martedì 28 aprile 2009

Beckett Trilogy

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Il tempo potrebbe rivelare che Samuel Beckett è stato più grande come romanziere che come drammaturgo: bisognerà attendere fino alla metà di questo secolo per confrontare i suoi risultati teatrali con lo stato del teatro nel 2050, e i suoi risultati come romanziere con lo stato della narrativa nello stesso anno. Oggi, a vent’anni dalla sua morte e quaranta dall’assegnazione del Nobel, possiamo soltanto trarre impressioni dalla tendenza generale; a occhio, la tendenza è che al momento sembri più facile inscenare un dramma à la Beckett che scrivere un romanzo beckettiano. L’aggettivo stesso attende ancora di entrare in auge come i più abusati colleghi “kafkiano” o “proustiano”: la narrativa di Beckett è a disposizione da cinquant’anni ma pare restare ancora una prateria inesplorata. Soprattutto in Italia, rincresce dirlo: dove i suoi primi fondamentali romanzi (Murphy,1938, Watt, 1945, e Mercier e Camier, 1946) sono oramai introvabili e dove s’è pian piano estinta la maestosa ed elegante edizione Nuova Universale Einaudi della Trilogia, comprendente Molloy (1951), Malone muore (1951) e L’Innominabile (1953). Una nuova edizione Einaudi del solo Molloy è riemersa nel 2005, cui non hanno fatto seguito gli altri due romanzi – senza i quali il primo resta gradevole ma monco, privo di senso più generale.

Le tre parti della trilogia sono separate e interdipendenti come accade nella cosmogonia indiana, secondo la quale il mondo viene sorretto da un elefante poggiato su una tartaruga. Molloy può essere il mondo: è il più lungo dei tre romanzi, l’unico a essere diviso in due parti speculari, l’unico a presentare pagine graficamente rispondenti alle abitudini del lettore, scandite in agevoli capoversi. È anche l’unico in cui i personaggi si muovano: spostandosi da un luogo all’altro forniscono una parodia dell’archetipo del romanzo-viaggio sia l’eroe eponimo Molloy, che stentatamente s’avanza su un percorso incerto facendo leva sulle proprie stampelle, sia il deuteragonista Moran, detective incaricato di rintracciarlo e progressivamente attanagliato da una malattia alle gambe che lo costringe a finire strisciando.

Nella prima metà la voce narrante è Molloy, nella seconda Moran. Molloy si qualifica da solo come narratore inaffidabile, ostentando un complessivo disinteresse per il mondo ostile che lo circonda e giungendo fino a ritenere incerta l’identità della madre con cui viveva. Il suo orizzonte è limitato al goffo e disperato tentativo di reggersi in piedi, o di avanzare strisciando, nonché al possesso di pochi oggetti e al vano tentativo di imporre un ordine razionale su di essi: una scena-chiave del volume è la descrizione, per pagine e pagine, di come Molloy cerchi un algoritmo per non succhiare due volte una delle sedici pietre di fiume che possiede prima di aver succhiato a turno tutte le altre. Moran invece parte baldanzoso, dopo cento pagine dell’ossessiva narrazione di Molloy, come esponente del positivismo letterario: ha una famiglia, una vita regolare, una missione da compiere e la fiducia di portarla a termine. Il suo racconto ne costituisce il verbale; la prosa di Beckett ne risente e si fa più tradizionale: “È mezzanotte. La pioggia sferza i vetri”, inizia. Ma è solo un appiglio per la parodia e progressivamente la personalità di Moran si sfalda: salta la Messa domenicale, litiga con la moglie, viene abbandonato dal figlio, perde l’uso delle gambe e non trova traccia di Molloy. Conclude raccontando il momento in cui si siede a stendere il verbale che abbiamo letto: “Non era mezzanotte. Non pioveva affatto”.

Malone muore è l’elefante su cui poggia il mondo, per così dire, nonché il secondo stadio della destrutturazione della credibilità narrativa. Protagonista e voce narrante è il vecchio Malone, di età potenzialmente infinita, rinchiuso in una camera ad aspettare di morire. Possiede un quaderno, due matite e un bastone uncinato per raccogliere gli oggetti sparsi tutt’attorno, dei quali via via dimentica la presenza. Il suo obiettivo è intrattenersi fino al momento estremo, raccontandosi storie forse inventate, forse autobiografiche. La sua prosa è scandita da un ritmo lentissimo, morente appunto, e va a capo piuttosto di rado, anche ogni cinque o sei pagine. Oltre che inaffidabile, è un narratore capriccioso: parte in quarta, ristagna, cambia nome ai personaggi, si annoia, s’interrompe perché ha perso la matita e così via. Soprattutto disprezza quello che racconta, ne lamenta l’inutilità di vacuo pour-parler rivolto al muro. È un affabulatore stanco che accoglie la morte come unico possibile sollievo dalla narrativa lasciando poche parole in sospeso sull’ultima pagina.

Al protagonista de L’Innominabile questo sollievo è negato. Lui è come la tartaruga che regge il peso non solo di tutto il mondo, ma pure dell’elefante. Non ha mobilità, non ha consistenza, è una specie di palla sospesa in un vuoto assoluto. Non ha nemmeno le palpebre per asciugarsi le lacrime. Non può distogliere lo sguardo da un punto nel quale vede periodicamente passare Molloy, Malone, Murphy, Mercier, buona parte dei personaggi di Beckett. Nessuno gli parla ed è costretto a scrivere continuamente, senza sosta né desiderio, da un committente che si chiama Mahood, inquietante omofonia con “manhood”, “genere umano”. Anche Molloy nel primo dei tre romanzi aveva un committente, che periodicamente andava a ritirare le pagine che gli aveva dato da ricopiare, e le sue avventure iniziano proprio quando smette di ricopiare perché non ha voglia. Non solo l’Innominabile non può smettere, invece, ma Mahood non ritira mai né tanto meno legge le sue pagine. La prosa è ipnotica, cadenzatissima. L’ultimo interminabile capoverso divora più di cento pagine e si conclude sulla sconsolata notazione dell’impossibilità e della inevitabilità della narrativa: “bisogna continuare, non posso continuare, continuerò”.

Nella Trilogia Beckett mette a frutto la palestra di narratore alla quale era stato sottoposto nella Parigi degli anni ’30 quando Joyce, ormai quasi del tutto cieco, lo costringeva a lunghe sessioni di dettato e trascrizione di pagine e pagine di Finnegans Wake – Beckett come Molloy, dunque, e come l’Innominabile, mentre Joyce doveva sembrargli più simile a Malone morente. La leggenda vuole che un giorno Joyce sentisse bussare e interrompesse la dettatura per dire “Avanti”, mentre Beckett imperturbabile inseriva nel testo scritto anche l’interruzione. Se si dovesse tentare di dare un peso specifico all’aggettivo “beckettiano”, basandosi sul suo grande affresco narrativo, balzerebbe innanzitutto all’occhio la ripercussione su vasta scala di quest’ immobilità autistica, che ci permette di immaginare l’autore seduto imperturbabile al tavolino, di fronte a una finestra eclissata da un muro, mentre con capoversi granitici aggiunge una parola all’altra per raccontare personaggi completamente fermi.

Lo fa in ragione di un’oggettività ineluttabile, ossia di una concezione puramente meccanicistica dell’universo a ogni suo livello, che si scontra con l’impossibilità della precisione terminologica, ovvero col grande problema del linguaggio che affonda le sue radici nel Cratilo di Platone e addirittura nella Genesi: la mancata corrispondenza fra una parola e l’oggetto che designa. I personaggi di Beckett cercano morbosamente una rappresentazione del reale in scala 1:1, salvo poi arrendersi e avvertire esplicitamente che hanno usato un termine o un nome in luogo di un altro perché in fondo non ha importanza. L’oggettività è un dato di fatto e come tale viene percepito quale violento e respingente: quindi la fisicità dei personaggi di Beckett è assolutamente repellente (sporcizia, deformità, inanità sono le caratteristiche di base) e l’interrelazione fra due di loro è sempre incongruente; il sesso è grottesco. Tutti i personaggi però vengono costretti all’azione da un Dio/autore che è capriccioso e annoiato come Malone, e quindi li pone continuamente di fronte al più completo scacco nella realizzazione dei loro progetti: e il primo progetto di tutti è lo stesso romanzo di cui sono protagonisti, e che finisce più per autocombustione che per compimento.

Romanzi beckettiani, ora come ora, in giro non ne vedo. Si tornerà a scriverne quando si realizzerà che la letteratura è un passatempo inutile, una tortura oziosa.

domenica 26 aprile 2009

San Giorgio, il drago e Johnny Dorelli

(Gurrado per Quasi Rete)

Qui le notizie continuano ad arrivare in ritardo: non tanto riguardo all’evento in sé quanto piuttosto alle varie conseguenze. È come se la catena di causa-effetto, che in Italia si scatena inarrestabile a ogni dichiarazione di Mourinho o Franceschini, in Inghilterra arrivi attenuata, trattenuta, sterilizzata. Più che una differita è una risacca. Prendete ad esempio il caso-Balotelli: un po’ perché non è il mio primo pensiero, un po’ perché internet mi sembra sempre e comunque fonte inaffidabile, non ho ancora ben capito cosa sia successo. I tifosi della Juve l’hanno insultato perché era nero? Perché era bresciano? Interista? Fessacchiotto? In due di questi casi hanno sicuramente fatto bene. Se non che mentre la notiziona arrivava fin qui, si guardava attorno, constatava il più totale disinteresse in giro e tornava indietro con la coda fra le gambe, una sottonotizia s’impigliava nelle bianche scogliere di Dover e restava lì ad agitarsi sbattuta dal vento e dalle onde: pare che Moratti in reazione agli insulti a Balotelli “avrebbe voluto ritirare l’Inter”.

