su un tappeto mal messo né si deve lottare col portello del frigorifero che si blocca di tanto in tanto. Lo stesso pretende il protagonista dalla pletora di attorucoli che scrittura per reinterpretare i momenti più kitsch, e per questo memorabili, della sua vita precedente. Se non che la reinterpretazione non è né può essere mera riproduzione: non è la stessa cosa, ad esempio, che un pianista suoni all’infinito una determinata frase senza essere visto o che si faccia sostituire da una registrazione reiterata di sé stesso che suona. C’è un impercettibile scatto di millisecondi che tuttavia, alla conoscenza istintiva della memoria latente, diventa decisivo per separare il verosimile dall’inverosimile – che è la stessa cosa, in questo caso, che distinguere il vero dal falso.

Per questo l’ambizioso progetto dello smemorato protagonista naufraga dopo essere degenerato verso una morbosità prima grottesca poi preoccupante. E l’altrettanto ambizioso progetto del necronauta McCarthy ha miglior riuscita? Può darsi; sicuramente nella sua prima parte il romanzo è vivace e intrigante, lasciando sperare in ulteriori margini di crescita che tuttavia – man mano che le pagine aumentano e si avanza la necessità di concludere la storia, di trovare un bandolo, di dare un senso – non vengono mostrati. Sembra anzi che dalla metà in poi McCarthy si limiti a farsi venire delle idee, brillanti senza dubbio, e a buttarle giù a casaccio e alla rinfusa, senza preoccuparsi di scandire l’avvicendarsi delle scene secondo una progressione ragionevole.

È probabile che si tratti di un voluto effetto concettuale, che anche senza sconfinare nello sperimentalismo denota una certa disinvoltura nella definizione di libertà artistica. È probabile anche che possa essere un po’ d’inesperienza narrativa, come forse tradisce il finale, indubbiamente funzionale alla tematica della reinterpretazione e reiterazione, ma un po’ troppo simile a quello de L’Amore ai Tempi del Colera. Chiudo con una curiosità, anzi quasi un capriccio: letto in lungo e in largo il suo romanzo, ponderata la sua biografia e perfino visitato il sito della sua società necronautica (“la morte è un tipo di spazio che vogliamo mappare, penetrare, colonizzare e, successivamente, abitare”), non ci si capacita di come a Tom McCarthy sia saltato in mente di dedicare il suo esordio narrativo come l’ultimo dei principianti – ai suoi genitori.

sabato 5 luglio 2008

Ogni riferimento a fatti e persone

Eccezione alla regola, pubblico qualche stralcio di un articolo di Camillo Langone uscito stamattina su Il Foglio (anno XIII n.180 p.2). Chi vuol capire capisce.

(...) Non ha conosciuto la dolcezza del vivere chi non ha vissuto prima della rivoluzione dell'università di massa. Per gli altri, per chi è arrivato a festa finita, per i postumi, solo amarezze e supplenze. (...) Eppure tutti quanti, nei magnifici Sessanta, si laurearono e subito dopo salirono in cattedra (...) e subito dopo si sposarono e subito dopo fecero figli, il tutto con invidiabile naturalezza, come se la vita fosse quella, come se il mondo fosse così. Allora ho pianto per Antonio di Gravina, per Chiara di Dervio, per Luca di Bisceglie, per Erika di Parma, per Massimiliano di Teramo, per Teresa di Francavilla, per tutte le amiche e gli amici che si sono arrabattati, si arrabattano o stanno per arrabattarsi alla SSIS, troppe esse per una sciagura sola. SSIS sta per Scuola di Specializzazione per l'Insegnamento Secondario ed è il pedaggio da pagare per tutti coloro che, laureati e spesso addottorati e masterizzati all'estero, ambiscono a insegnare nelle scuole medie e superiori (no, niente insegnamento universitario, il giovane che oggi si ponesse questo obiettivo più che della SSIS avrebbe bisogno del TSO, Trattamento Sanitario Obbligatorio). La SSIS è un supplemento di umiliazione e frustrazione per chi studia da due o più decenni (...) Senza SSIS non c'è alcuna possibilità di un posto nella scuola (...) Ma attenzione, anche con la SSIS non è garantito un bel niente, specie nell'epoca dei (giustissimi) tagli annunciati. I corsi durano un paio d'anni, prevedono frequenza obbligatoria e costano pure: 4000 euri a cui vanno aggiunte le probabili spese per il pendolarismo o il fuorisedismo, il tutto gravante su genitori arcistufi, pochissimi dei quali avranno la gioia di diventare nonni a cinquantatré anni. (...) Nessuna carriera e nessuna indipendenza aspetta i miei amici, che pure non saranno del tutto scemi. Se gli andrà bene, all'alba dei trentacinque-quarant'anni potranno sciogliere quell'orrenda sigla burocratica in Semi Sicuro Infimo Stipendio. Con la beffa di doversi considerare dei privilegiati: lo Scatolone dei Sogni Italiani Spezzati ha più aspiranti che posti e qiundi l'esame di ammissione è molto selettivo. (...) L'altra notte ho pianto pensando a tutti i naufraghi che nella notte dell'incertezza sociodemogracfica (fra dieci anni esisteranno ancora le scuole medie in Basilicata?) cercano di raggiungere l'ultima spiaggia dell'abilitazione e del punteggio aggiuntivo. Certo sono colpevoli, e non sono innocenti i genitori che per ignoranza o vanità hanno finanziato studi assurdi, ma più colpevoli ancora sono gli inventori di un parcheggio a pagamento per laureati disoccupati, e colpevolissimi i politici che, avendo l'opportunità di parlare alla nazione a reti unificate, mai hanno avuto il coraggio di dire: "Non fate architettura né filosofia né lettere né lingue se non siete ricchi di famiglia".