Bravo allora, perché non l’ha fatto? Se ritiene che Balotelli sia parte integrante della squadra e della società, l’insulto al singolo va preso come insulto al collettivo. Avrebbe dovuto comporarsi come Juan Carlos di Borbone: il discutibile Hugo Chávez stava inveendo contro il quasi altrettanto discutibile Zapatero, un paio d’anni fa, e il Re Borbone era intervenuto chiedendo brutalmente al più discutibile dei due: “¿Porqué no te calles? – perché non stai zitto?”, andandosene sdegnato dopo di che. Certo che fra essere presidente dell’Inter e Re di tutte le Spagne ce ne corre ancora; ma perché Moratti ha usato il condizionale, un modo verbale destinato a repentina estinzione? Cosa mai l’ha trattenuto? La paura di avere partita persa a tavolino? Se un uomo persegue un ideale così elevato come l’antirazzismo, si presume che lo ritenga più importante di una sconfitta per 0-3 o di qualche punto di penalizzazione. Non è Moratti colui che ha dimostrato di essere negli ultimi anni? Il presidente dal cuore tenero, il calcificatore dal volto umano, il baluardo dell’onestà, il difensore degli oppressi in scatola? Per essere all’altezza del proprio ritratto, Moratti avrebbe dovuto ritirare l’Inter dal campionato, senza accettare compromessi. O vuol forse farci pensare che uno scudetto vale più della dignità del suo calciatore più giovane e prezioso, Santon escluso? che pur di vincerlo è disposto a mettere da parte ogni ideale e ogni valore? a lasciare che i propri impiegati vengano trattati come non meritano pur di cucirsi un triangolino tricolore sulla maglietta?

Per fortuna, di tutto ciò, in Inghilterra non glien’è fregato nulla a nessuno. Sia perché qui il calcio resta un gioco in cui le mamme (giovani e relativamente affascinanti) portano i figli (di nove anni) al pub per vedere la squadra del cuore, prendendo una birra per sé e un succo di frutta per il pargolo. Sia perché questa settimana il grosso dell’interesse locale è stato focalizzato sul giorno di San Giorgio, 23 aprile, festa nazionale: dell’Inghilterra, non della Gran Bretagna. Un tempo, pare, era un giorno festivo. Quest’anno è stato festeggiato da chiunque andando da Sainsbury’s, locale Esselunga, comprando un doppio tramezzino al cotto e cetriolo e mangiandolo in ufficio davanti al computer durante la pausa pranzo. Qualche sparuto disoccupato ha agitato delle bandiere inglesi – croce rossa, di San Giorgio appunto, su fondo bianco – davanti a Buckingham Palace. La Regina s’è limitata a un generico apprezzamento.

Stordisce la contrapposizione fra Inghilterra e Italia, fra 23 e 25 aprile. In Inghilterra c’è una festa di tutti che desta tanto interesse quanto gli insulti a Balotelli. In Italia ce n’è una in cui ci si rinfaccia per tutta la settimana precedente e quella successiva di non essere abbastanza italiani. È un po’ la stessa ragione che ha spinto Balotelli alla pubblicizzata reazione – da fessacchiotto secondo tradizione – contro i tizi che lo avevano insultato: “Io sono più italiano di loro”. Idem, in Italia ogni festa nazionale serve a rivendicare di avercelo più lungo, se mi si passa la sottile metafora, e a rimproverare agli altri di non essere abbastanza italiani per poter festeggiare.

A Balotelli, a Moratti, ai tifosi della Juve, agli Italiani e all’Inghilterra tutta commino dunque la visione integrale di State buoni se potete di Luigi Magni. Non che sia un brutto film, anzi la visione in sé andrebbe considerata premio più che punizione. Racconta di un Italiano dimenticato troppo spesso, San Filippo Neri, che nel film è interpretato da un barbuto Johnny Dorelli e che nella realtà è stato, fra le varie, inventore del sistema degli oratori. In primo luogo mi pare che Balotelli e Moratti (metaforicamente, tale padre tale figlio) abbiano estremo bisogno di un saltellante Angelo Branduardi che canti a ciclo continuo e perenne memoria: “Tutto è vanità, solo vanità, vivete con gioia e semplicità: state buoni se potete, tutto il resto è vanità”, a Balotelli, e poi: “Se felice sei, dei piaceri tuoi, godendo solo d’argento e d’oro, alla fine che ti resterà? Vanità di vanità”, a Moratti.

Ai quattro razzisti fra i tifosi della Juve e agli inglesi troppo tolleranti e un po’ addormentati raccomando invece la scena del bambino che catechizza gli altri: “Oggi vi racconto la storia di San Giorgio e il drago”. Al che San Filippo Johnny Neri Dorelli, seduto democraticamente fra gli altri bambini, interviene spiegando che il santo è solo San Giorgio, mentre secondo quel che ha detto il bambino pare che sia santo pure il drago. Il bambino non sente ragione e continua a parlare di San Giorgio e il drago come di una persona sola. Inglesi, non vi rendete conto che sterilizzando san Giorgio santificate il drago? Razzisti, vi siete resi conto che nell’iconografia tradizionale San Giorgio è irriconoscibile se non gli si mette il drago sotto i piedi, con le fauci spalancate e la lancia che lo trafigge? (Perdòno, ogni tanto mi lascio trasportare dalle domande retoriche). Così ogni nazione si porta appresso il suo, di drago: che in Inghilterra è la diffusa tendenza ad accettare troppo e accettare tutto.

La stessa struttura costituzionale della Gran Bretagna è oggettivamente asimmetrica: a Westminster c’è un parlamento nel quale siedono membri scozzesi, gallesi e irlandesi decidendo anche le leggi inglesi; invece in Scozia, Galles e Nord Irlanda ci sono altrettanti parlamentini locali senza mezzo inglese dentro. Il primo ministro britannico, domiciliato in 10 Downing Street, Londra, è uno scozzese; se un inglese s’azzardasse a governare Edimburgo verrebbe trasformato subitamente in roastbeef. Del più grande impero dei tempi recenti è rimasto solo il riflesso, anzi il riflusso, d’immigrazione: incontrollata non tanto nei numeri quanto nella concessione di fare tutto quello che si vuole come se si fosse a casa propria. Un tempo c’era Lawrence d’Arabia, oggidì i biroccini di cibo spazzatura però sminuzzato secondo i criteri halal: Kebab Doner ferum victorem coepit.

Se si trasferisse in Inghilterra, Balotelli farebbe la propria fortuna non solo perché potrebbe finalmente partecipare sul serio alla Champions League ma anche perché godrebbe di un’illimitata libertà dovuta al colore della propria pelle. Se qui un nero ruba il posto in fila a un inglese, l’inglese non può protestare se no viene tacciato di razzismo. Se un capo concede un giorno libero a un’impiegata martoriata dal ciclo, c’è il rischio che venga denunciato per sessismo. Se in biblioteca chiedi un libro in prestito sorridendo alla bibliotecaria, quasi certamente è molestia sessuale. Se sul pullman ti alzi per cedere il posto a un ultracentenario, gli Inglesi si sono inventati il reato di ageism, la discriminazione in base all’età, che in Italia per fortuna non è ancora arrivato ma del quale sin d’ora prenoto la traduzione in “vecchismo”. Dai bigliettini pasquali è stata rimosso ogni possibile riferimento alla Pasqua stessa: niente Crocifissi né Risorti, solo uova e coniglietti. A dicembre non vi azzardate a fare gli auguri di Buon Natale: la comunità islamica potrebbe insorgere e farvi a tocchettini in nome della tolleranza. Si dice Merry Festivities, un più generico Buone festività.

Agli Italiani l’augurio di non diventare mai deboli come gli inglesi e di capire che però non è necessario essere cretini come i quattro che hanno insultato Balotelli, riuscendo nell’impresa di farlo passare dalla parte della ragione. Agli Italiani l’invito a rivedere ancora una volta State buoni se potete, a disconnettersi da internet e a riaprire ovunque gli oratori, che storicamente hanno fondato la coscienza nazionale, l’integrazione infantile e il buon senso che troppo spesso a torto non ci riconosciamo, con una saggia mediazione fra San Giorgio e il drago. E la preghiera che non mi trattino come il piccolo catechizzatore alla fine della sua storia: “Domani vi racconto la storia di San Fedele”-“No, tu domani vai a fanc**o, per piacere”.

giovedì 23 aprile 2009

Scribi e farisei: febbraio 2009

(Gurrado per Books Brothers)

Libri letti (10): Viaggio in Italia, di Guido Piovene; Exit Ghost, di Philip Roth; Friction, di Joe Stretch; Storie di Pallone e Bicicletta, di Carlo Martinelli; La Donna e il Burattino, di Pierre Louÿs; Un Fuoriclasse Vero, di Sergej Samsonov; Anatomy of Criticism, di Northrop Frye; La Verità sul Caso Savolta, di Eduardo Mendoza; Il Libraio che Imbrogliò l’Inghilterra, di Roald Dahl; Vita Avventure e Morte di Don Giovanni, di Giovanni Macchia.

Libri acquistati (7): Friction, di Joe Stretch (Feltrinelli); La Donna e il Burattino, di Pierre Louÿs (Sonzogno); La Verità sul Caso Savolta, di Eduardo Mendoza (Feltrinelli); Manifesti Futuristi, a cura di Guido Davico Bonino (Rizzoli); Gli Anni, di Virginia Woolf (Mondadori); Don Giovanni, di Molière (Marsilio); Il Mistero della Cripta Stregata, di Eduardo Mendoza (Feltrinelli).

Un’amica sostiene coloritamente che gli uomini, intesi non genericamente come esseri umani ma specificatamente come maschi, tendano a comprare certe determinate automobili per sopperire a determinate altre insufficienze. Mi contengo perché so che ci sono delle signorine che leggono, e quindi ricorro a una raffinata ellissi: l’amica in questione era sicura che sarebbe stata più contenta di frequentare, al dunque, il possessore di una Smart piuttosto che di un SUV lungo dieci metri. Non è questione di parcheggio, intelligenti pauca.

Secondo me lo stesso accade coi libri, nei tre momenti che regolano la scansione del rapporto con essi: l’acquisto, il possesso e la lettura. Possedere più libri di quanti si sia in grado di leggere, recitava grossomodo una scritta cubitale alla Feltrinelli di Bari, significa farsi carico di un po’ d’infinito. Poiché la scritta cubitale era posta (o lo è tuttora, chi lo sa) nei pressi della cassa, è presumibile che intendesse spingere all’acquisto compulsivo più che alla meditazione trascendentale. Cosa legittima, peraltro, ma che mi fa sospettare vagamente come chi compri più libri di quanti ne possa umanamente leggere stia in qualche modo bluffando contro la finitezza dell’esistenza. Ragion per cui quando, vagliandomi di mese in mese, mi accorgo di un picco nell’acquisto dei libri ne deduco di star avendo problemi di fronte all’atto pratico della lettura, spiccia e quotidiana.

Il mio ultimo (definitivamente, per ora) mese a Pavia è stato caratterizzato da regolari e dispendiose visite in libreria, nonché da pervicaci cozzi contro ostacoli editoriali apparentemente insormontabili. Febbraio è stato dominato dal Viaggio in Italia di Guido Piovene – un libro che, letto in treno, fa tutto un altro effetto rispetto a quando lo si legge in poltrona o coricati, ottocento e rotte pagine che assommano in sé una fatica da impresa ciclistica, interminabile fuga dalla propria ombra, lotta del tempo contro lo spazio. Partiti da Bolzano, quando si arriva a Roma si ha il fiatone; e non perché il libro sia sgradevole, tutt’altro, ma perché è una di quelle letture che porta con sé un continuo volgersi indietro, alle città (pure troppe) visitate o vissute nei miei anni di nomadismo intellettuale, e un parallelo scrutare avanti, cullandosi sui nomi misteriosi come il piccolo Proust quando (è un esempio che faccio continuamente, se mi conoscete da anni avete tutto il diritto di dichiararvi annoiati) passava i pomeriggi a leggere gli orari ferroviari.

E all’altro capo del mese, lettura assolutamente contraria, l’impenetrabile inglese di Northrop Frye, con l’Anatomia della critica alla quale mi sono avvicinato istintivamente per un capriccio d’affezione: scovandone la traduzione Einaudi sugli scaffali di un amico, l’ho aperta a caso e m’è balzato l’occhio su una citazione da Jubilate Agno di Christopher Smart. Era Christopher Smart un signore che, in pieno XVIII secolo, per passare il tempo si mise a fare l’elenco completo dei motivi per cui bisognava porgere le proprie congratulazioni allo Spirito Santo, dividendole in macroinsiemi e sottogruppi che avrebbero fatto la gioia del peggior Wittgenstein. Il passo più celebre e antologizzato è dedicato al suo gatto (Jeoffry), e queste sono le motivazioni della lode: “Giacché è il servitore del vivente Iddio, (…) giacché gira intorno a sé stesso sette volte con elegante sveltezza, (…) giacché si lava, giacché si rotola dopo essersi lavato, (…) giacché si strofina a uno stipite”, e così via (né va sottovalutato: “giacché se incontrerà una gatta la bacerà con dolcezza).

Solitamente le letterature inglesi antologizzano questo passo a riprova della follia di Smart – e della mia appresso a lui, nel non aver considerato che nel capitale saggio di Northrop Frye mezza paginetta è dedicata al padrone del gatto Jeoffry e le restanti quattrocentocinquanta a numerosi altri argomenti che non avevo preventivato. Così è andata a finire che, affascinato oltremodo dalla notomizzazione della critica letteraria, sbattessi voluttuosamente contro un muro che rallentava vistosamente i miei consueti ritmi di lettura: meno di cinquanta pagine in tre giorni, durante i quali procedevo come i celebri tizi che s’imbarcarono davanti al campanile di San Nicola e remarono remarono remarono per giorni e giorni finché giunsero stremati non in Turchia, non in Croazia, non in Grecia, ma a Mola di Bari.

E così febbraio, il mese più breve di tutti (e perciò angosciante, perché all’inizio sembra appena passato Capodanno e poco dopo è già marzo), è stato costretto fra questi due giganteschi gendarmi, Guido Piovene e Northrop Frye; in compenso sono riuscito nell’impresa di comprare mediamente un libro ogni quattro giorni – leggendone uno ogni tre – pensando di guadagnarmi una scappatoia verso l’infinito e invece facendo come quello che, appena si fidanza, inizia a fare l’occhiolino a tutte le passanti (o, come il gatto Jeoffry, si ripromette di baciarle tutte con dolcezza).

martedì 21 aprile 2009

domenica 19 aprile 2009

Barrichello, Martin Amis e la Gazzetta del giorno prima

(Gurrado per Quasi Rete)

Unica parziale consolazione è la Gazzetta del martedì. Ora io non sono nessuno per giudicare cosa sia meglio fra Oxford e Cambridge, né a essere sinceri il problema mi tange, e a essere ancora più sinceri avrei preferito non dover nemmeno lontanamente pormi la questione. Ma d’altronde sono qui, e l’unica cosa che so per certa è che a Oxford i giornali italiani arrivano sfasati di un giorno, e sono Gazzetta dello Sport, Corriere della Sera e uno che riporta il titolo di un celebre dialogo di Platone, mentre a Cambridge arrivano anche la Stampa e il Giornale e sono disponibili dalle 11 del mattino del giorno stesso. Si vede che la strada per Oxford è più difficoltosa di quella per Cambridge; fatto sta che se mi girasse l’uzzolo di leggere notizie italiane in tempo reale il percorso più elementare sarebbe prendere il treno, o il pullman, o la littorina, o la diligenza, o quello che c’è alle 8 per arrivare a Cambridge a metà mattinata, e così tutti i giorni. Troppo complicato, tanto vale accontentarmi dei giornali in differita.

Certo, c’è sempre l’internet. Ma l’internet non è la stessa cosa, e non solo perché non si può leggere alla ritirata (oddio, col wireless…). Anzi, ora che c’è l’internet comprare un quotidiano ha il sapore del superfluo, costituisce forse l’ultimo atto che ci sia rimasto in eredità dal mai abbastanza rimpianto edonismo reaganiano. È quella che Georges Bataille (o Roland Barthes, o Michel Foucault – questi filosofi francesi sono tutti uguali) chiamava la dépense, la spesa sprecata. Non solo offre a pagamento ciò che l’internet offre gratis: occupa spazio, sporca le dita, domani sarà inservibile. Eppure ho visto con gli occhi miei gente che comprava la Gazzetta del Mezzogiorno, ovviamente non a Oxford, al solo scopo di incartarci il pesce o la verdura, attendendo con una sorta di rispetto totemico che arrivasse il giorno dopo, non osando nemmeno sfogliarla o sfiorarla prima che scadesse. L’altra Gazzetta, la mia e la nostra, quella dello Sport, me la concedo una e una sola volta a settimana, il martedì appunto, quando dai più reconditi anfratti del proprio sgabuzzino il giornalaio indiano (in Inghilterra tutti i giornalai sono indiani, chissà se in India sono tutti inglesi) estrae una copia della Gazzetta del giorno prima, ovvero il lunedì, che riporta risultati e cronache delle partite del giorno prima ancora, ovvero la domenica.