venerdì 4 luglio 2008

Rendere omaggio a Barthes

(Gurrado per Il Sottoscritto)

I miti d’oggi sono quattro in più di quelli di ieri. La traduzione a opera della sempre meritoria ISBN arriva con giustificabile anno di ritardo sul cinquantesimo anniversario dell’uscita delle Mythologies di Roland Barthes (1957), celebrata in Francia con la pubblicazione delle Nouvelles Mythologies a cura di Jérôme Garcin, sempre per i tipi di Seuil. Sulla copertina dell’originale ieri c’era un barocco macchinone Cirtoën, oggi una Smart rococò (tanto che il sottotitolo dell’edizione italiana ci marcia e recita: “da Barthes alla Smart”). L’indice di Barthes comprendeva cinquantatre miti, quello di Garcin cinquantasette: non c’è più lo strip-tease ma c’è lo speed-dating; non c’è il viso di Greta Garbo ma il corpo di Emmanuelle Béart; l’unica conferma è curiosamente quella dell’Abbé Pierre, di cui Roland Barthes indagava l’iconografia in vita e l’incaricato Patrick Poivre d’Arvor, più mestamente, la morte.

La sostanziale differenza fra ieri e oggi è costituita dal taglio interpretativo. Nel 1957 era Barthes in prima persona a raccogliere in volume gli scritti che aveva composto con una certa costanza (circa uno al mese) per i tre anni precedenti; nel 2007 Garcin si limita a raccogliere gli interventi dei contributori sparsi nei meandri vari dell’intelligentsia francese, da Jacques Attali a Catherine Millet, da Marc Augé a Paul Virilio, dalla dimenticabile romanziera sanguemisto Bessora a personaggi la cui fama in Italia può trarre solamente vantaggio da questi scritti d’occasione. Per questo i due libri non sono, in fin dei conti, comparabili. Barthes intendeva portare avanti un’ideologia coerente e unitaria, che teneva insieme i diversi e trascurabili pezzi di (post)modernariato eletti a mito utilizzando quale comun denominatore, scrive, “un sentimento d’impazienza di fronte alla naturalità che la stampa, l’arte e il buon senso affibbiano senza posa a una realtà, quella in cui stiamo vivendo adesso, che ciò nondimeno è perfettamente storica”. Garcin e i suoi danno vita a una ridda di voci discordi con la quale non si può monoliticamente concordare o meno, e nella quale non mancano riferimenti e sarcasmi incrociati, così che un articolo derida, poniamo, la corrente di pensiero alla quale s’iscrive in pompa magna l’autore che in un altro articolo deride qualcos’altro. Vizi da intellos, niente di nuovo sotto il sole. Nuovi Miti d’Oggi è un libro da treno, di quelli che si leggono per farsi compagnia e lasciarsi trasportare dalla chiacchiera, limitandosi ad appuntare qua e là le osservazioni interessanti e a storcere il naso di fronte ai luoghi comuni, senza darvi troppo peso.

Le considerazioni brillanti non mancano e spuntano quando meno le si aspetta. Attali ridefinisce la geografia dell’orario lavorativo (“un giorno... ci si accorgerà che la casa e la metropolitana sono luoghi di lavoro come gli altri”); Laurent Joffrin offre un perspicuo ragionamento attorno all’assestamento politico francese da Chirac a Sarkozy; Nicolas Baverez smonta la fobia dell’idraulico polacco, che costò il successo al referendum europeo del 2005, dimostrando come da secoli la Polonia sia un alleato storico al quale la Francia non può che rivolgere sentiti ringraziamenti.