Ho notato che, lasciate decantare un giorno, le notizie perdono d’attualità meno velocemente. Questo mi consente di trasformare la Gazzetta del martedì in un settimanale da assaporare con calma: tanto più che alcuni dettagli le permettono di conservare una patina arcaica che la fa valere la sterlina virgola sessanta che costa. Où sont les Gazettes d’antan? Sorprendentemente sono finite a Oxford. Innanzitutto il formato non s’è ancora ristretto al tabloid: è rimasto un broadsheet che mette soddisfazione estrema a leggerlo a letto con le braccia spalancate in un platonico abbraccio. (Carl’Annese, appena torno in Italia, se mai tornerò vivo, organizziamo un sabotaggio delle rotative rosa e le dilatiamo fino a stampare delle Gazzette enormi, di dieci metri quadri). Ne consegue che il carattere è più grande e più comodo a decifrarsi. La vera sorpresa arriva superata la prima pagina: le pagine interne sono in bianco e nero. Tutte. Ci sono delle maglie, ad esempio quella del Genoa o della Fiorentina, che in bianco e nero rendono decisamente di più, come Ingrid Bergman. Il technicolor è un’invenzione rispettabile ma il bianco e nero sguinzaglia la fantasia e la memoria (ossia le uniche due cose che bisogna necessariamente portarsi all’estero); conferisce alla cronaca sportiva il fascino di una traballante provvisorietà e, anche se arrivano con un giorno di ritardo, le notizie sembrano tutte urgentissime perché sembrano dettate da un telefono pubblico. Le pagine non sono tutte, alcuni pezzi mancano, ma questo aggiunge thrilling al fascino e aumenta il peso specifico di ogni singola partita che riesca a trapelare fin quassù. Mai avrei pensato di leggere con tanta trepidazione la cronaca di Torino-Catania, per non dire tutte, tutte le pagine di basket e pallavolo nonché – forse dovrei vergognarmi – la colonna coi risultati del sollevamento pesi. Se ogni settimana si ripropone il miracolo di una Gazzetta degli anni ’80 con le cronache dell’altro giorno, vi pare troppo dover aspettarla ventiquattr’ore?

Resta insoluto il problema dell’annosa rivalità fra Oxford e Cambridge. Per quel che, con riverenza delle caste orecchie, me ne fotte sono potuto giungere all’equilibrata conclusione che la conclamata superiorità di Oxford da queste parti venga giustificata dalle recenti vittorie contro gli arcinemici nell’annuale gara di canottaggio, in tal caso equiparata a un’ordalia. Secondo seri studi statistici (temo finanziati dalle stesse gloriose università) la vittoria arride storicamente all’equipaggio che assomma più chili nel complesso, ragion per cui la superiorità di Oxford si basa sul fatto incontestabile di avere una dozzina di studenti più grossi. Quando si dice il peso della cultura. D’altra parte, cos’ha prodotto Oxford? Richard Dawkins, capirai. A un esame più approfondito emerge che probabilmente la conclamata superiorità di questa valle di lacrime sia da ricercarsi in un più generale favore ambientale, che è ovunque e in nessun luogo. Infatti a Oxford non ci si trova male, se si ha l’accorgimento di darsi di tanto in tanto delle tacchettate nel basso ventre così da provare un periodico benché momentaneo sollievo.

A Oxford sono tutti felici. Sono felici i professori che vanno in giro con la bocca sporca di ketchup, o la cerniera dei pantaloni abbassata, o col paltò sempre chiazzato di chissà cosa, e non sono ancora riuscito a capire se il paltò rimane lo stesso e le chiazze si spostano o se il paltò viene cambiato ma le chiazze restano lì. È felice lo studente greco che cammina su e giù per la periferia settentrionale ondeggiando pericolosamente sotto il peso dei propri capelli e fermando passanti pur vagamente mediterranei, quorum ego, per chiedere: “Sei Greco?” “No” “Pensavo che fossi Greco, sicuro di non esserlo?”. È felice il ricercatore giapponese che si apposta all’angolo fra le due strade principali e passa la serata a fare un cenno di disinvolto saluto prima a tutte le donne sole, poi ai gruppetti, quindi ai gruppi con almeno una donna dentro, infine a tutti indistintamente, nella speranza che prima o poi qualcuno lo scambi per qualcun altro e gli risponda. Sono felici le signorine dai capelli turchini in coda al biroccino dei mussulmani che vendono patatine fritte e cheesburger halal, mentre un vento del demonio scoperchia la microgonna svelando le coscione nude – delle signorine, non dei mussulmani. Al venerdì e al sabato sera un’ispezione aerea delle strisce di vomito lasciate qua e là sull’asfalto rivelerebbe la scritta I’m happy. Le statistiche dei suicidi fra i membri dell’Università non vengono pubblicizzate quindi le ignoro, ma ci foss’anche un solo caso all’anno significherebbe ammettere che qualcuno almeno trova l’inferno una prospettiva più attraente. Se non altro fa più caldo.

Oxford è Pavia al cubo, e detto da me non è un complimento. Mi fa venire il mal di testa solo a pensarci. Martin Amis, che qui è nato e vissuto e dovrebbe saperne più di me, ha scritto nel 1973 (traduco): “Lo skyline di Oxford offriva una serenità fasulla sottoforma di pietra dorata su sfondo azzurro nitido, che ovviamente rigettavo. Mi chiedevo cos’avesse mai fatto pensare a questa città di essere tanto diversa dalle altre. Se uno guarda ad altezza d’uomo e resta coi piedi per terra, non vedo come si possa ignorare la brutta, normale, noiosa e casuale vita di strada coi negozi di dischi, le lavasecco, le banche. Una volta che smetti di seguire le linee architettoniche lì in alto è un posto come qualsiasi altro. Ma Oxford non la pensa così; non ho mai conosciuto un luogo tanto pieno di sé.”

Insomma Oxford non solo è bruttina e presuntuosa come molte figlie di buona famiglia; è anche talmente noiosa che io, pensate, mi sono messo a seguire la Formula1. La Formula1, vi rendete conto? Ossia quella cosa in cui venti automobili una dietro l’altra girano tutte nello stesso senso una volta, poi ancora, poi ancora, e così via per un paio d’ore; uno sport che viene tradizionalmente trasmesso alle due del pomeriggio al solo scopo di favorire il riposino dopo pranzo, così come i cantanti d’opera hanno la consegna inderogabile di urlare talmente tanto da non far capire un accidente di quello che dicono. Ecco a cosa mi sono ridotto. Il calcio purtroppo non basta, per quanto Chelsea-Liverpool di mercoledì scorso sia stata tanto appassionante quanto incongrua nel risultato, 4-4 come un Foggia-Atalanta di tanti anni fa, e addirittura chiudendo gli occhi davanti alla tv sembrava di star ascoltando la telecronaca di una partita di calcio e non il funerale della Regina Madre.

Della Formula1 di quest’anno mi diverte soprattutto Barrichello, che qui alcuni indigeni pronunciano grossomodo “Burrycello”. Dopo anni a fare il secondo di Schumacher, onorando un contratto in cui gli veniva sostanzialmente proibito di vincere alcunché, era fuggito da un costruttore che gli aveva messo a disposizione per i Gran Premi una sorta di triciclo, come dimostrano i lusinghieri risultati che ne ha ottenuto. Quest’anno, con un colpo di coda per non dir d’altro, s’è ritrovato sbalzato nell’abitacolo della scuderia più attrezzata del momento e sta conducendo un Mondiale di primissimo piano non fosse che il suo compagno di squadra, all’improvviso, s’è messo a fare molto meglio. Ieri Burrycello era in pole position a pochi secondi dalla fine delle qualifiche: mezzo minuto dopo era in quarta posizione. Oggi era saldamente sul podio fino a tre quarti di gara: è arrivato quarto dietro il suo compagno di scuderia.

Tuttavia riguardo alla Formula1 sono ancora assolutamente un neofita e anzi ho delle questioni che vorrei proporvi, trovandole insolubili con le sole mie forze:
1) la scelta di far disputare dei Gran Premi in Asia nel pieno della stagione dei monsoni fa parte di una più ampia strategia di fusione dell’automobilismo con la pallanuoto?
2) Lewis Hamilton è stato sostituito dal suo fratello ritardato?
3) perché quest’anno le Ferrari non partecipano al Mondiale?

Medito medito e non trovo risposta. Ma non mi adonto, realizzando che anche il calcio ha i suoi enigmi impenetrabili. Ad esempio durante il big match di ieri, che qui non era Juventus-Inter ma Arsenal-Chelsea, sul finire del primo tempo Florent Malouda ha segnato l’1-1 e ha esultato (provate a seguire le mie istruzioni) tenendo i due pugni chiusi (provate), con il pollice verso l’alto e l’indice verso il lungo come una pistola (fatto?), unendo i polpastrelli del pollice col pollice e dell’indice con l’indice e puntando l’unghia dell’indice verso il basso, ossia verso il terreno di gioco. A chi era rivolto il gesto, oltre che alla telecamera e quindi a me per estensione, cos’avrà voluto significare? Ci ho pensato ore e ore prima di ridurre la scelta a tre alternative:
a) “Ho infilato la palla esattamente nel piccolo pertugio che si era dischiuso fra il portiere e il primo palo”;
b) “Se non pareggiavamo prima che finisse il primo tempo, nell’intervallo Guus Hiddink ce lo faceva in questa guisa”;
c) “È sabato sera e mi voglio divertire”.

E per concludere una bella notizia: stanotte ho sognato Maria Sharapova. Almeno questo è gratis. Arrivederci.

lunedì 13 aprile 2009

Tana de Zulueta, Arthur Miller e le palle rosse

(Gurrado per Quasi Rete)

Qui al weekend si leggono i giornali, quindi alla fine della settimana che posso fare? Mi adeguo e leggo i giornali anch’io. D’altra parte mi sembra che in Inghilterra comprando un quotidiano si compri un annesso corso di giornalismo. Prendete il Guardian, ad esempio, che è il mio preferito. Nato a Manchester, ora consta di quattro sezioni al giorno: il giornale propriamente detto, un fascicolo di dodici pagine esclusivamente dedicate allo sport, una sezione a casaccio fra mass-media, lavoro, finanza eccetera e infine il G2, il tabloid spillato che ospita l’approfondimento brillante (tema di copertina di venerdì scorso: come rapire il boss – gli impiegati del G2 sequestrano la caporedattrice – dettagli a pagina 4). Al sabato le sezioni diventano sette; non c’è il G2 ma in compenso si trovano ventidue pagine esclusivamente dedicate alle recensioni di libri – ragion per cui, se a uno putacaso piacciono i libri e lo sport, il Guardian diventa automaticamente il giornale da comprare ogni giorno (messaggio promozionale), anche se di tanto in tanto non è facile capire quando scherza e quando no.

Tanto per dire, sempre venerdì, lo stesso numero che rendicontava il ratto della caporedattrice ospitava un raffinatissimo esercizio di alta mimesi scrittoria, un pastiche parodistico di discorsi già sentiti fare e rifare mille volte da gente tipo Tana de Zulueta (se non sapete chi sia, non siete i soli; se sapete che è italiana, forse non siete italiani voi): che Berlusconi possiede il monopolio della comunicazione italiana, e bla bla bla, e che metà dei giornalisti italiani lavora per lui mentre l’altra metà sa che potrebbe lavorare per lui un giorno, e bla bla bla, e che se un Italiano scrive qualcosa deve prima chiedere il permesso a Berlusconi, e bla bla bla, e che gli Italiani sono tenuti all’oscuro delle gaffe di Berlusconi, e bla bla bla. L’anonimo articolista, per vezzo forse eccessivo, aveva ritenuto opportuno firmare questa riuscita presa in giro col nome della sua stessa vittima, ossia non Berlusconi ma Tana de Zulueta; geniale poi la notazione a fine articolo, nella quale veniva specificato – così, secco secco – che Tana de Zulueta è stata membro del Parlamento italiano, peculiarità che (sottintendevano forse) l’accomuna tanto a Benedetto Croce quanto a Cicciolina. Tale la profondità, che solo a stento era possibile distinguere l’articolo di Tana de Zulueta (vera? presunta?) da quello di Eric Hobsbawn ospitato appena una pagina prima. A conferma che se uno compra il Guardian ce n’è per ogni gusto, perfino il peggiore.

Io lo leggo così: salto a pie’ pari le inevitabili pagine dedicate alle notizie e vado dritto ai commenti, nascosti nella seconda metà della prima sezione, poco prima degli annunci mortuari e dei compleanni celebri – che altresì leggo entrambi avidamente, nella speranza di scorgere il mio nome infilato prima o poi in uno dei due box. Trasferitevi dunque in Inghilterra pure voi, tutti quanti, e comprate il Guardian ogni giorno, domenica esclusa. Nel settimo giorno si riposa, parafrasando, anzi si trasforma nell’Observer che per certi versi è anche meglio, un quotidiano/settimanale talmente bello che se uscisse più di una volta ogni sette giorni perderebbe parte del prestigio che gli deriva dal fare così il prezioso.

Questo per spiegare che ai miei occhi non tutti i mutamenti vengono per nuocere. Ha nuociuto il cambiamento del Times, che s’è ristretto nelle dimensioni e nella gittata degli articoli (nessuno si azzardi a dire che le misure non contano); non nocerebbe un cambiamento dell’Independent, un giornale che in Italia viene citato ogni due per tre come fonte di magnifica autorevolezza senza considerare che è passato alla storia per: 1) nel 2003 avere scritto che gli Italiani d’estate non vanno in villeggiatura, non avendo i soldi, bensì si nascondono nello scantinato per due settimane e poi riemergono spacciando di essere stati alle Maldive o alle Hawaii, sempre ammesso che le distinguano; 2) nel 2007 avere pubblicato sull’ultima pagina, che per la sua conformazione compatta è anche la prima di sport, un titolo che parlava a chiare lettere stampatelle di BECKAM, senz’acca, che è un po’ come titolare appresso a un eventuale TREZEGHET. Oppure CASANO. Impresa emulata solo dalla Gazzetta di Modena, beneamata, che alla morte di Pavarotti si produsse in un commosso titolo cubitale giallo paglierino, che recitava intrepido TUTTO IL MONDO AI SUI PIEDI.

Ma se penso a quanto amo lo sport – guardarlo, non farlo, ché a tentare schiatto, ormai temo, com’è risultato evidente oggi pomeriggio quando ho ansimato per coprire camminando il percorso che quand’ero giovane, un paio d’anni fa, inghiottivo correndo – dicevo: ma se penso a quanto amo lo sport, rari esempi mi vengono in mente di cambiamenti positivi, passati e soprattutto futuri. M’è tornato in mente, questo concetto, apprendendo che il mammasantissima dello snooker intende cambiarne le regole in men che non si dica. Avete presente lo snooker, vero? È il bigliardo inglese. Si gioca su un tappeto più lungo di quello dei nostri bar, sterminato anzi, forse memore delle interminabili verdi distese britanniche sulle quali piove un giorno sì e l’altro pure. Mordecai Richler (che si scrive senz’acca, e quindi c’è da presumere che l’Independent lo scriverebbe con) gli ha dedicato un appassionato libretto che s’intitola appunto On Snooker, e che Adelphi ha tradotto Il mio biliardo. Sintetizzando, si è dotati di quindici palle rosse che valgono un punto ciascuna e vanno mandate in buca a una a una; solo quando si è finito con loro si può passare alle ulteriori palle colorate, una anche romanticamente rosa, che valgono ciascuna un numero crescente di punti e vanno gettate in buca nell’ordine. Come suggeriva Jerome K. Jerome, l’unica maniera razionale di affrontare lo snooker è tirare con tutta la forza possibile affidandosi alla Provvidenza, che di solito però risulta impegnata altrove.

Si tratta veramente di uno sport, giuraddio, perché le partite sono interminabili e più passa il tempo meno si riesce a vedere l’altra parte del tavolo, e a furia di girarci attorno le gambe si rammolliscono, e le quindici palle rosse sembrano aumentare anziché diminuire, e le palle colorate ti guardano beffarde trasformandosi da ambita preda in ostacolo vigliacco, che va a sistemarsi fra te e la palla rossa che vuoi, che devi mandare in buca minacciandoti di penalità via via più consistenti. Più del cibo e del clima, lo snooker è la principale causa della melanconia inglese.

Li rallegra tuttavia quando, come a partire dal 18 aprile prossimo, si terrà il torneo detto The Crucible: che il correttore automatico di word si ostina a correggermi in “The Cruciale”, forse non sbagliando di molto; che è legato da omonimia a un dramma di Arthur Miller recentemente tornato di moda; che è, soprattutto, il campionato mondiale degli snookeristi trasmesso in diretta dalla BBC ogni anno per ore e ore per giorni e giorni. Costringendo i partecipanti a lunghe partite filate, una dietro l’altra, il vincitore non finisce per essere soltanto il migliore del lotto; dev’essere perfetto, imperturbabile, infallibile, un semidio. A meno che non passi negli anni a venire la proposta di cui dicevo poco fa, e che consiste nella riduzione un po’ di tutto: della lunghezza del tappeto, del tempo di gioco, addirittura del numero delle palle rosse. Dice che così lo sport sarà più facile da seguire, le partite dureranno meno e potranno essere moltiplicate, e che alla diminuzione della fatica corrisponderebbe un aumento proporzionale del valsente. Peccato, però, che le corrisponderebbe anche una diminuzione proporzionale della gloria del vincitore, declassato via via a uomo come tutti, poi tiratore passabile, quindi favorito dalla sorte, infine “sapevo farlo anch’io”. Passasse l’orrenda riforma, ne godrebbe solo il fantasma di Carlo Marx: sarebbe la prima applicazione comprovata della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Speriamo che non cambi, insomma: sarebbe come trasformare un levriere in bassotto. Se penso a quanto amo lo sport, stavo dicendo prima di interrompermi, non posso non considerare con sgomento quanto siano cambiate varie discipline da che le seguivo ragazzino. Ci credereste che un tempo la pallavolo si giocava senza libero e con il cambio palla? La pallacanestro europea si articolava in due tempi, non quattro. Il tennis era ricamo, non clave. La pelota basca pare che sia rimasta immutata. In compenso la formula 1 consentiva l’utilizzo di esseri umani oltre che di automobili. Né i ciclisti correvano vestiti da astronauti (a proposito, dopo la seconda tappa del Giro dei Paesi Baschi il Guardian riportava la seguente classifica generale: primo Sanchez, secondo Kolobnev allo stesso tempo, terzo Pineau allo stesso tempo, come anche Knees, Samuel Sanchez, Egoi Martinez, Nibali, Contador, Cunego e un’altra dozzina di corridori; in compenso Swift portava 7 ore 52 minuti e 20 secondi di ritardo, che dopo due tappe non sono niente male, per tacere delle 9 ore e 50 di Wegelius: forse nel mentre che ero distratto hanno cambiato pure le regole del ciclismo, o forse il Guardian ha copiato i risultati dall’Independent). E il calcio?