Talune intuizioni invece sono folgoranti e vengono racchiuse in aforismi compendiosissimi quasi sempre in apertura o chiusura d’articolo. Claude Lanzmann lo fa oscuramente (“l’11 settembre è la litote estrema”), Jacques-Alain Miller immaginificamente (“Google è il ragno della rete”), Jacqueline Remy argomenta che “per trovarsi, le donne sono obbligate a perdersi”, Sophie Fontanel conclude: “non è triste che il Botox sia un mito moderno, no; quel che è sconsolante è che non funziona”.

La sintesi, necessaria in un volume di centocinquanta pagine che si proponga di affrontare oltre cinquanta argomenti differenti – o cinquanta sfaccettature del medesimo – diventa un po’ eccessiva quando l’autore incaricato preferisce non diffondersi oltre i 1800 caratteri, senza premurarsi di raggiungere il limite di decenza della singola cartella. Questo impedisce tanto una chiara esposizione del soggetto (sono infatti gli unici passi in cui Nuovi Miti d’Oggi sembri un vero libro di filosofia) quanto l’enucleazione di un concetto compiuto che vada al di là del senso comune. Rincresce notare come uno degli autori più stitici sia stato Marc Augé, magari proprio colui che avrebbe avuto più da dire.

Meglio la sintesi e il mutismo, comunque, che lo sdilinquimento per alcune idées reçues d’ordinanza, a cominciare da un certo femminismo e soprattutto ambientalismo d’accatto, che personalmente trovo un po’ deprimenti tanto nel contenuto quanto nella forma. Certe sentenze di Pascal Bruckner (“è paradossale che le donne, dopo aver conquistato l’indipendenza, si autorappresentino… come oggetti puramente erotici”) o di David Le Breton, che non trova di meglio da dire che il suv dà “costantemente e valorosamente il suo contributo alla crisi energetica e al surriscaldamento del pianeta”, puzzano di creatività intellettiva in crisi, costretta a inseguire invece che a far da guida – e Barthes avrebbe verosimilmente avuto molto da ridire. Queste cadute di stile sono per fortuna vendicate dal capolavoro assoluto di Jacqueline Remy, che in pagine due e mezza ha la destrezza di comporre un’enciclopedia della borsetta, dalla quale “spuntano oggetti come conigli dal cilindro: un telefono cellulare, una spazzola per capelli, un Palm, occhiali da sole, due penne, un blush seguito dal suo pennello, un mascara, un altro di ricambio, un lucidalabbra, una crema per le mani, un quaderno, un biglietto dell’autobus, tre giornali…”.

Jerôme Garcin gioca pulito e dichiara sin dall’introduzione che lo scopo di Nuovi Miti d’Oggi non è aggiornare Barthes ma rendergli omaggio, approfittandone per catalogare “il bazar del duemila”. Un catalogo è una mappatura e come tale può avere l’effetto di mostrarci in che direzione ci muoviamo nonché di fermarci in tempo. Nuovi Miti d’Oggi tuttavia è un’opera assolutamente francocentrica, che ha l’ardire di mettere sullo stesso piano simbolico l’11 settembre 2001 e il 21 aprile 2002 (e, se vi ricordate cos’è successo il 21 aprile 2002, vuol dire che siete Francesi anche voi): stante l’influsso che i cervelli di Francia hanno avuto e sempre avranno sui nostri, questo catalogo è anche un’occasione per mostrarci dove stanno andando gli intellettuali, con le loro fisime e i loro trucchetti, sapendo che non si riuscirà a fermarli mai.

martedì 1 luglio 2008

La devastazione portata in Sudafrica

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Le Stanze Illuminate è il romanzo più complesso e maturo di Richard Mason: lungo quasi il doppio dei precedenti, si articola senza alcuna divisione in parti o sottoromanzi in un cospicuo numero di capitoli (sessantanove), lungo i quali si rincorrono due storie principali: quella di Joan McAllister, vecchietta rinchiusa in un ospizio di lusso a seguito del suo progressivo obnubilamento, e quella di sua figlia Eloise, impegnata in una finanziaria che rischia quasi tutti i suoi fondi in un investimento istintivo e poco ponderato. La scelta di sviluppare il romanzo su queste due colonne portanti è furba in quanto riesce ad avvincere allo stesso modo due tipi completamente differenti di lettore: quello interessato al ripescaggio (più o meno allucinato) del passato da parte della vecchia Joan e quello che si appassiona alle alterne vicende degli hedge fund patrocinati dalla giovane Eloise. Il merito principale di Mason è quello di riuscire a mantenere questo equilibrio altrimenti precario conducendo con mano ferma la storia dalla prima all’ultima pagina.