Il calcio in Inghilterra è cambiato vent’anni fa, nel giro di poche settimane. Il 15 aprile 1989 il calcio inglese morì a Hillsborough, insieme a novantasei tifosi del Liverpool schiacciati contro le recinzioni dello stadio mentre attendevano di guardare la semifinale di FA Cup. Fu la tragedia più grande del calcio locale, soprattutto per le migliaia di tifosi che videro da vicinissimo i corpi dei loro amici ridursi a un cumulo di carne informe. Molti decisero di non mettere mai più piede in uno stadio. Il 26 maggio 1989, nell’ultima partita di campionato, il Liverpool primo in classifica ospitava l’Arsenal secondo. La classifica richiedeva che l’Arsenal, malconcio e in crisi, dovesse vincere con due goal di scarto in trasferta per vincere the scudetto. Sì, buonanotte. E invece, al termine di una partita di superba intensità, all’ultimo guizzo nell’ultimo minuto della stagione, un tizio con la maglia dell’Arsenal si vede arrivare sui piedi una palla inattesa, la svirgola, spiazza col suo errore la difesa del Liverpool, si vede ricadere miracolosamente la palla sui piedi, tira di nuovo, segna lo 0-2, urla, corre, si accascia, lo sommergono di abbracci, ha vinto.

I tifosi del Liverpool si resero conto di aver perso un campionato ma di aver ritrovato il bandolo della bellezza del gioco, l’eterna fascinazione che ci riduce ogni settimana alla più trepidante ingenuità. Sconfitti, applaudirono gli avversari. Dimostrarono la possibilità di un nuovo calcio e l’opportunità del cambiamento. Fu il primo impulso verso il calcio inglese che conosciamo oggi – coi tifosi rispettosamente seduti come a teatro e i treni pieni di famiglie (padre, madre, mediamente due bambini) che ogni sabato si mettono in treno per guardare la squadra che amano, maglietta indosso. Il tutto è magnificamente raccontato in un nuovissimo libro di Jason Cowley, The Last Game: love, death and football, che secondo la recensione del Guardian è lungo 288 pagine mentre secondo l’Observer 273. Vatti a fidare.

sabato 11 aprile 2009

La filosofia? Tutte bolle!

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Contro il logorio del pensiero moderno – contro il vuoto spinto di Vattimo o i calembour di Severino o il razionalismo d’accatto di Odifreddi o l’ateismo da passeggio di Ruggenini – dalla Germania arriva il primo volume di Sfere, corposa trilogia filosofica di Peter Sloterdijk. Arriva peraltro con notevole ritardo, a più di dieci anni dalla pubblicazione in lingua originale, e quando il resto della trilogia è stato non solo già terminato ma anche tradotto altrove; così che i più dritti, quelli che se lo sono già letti non dico in Tedesco ma almeno in Francese, prendono in mano la traduzione italiana già sapendo come andrà a finire due volumi dopo.

Sloterdijk non è un pensatore cattolico. Qua e là è venato di blando protestantesimo, alcuni lo hanno definito gnostico. Piuttosto, il suo sistema è fanta-hegeliano, come si può intuire dalla tripartizione di Sfere; così dai titoli dei tre volumi (Bolle, Globi e Schiuma) si può intuire che nelle sue aspirazioni ci sia una dettagliata critica della ragion tonda. La rotondità delle immagini che ricerca per definire la società umana, attuale ed eterna, si contrappone implicitamente tanto all’ottusa linearità dell’iper-razionalismo e dell’iper-scientismo, di gran voga in questi tempi, quanto all’incontrollabile liquidità delle più celebri teorie di Zygmunt Bauman.

A voler filosofare col machete, i tre volumi di Sloterdijk si possono riassumere in tre righe. Procedo. I rapporti fra persona e persona non sono lineari (sulla direttrice io-tu o del più egoistico io-io) ma circolari: se io parlo con la donna che amo o con un passante ignoto, in entrambi i casi non escludo l’ambiente che ci circonda ma lo comprendo e non posso chiamarmene fuori. Questo perché tutti gli esseri umani hanno condiviso l’esperienza fetale, nella quale instaurano un rapporto biunivoco fra sé stessi e la madre-ambiente che li comprende e li protegge, come appunto in una bolla (Sloterdijk la definisce “microsferologia”). Ogni rapporto interpersonale è il tentativo di ricreare, con alterni successi, questa stessa bolla; l’inclusione di più persone all’interno dei medesimi confini sottende la creazione di un globo (“macrosferologia”), e il terrorismo così come lo stiamo conoscendo in questi anni è volto non tanto all’uccisione del singolo individuo quanto all’intrusione nel globo e alla sua destrutturazione. Questo perché la perdita di centro univoco ha portato alla moltiplicazione di globi paralleli confinanti ma incomunicanti che richiamano la disposizione della schiuma (“sferologia plurale”). Il tutto viene spiegato con dovizia di particolari in 1.500 pagine all’incirca.

Colpisce innanzitutto la sistematicità di Sloterdijk, che partendo da un fatto naturale come la gravidanza riesce ad arrivare senza difficoltà alla filosofia politica e alla sociologia del virtuale. Non è mica poco in un’era di filosofi impegnati per lo più a scrutarsi l’ombelico o a tirare per i capelli teorie generali al solo scopo di dimostrarsi proni all’andazzo su questo o quel fatto di cronaca politica, giuridica o medica. E poi Sloterdijk scrive benissimo e sa pressoché tutto, dice cose difficili con una prosa comprensibile e contemporaneamente svela connessioni intricatissime dietro le faccende che ci appaino più banali.

Parto e gravidanza, più di ogni altra cosa, sono sotto la sua lente focale per tutto il primo volume di Sfere. Centinaia di pagine sono dedicate da Sloterdijk non solo al rapporto madre-figlio ma addirittura alla placenta: che costituisce il gemello muto per i primi nove mesi di vita di ciascuno, una sorta di angelo custode fornito dalla natura per attutire l’impatto col mondo. E forse gli intellettuali italiani d’oggidì possono essere tramortiti all’idea che Sloterdijk – un filosofo dichiaratamente non cattolico – riconosca ampiamente come vita i nove mesi che ciascuno trascorre nella pancia della mamma; e, cosa ancora più scandalosa, che la gestazione decida così tanto non solo riguardo alla vita individuale di ognuno, ma anche all’interrelazione con gli altri, alla formazione della società e alla costruzione più o meno artificiale di totem giuridici o culturali.

Sloterdijk pare porsi al contempo dentro e fuori dal Cristianesimo, in perfetta coerenza con le proprie teorie. Non entra nel merito della fede personale, a differenza di molti che sbandierano grettamente agnosticismo e ateismo come unici lasciapassare validi per la filosofia, e rigetta senza troppi problemi l’etichetta di pensatore confessionale. Preferisce attingere a piene mani dalla tradizione cristiana, dai Padri della Chiesa ai mistici: nelle dieci pagine di intensissima bibliografia spiccano San Basilio Magno, San Gregorio di Nissa, San Giovanni Damasceno, Pascal, la Legenda maior su Santa Caterina, la vita di Sant’Antonio Abate, e poi Jacopo da Varagine, Riccardo di San Vittore, Innocenzo III, Tommaso d’Aquino. Abbondano i riferimenti alla Bibbia e a un curioso gioco inventato da Nicolò Cusano, in cui bisogna lanciare una palla ammaccata lungo una spirale cercando di avvicinarsi il più possibile al suo centro: la spirale è il creato, il centro è Dio, la palla ammaccata è l’uomo. Sloterdijk, in Bolle e più ancora in Globi (che mi auguro venga tradotto presto) ricama su questo gioco alcune fra le pagine migliori della sua sferologia.

In particolare, Sloterdijk dedica una notevole attenzione critica a Sant’Agostino, del quale cerca di fornire una lettura svincolata tanto dal timore riverenziale quanto da una preconcetta ostilità. Per lui Agostino non è soltanto ascrivibile alla grande tradizione ecclesiastica né come tale può essere superato e consegnabile ai polverosi archivi della storia della filosofia. Nel decimo capitolo delle Confessioni Sloterdijk rinviene la miglior descrizione teologica dell’“accompagnatore originario”, ossia dello spazio che si crea intorno al feto e che lo accompagna per tutta la vita sotto forma di gemello ipotetico o di istintivo sentimento di un’assenza. Scrive Sant’Agostino: “Dove ti trovai, per conoscerti, se non in te e sopra di me? (…) Tardi ti amai, perché tu eri dentro di me e io fuori. (…) Eri con me, e non ero con te”.

Con la sua trilogia Sloterdijk si incarica di ricercare nelle infinite incarnazioni di due millenni di cultura quest’interior intimo meo, il “più vicino a me di me stesso” che Sant’Agostino aveva individuato e che la filosofia ufficiale, col passare del tempo, ha insistito nel negare. A differenza dei suoi contemporanei, Sloterdijk ha voluto concentrarsi non sull’immediato e sul conveniente ma sul costante e sull’eterno. L’ha fatto magistralmente e, credo, sarà ricompensato: a lungo termine, quando (come notava John Maynard Keynes) saremo tutti morti, qualcuno scriverà la storia della filosofia di questo reo tempo e spariranno d’incanto tutti i Vattimo e gli Odifreddi e i Ruggenini, nei confronti dei quali siamo tanto bendisposti. Resterà invece Sloterdijk e sarà forse l’unico, forse l’ultimo.

mercoledì 8 aprile 2009

Le virgolette, García Marquez e svariati cavalli

(Gurrado per Quasi Rete)

Nella serata in cui il campionato inglese si fa passare sotto il falso nome di Champions League, io non dispongo del locale decoder Sky e devo tenere a bada il mio ardente desiderio di guardare Liverpool-Chelsea. Tanto più che qui le coppe vanno in onda a un orario inumano, le 19:45, quando sì gli Inglesi stanno da secoli riposando in poltrona fumando una pipa leggendo il Daily Telegraph indossando un tweed e ruttando copiosamente ma io, non ancora assimilato, a quell’ora inizio a interrogarmi su cosa cucinare, ossia sul criterio col quale sorteggiare dal frigo(rifero) uno degli involucri precotti da infilare nel micro(onde). Andare al pub per vedere la partita, dunque, manco a pensarci. Al massimo do un’occhiata al risultato sul televideo della BBC, assimilabile per la sua immediatezza grafica alla stele di Rosetta, mentre seguo una curiosa trasmissione che s’intitola The Speaker e presenta come logo un paio di virgolette arrovesciate, che mi fanno ricordare all’istante quello del Festival Filosofia e, di conseguenza, che il mio pregiatissimo deretano potrà pur poggiare su una poltrona inglese (senza pipa senza tweed e senza Daily Telegraph), ma il mio cuore è rimasto a Modena.

Credo che si tratti di un programma auspicabilmente importabile. Avete presente X-factor? Un pirla va lì e canta; una giuria composta da tre persone vestite così come si trovavano prima di uscire di casa giudica la performance. The Speaker è la stessa cosa, con la differenza che il pirla – sempre invariabilmente un liceale – invece di cantare parla. In compenso, i tre giurati inglesi hanno una confortante tendenza a vestirsi come Morgan. Lo spettacolo è itinerante e i ragazzini parlano di tutto: stasera uno ha accuratamente difeso il suo peraltro indiscusso diritto a essere gallese. Un’altra, sentendosi forse interlocutrice privilegiata del Papa, ha sottolineato più volte il dovere di usare il preservativo agitandone uno, benché fortunatamente intonso. A un certo punto ho spento, ma magari qualcuno adesso starà difendendo il diritto dei gallesi a usare il preservativo o, più verosimilmente, l’opportunità di utilizzare il preservativo se si va con un gallese. In Italia potremmo fare una sorta di via di mezzo, chiamandola che so io Speak Factor e allargando la partecipazione a chiunque, una specie di Hyde Park nel bel mezzo delle reti pubbliche. La telecamera può diventare lo sgabello postmoderno su cui chiunque voglia può salire e dire quello che pensa, sempre ammesso che pensi qualcosa. In caso contrario può dirlo lo stesso, tanto in tv non si nota. Il contrappasso sta nel venire esposto al saccente sberleffo di tre giurati vestiti da pagliacci.

Il sistema potrebbe tornare decisamente utile anche per le trasmissioni sportive. Ormai non sopporto più i giornalisti, che usano le interviste altrui per far notare le proprie domande: sembrano quelli che si acquattano nel pubblico di una qualsiasi conferenza per attendere il malaugurato momento del dibattito, alzarsi e tenere una conferenza a sé stante che li consoli dalla consapevolezza che nessuno mai li inviterà a tenere una conferenza vera, in cui le domande le fanno gli altri. Ovviamente il resto del pubblico è tutt’altro che consolato, ivi compresa la non trascurabile percentuale di ulteriori conferenzieri mancati in attesa del proprio turno e pronti a mordersi la lingua a sangue per non essere stati i primi ad alzare la mano. Ecco, uno dei principali vantaggi del Cattolicesimo è che finita la predica il celebrante volta le spalle ai fedeli e se ne va, sdegnando dubbi e manie di protagonismo. Se uno ha smania di parlare si faccia quacchero. Bisognerebbe dunque introdurre l’omelia, o più modestamente una versione riveduta di The Speaker, anche alla fine dei grandi eventi sportivi: penso ad esempio che, se domenica scorsa fosse stato lasciato libero di parlare a ruota libera, Jenson Button non si sarebbe limitato a dire l’equivalente di “gara bagnata, gara fortunata”.

Avrebbe probabilmente riferito che, insomma, era felice di continuare a vincere in maniera sempre diversa dalla precedente e dall’ordinario ma che si sentiva profondamente umiliato dal fatto che l’attenzione della sua patria, della Gran Bretagna tutta, durante la settimana e il weekend era evidentemente stata rivolta non su Sepang ma su Aintree, non sul gran premio della Malesia ma sul Grand National. Si sarebbe detto profondamente ferito dal fatto che nella circostanza i resti dell’Impero avessero accordato la propria preferenza al cavallo sul motore, al fantino sul pilota e alle quote delle scommesse sui rinomati trucchetti della McLaren.

Ah, se i cavalli potessero parlare! (Parteciperebbero anche loro a The Speaker e probabilmente vincerebbero a zoccoli bassi). Potrebbero rispondergli che è tutta una questione di nomi perché – se si tratta di cavalli particolarmente dotti – nomina sunt consequentia rerum, nomen omen, e chi più ne ha più ne metta. Per quanto io debba ammettere di non conoscere nessun altro che si chiami Jenson, scorrendo il resoconto di Aintree vengo assalito da un’impreventivata musicalità onomastico-equina. Il vincitore – che era dato 100-1 e quindi a chi ha puntato su di lui ha fruttato cento volte tanto come nella parabola del seminatore (cfr. Marco 4, 8) – si chiama Mon Mome e ancora non sono riuscito a decrittarne il significato. Dietro di lui Comply or Die, ovvero “faccela o crepa”, ha coerentemente preceduto My Will, ovvero “la mia volontà” ma anche “il mio testamento”. L’ordine di arrivo ufficiale del Grand National, per quanto pari in chiarezza al televideo della BBC, suona come la poesia di un Palazzeschi americano: Big Fella Thanks, Irish Invader, Idle Talking (“chiacchiere vacanti”), Darkness, il di questi tempi geniale Offshore Account, Musica Bella., Reveillez, Zabenz. Io ovviamente tifavo per Fundamentalist. È meglio che chiamarsi Kimi o Jarno, direi.

Poi i cavalli, si sa, hanno la precedenza perché la loro carriera è più breve; sono brave bestie, evidentemente più intelligenti degli uomini e, portando rispetto verso la natura, sanno sempre quand’è il caso di smettere. La settimana scorsa l’Inghilterra era sull’orlo della rivoluzione (mamma, esagero) perché l’agente di Gabriel García Marquez aveva dichiarato che il suo assistito con ogni probabilità non ha più voglia di scrivere nient’altro. Ci credo, ha ottant’anni e a me sta già passando la voglia a ventotto. Pagine e pagine culturali di quotidiani sono scese in piazza a difendere il diritto dei gallesi, no, il diritto dei lettori a leggere romanzi sempre nuovi dei loro scrittori preferiti e contemporaneamente il dovere dei grandi scrittori, García Marquez incluso, a continuare a scrivere fino alla morte e oltre.

Io non credo: anzi ritengo che gli scrittori dovrebbero fare come i migliori fra gli atleti, ritirandosi quando possono ancora lasciare rimpianti e scoprendo che la vita riserva altre soddisfazioni oltre all’incessante ripetizione di quello che si è già fatto ogni giorno per anni e annorum. Per un Michael Schumacher che, ritiratosi quantunque, continua a gironzolare per i paddock rivestito di un ruolo non chiaro (forse è il portasfortuna ufficiale della Ferrari), c’è un Fernando Alonso il quale ha detto chiaro e tondo che sparirà dalla scena non appena avrà vinto il terzo Mondiale, anche qualora non avesse ancora compiuto i trent’anni. Ci sono altri esempi onorevolissimi. Miguel Indurain s’è ritirato appena ha capito che rischiava di arrivare non più primo ma anche secondo o terzo, la bicicletta la guarda col cannocchiale e ultimamente l’ho scoperto felicemente ingrassato. La carriera di Mark Spitz è stata breve e adamantina: avrebbe potuto continuare per anni ma la prima grande sconfitta gli avrebbe rovinato il palmarès. Bisogna alzarsi dalla tavola lasciando gli altri con un po’ d’appetito.