Rispetto ai due precedenti romanzi di Mason (il primo pubblicato quando aveva solo diciannove anni), ne Le Stanze Illuminate si nota una maggiore drammatizzazione della trama. Riprendendo una consueta e spesso forzata distinzione tecnica, si può dire che Mason è passato dal telling the tale, ossia dal raccontare gli avvenimenti, allo showing it, impegnandosi maggiormente nel mostrare i suoi personaggi alle prese coi diversi eventi cui la trama li sottopone piuttosto che proteggerli in qualche modo col filtro narrativo che caratterizzava i suoi primi due pur riuscitissimi tentativi. In Anime alla Deriva, infatti, la voce narrante era proiettata in un verosimile futuro (benché fosse del tutto inchiodata ai giovanili eventi che avevano segnato la sua esistenza) e sovente si accartocciava su riflessioni varie riguardanti il narrare la propria stessa storia e quella altrui; in Noi, quattro anni dopo, ciascuno dei protagonisti era voce narrante e il più pregevole risultato del romanzo era dato proprio dalla polifonia delle loro voci differenti.

Nel titolo stesso de Le Stanze Illuminate è significativa la scelta di una citazione di Philip Larkin, il poeta anglofono più attento a oggetti concreti, stato delle cose e dati di fatto. La prima qualità che si può apprezzare di Mason, fin dal suo esordio, è infatti la straordinaria capacità di ricreare un ambiente descrivendone nel dettaglio gli oggetti che lo caratterizzano e legandoli a doppio filo con la psicologia dei personaggi.

C’è forse qualcosa in comune dunque fra il ruolo dello scrittore e le fantasie della vecchietta visionaria? Joan McAllister è rassicurata dalla consapevolezza di poter vedere, unica al mondo, dei pedali da pianoforte che la seguono ovunque; e come lei Mason in fin dei conti chiama alla presenza degli oggetti che non ci sono e dei quali sfugge il senso ma non gli effetti: la testimonianza della presenza dei pedali lascia ora indifferenti ora sconvolte le persone che circondano Joan, mentre la loro incidenza finisce per risultare di fatto decisiva ai fini dello svolgimento delle loro vite e quindi della trama.

In particolare, Mason utilizza il personaggio di Joan quale necessario tramite per richiamare alla memoria del lettore la guerra angloboera (1899-1902): il ritrovamento, da parte dell’anziana protagonista, del diario di sua nonna le consente di ricostruire con un’immediatezza ingenua ma assolutamente efficace la devastazione portata in Sudafrica dagli attacchi inglesi, dalla cosiddetta tattica della “terra bruciata” (che consisteva nel radere al suolo fattorie e raccolti della borghesia locale) e dalla creazione di campi di concentramento che contribuirono non poco alla morte di circa ventimila boeri. Mason stesso, in varie dichiarazioni pubbliche, ha sottolineato come la guerra angloboera sia di fatto assente dalla memoria degli Inglesi di oggi, e quindi si può dedurre che le sue accurate e vivide ricostruzioni abbiano il principale obiettivo di ristabilire una storiografia condivisa. Meno convincente è l’insistenza sul parallelismo fra l’invasione inglese in Sudafrica e le operazioni belliche americane in Iraq – ma tant’è, a furia di raccontare si finisce per farsi prendere la mano.

Di sicuro colpisce, ne Le Stanze Illuminate, la coerenza intrinseca del testo che scivola via senza sbavature tanto nella trama quanto nella forma. I personaggi sono caratterizzati con sapienza narrativa ignota alla quasi totalità degli autori trentenni, e la precisione e la levità con la quale vengono ricreate l’ambientazione geografica e le implicazioni psicologiche delle scene chiave del romanzo fanno pensare ad alcune pagine di Henry James addirittura. Meno scrittore e più narratore, la terza opera di Mason segna un punto di non ritorno nella parabola descritta dalla sua produzione, e conferma l’intuizione che un autore – per quanto giovane, per quanto baciato dal talento, per quanto oggettivamente favorito dalle circostanze – non può impiegare meno di tre o quattro anni per scrivere un bel romanzo. Richard Mason ha avuto la calma e la pazienza di amministrare le sue capacità separando i suoi romanzi da intervalli olimpici (in Italia sono stati pubblicati uno nel 2000, uno nel 2004, uno nel 2008) garantendo al lettore una crescita costante e apparentemente inarrestabile. Teniamoci pronti per il 2012, il prossimo sarà perfetto.