Insomma la tempistica è tutto. Alan Shearer, che aveva terminato la sua lunghissima carriera al Newcastle acclamato quale versione bionda del Padreterno, ha scelto il momento sbagliato per iniziare la carriera da allenatore nello stesso stadio che aveva incantato. Il Newcastle navigava in cattive acque e la prima partita, sabato scorso, era contro il Chelsea – persa, ovviamente, così che le acque sono diventate pessime. Nel giro di novanta minuti, il pubblico che acclamava lo Shearer ex campione ha iniziato a mugugnare contro lo Shearer albeggiante menager mediocre. Eppure Shearer era sempre lui, e pure il pubblico era rimasto lo stesso. Era solo passato del tempo e il tempo, più che uccidere, rovina.

Sappia Alan Shearer che nulla è più dignitoso del passo di un vecchio cavallo da corsa che, ormai dimenticato, sulla strada per il macello si volti verso il suo aguzzino apostrofandolo in lingua incomprensibile agli uomini: “Ma su di te ha mai scommesso qualcuno?”.

(Avevo progettato questo pezzo nel weekend e poi, tramortito dalle notizie dell’Aquila, mi sono trattenuto per la manifesta inopportunità di fare il brillante in un momento di lutto. Oggi mi sono deciso realizzando che, come per molti Italiani all’estero, la mia reazione istintiva è consistita in un senso di irrazionale colpevolezza – come se la distanza fosse acuita dall’impossibilità di essere nei paraggi, foss’anche nella più conclamata inutilità o rassegnazione. Allora mi son detto che se fossi stato in Italia avrei scritto, e quindi tanto vale scrivere anche dall’Inghilterra. Per niente che può essere, magari a qualcuno strappo un sorriso in più e una lacrima in meno.)

domenica 5 aprile 2009

Settimana Santa


È uscita la Guida alle Messe di Camillo Langone (Mondadori).
Nel mio piccolo, dentro ci sono anch'io.

giovedì 2 aprile 2009

Il G-20, Peter Crouch e i film a luci blu

(Gurrado per Quasi Rete)

Istruzioni per l’uso: questo articolo contiene elementi scandalosamente scabrosi, pertanto se ne sconsiglia la lettura ai maggiori di 21 anni e in particolare a mia madre.

Londra è sotto assedio, pare. Non si capisce però se la notizia sia riferita, nell’ordine, 1) all’allargamento indiscriminato al quale Gordon Brown ha sottoposto il G-20, fra paesi membri, paesi ospiti, paesi osservatori, paesi immaginari e così via; oppure 2) al numero inusitato e fantasmagorico di membri dell’entourage di Barack Obama, ivi compreso un numero di guardie del corpo che non esiterei a definire preoccupante visto che, se per salvarmi la vita c’è bisogno di mezzo esercito, evidentemente può darsi che io abbia fatto qualcosa di sbagliato ma può anche darsi che loro non sappiano fare per bene il proprio mestiere; o in subordine 3) ai numerosi passanti che, evidentemente stanchi di trastullarsi per la City in ombrello e bombetta, hanno preso d’assalto le vetrine di banche e affini (né risulta confermata la notizia, trapelata appena ieri 1 aprile, che dopo aver visto il Gp di Australia il Primo Ministro inglese stia meditando di incrementare le proprie possibilità di successo alle elezioni politiche cambiandosi il nome in Gordon Brawn; posso invece confermarvi il tacito sospetto che il correttore automatico di Word, nutrendo radicati dubbi sulla sintassi di quest’interminabile periodo, ha iniziato a sottolinearmelo tutto – denotando una certa irritabilità – man mano che andavo componendolo: però se ricordate gli elementi base di analisi logica potete controllare da capo e notare che nulla è fuori posto, a ribadire la naturale superiorità dell’uomo sulla macchina, circostanza la cui unica eccezione risiede in Lewis Hamilton).

Se lo stato d’assedio è riferito ai manifestanti, mi limito a far notare che le 20 G, i venti grandi del mondo potranno avere tutte le colpe che si vuole, ma almeno sono noti per nome e cognome, hanno un ufficio e un numero di telefono. I loro atti sono sotto gli occhi di tutti. Le loro facce sono a disposizione. I manifestanti invece ondeggiano fra l’innato desiderio di farsi inquadrare mentre sfasciano le vetrine della Royal Bank of Scotland e la necessità impellente di coprirsi il volto in ogni modo non appena si sentono addosso l’occhio della telecamera e, per estensione, il mio. Questa mattina in un filmato della BBC1 la scena madre era proprio questa: un giovanotto che scorge il cameraman, si accanisce sul pezzo ancora intonso di una vetrata della City, si volta soddisfatto verso il pletorico occhio di bue dal quale si è sentito investito, sorride quasi, si rende conto che nella foga la sciarpa gli è scivolata giù fino al collo, non sorride più, torna a coprirsi il volto con la sciarpa e allontana il cameraman con una manata. Londra è sotto assedio dunque, ma di sicuro le 20 G sono più a rischio per la cena che stasera sarà imbastita loro da Jamie Oliver, il più grande cuoco d’Inghilterra. Che è un po’ come dire il più grande torero finlandese.

Oxford tuttavia è una cittadina tranquilla e non è sotto assedio manco per niente. La cosa peggiore che possa succederle è perdere la sfida nautica con Cambridge. Incidentalmente, domenica scorsa Oxford ha vinto. I festeggiamenti sono stati talmente incontenibili che non me ne sono accorto. Ma forse la mia attenzione – o anzi l’attenzione di tutta Oxford, di tutta l’Inghilterra, di tutto il Regno Unito, di tutto il Commonwealth – era stata accalappiata dal vero, grande evento che ha scosso le radici della Britannia. Altro che la scorta di Obama. Altro che le vetrate della RBS. Forse ne è arrivata una minima eco anche in Italia ma ve lo ripeto per compiacimento: è accaduto che il ministro dell’Interno, signora Jacqui Smith, ha consegnato agli uffici governativi una lista di ricevute per ottenere regolare rimborso spese. La ricevuta contemplava anche lire sterline 67 spese nella visione di alcune trasmissioni via cavo. Allora giù lo scandalo; non per altro: perché alla tv via cavo erano stati visti dei film porno (presumibilmente, pare, dal marito del ministro dell’Interno, il signor Jacqui Smith). Visibilmente l’irritazione popolare non era tanto diretta all’incongrua richiesta di rimborso spese quanto al fatto che il marito avesse visto questi film a luci rosse, che qui curiosamente vengono definiti blue movie, come a dire film a luci blu.

Per quel che mi riguarda, il marito del ministro dell’Interno può guardare quello che gli pare, con o senza il ministro appresso. Piùttosto vorrei sollevare alcuni problemi di natura estremamente pratica, che sono passati in secondo piano nel corso della vicenda. Complessivamente l’ammontare della ricevuta era di lire sterline 10 per i film scabrosi, con le restanti 57 spese per guardare, chissà perché, due volte Ocean’s Twelve e soprattutto in programmi per bambini. Curiosamente, nessuno ha protestato per il fatto che il figlio, o i figli, del ministro abbiano guardato circa 40 sterline di cartoni animati a spese del contribuente. Invece il marito è già tanto se ne uscirà vivo. In ogni modo questa faccenda dei film blu visti dal marito ha rubato la scena al doloroso errore del ministro, il quale pare abbia sbadatamente indicato come prima casa il garage di sua sorella così da ottenere per l’abitazione un rimborso spese di lire sterline 116.000. È evidente che la gravità dell’atto non è comparabile all’aver sbirciato dei film blu. Peggio, ad aver visto due volte di fila Ocean’s Twelve.

Ogni tanto mi convinco che la soluzione di tutti i problemi d’oggi sia già stata trovata nel ’700. Pare che all’epoca un giovanotto esuberante, tale La Barre, fosse stato condannato dall’autorità parigina per seduzione e blasfemia; questo gli guadagnò le simpatie di Voltaire che si riferiva a lui come Monsieur le fornicateur. Federico II di Prussia, fra una guerra e l’altra, dichiarò che la punizione ideale sarebbe stata costringerlo a leggere tutte le ponderose opere dei gesuiti Suárez e Molina. Dunque il marito del ministro, monsieur le pornicateur, ha sbagliato? Il marito del ministro deve pagare. Come punizione io lo avrei obbligato alla visione di The Sex Education vs. Pornography, una trasmissione che Channel4 ha mandato in onda in prima serata (dicesi prima serata) (grassetto: prima serata) (grassetto stampatello: PRIMA SERATA) lunedì, martedì e mercoledì. Oggi, chissà perché, va in onda alle 22.

Si tratta di una trasmissione in cui una conduttrice effettivamente molto brillante (le rendo giustizia cercando il suo nome sulla guida tv: Anna Richardson) va in giro per le scuole superiori di Londra a spiegare a fanciulloni e fanciulline minorenni (minorenni) (MINORENNI) che guardare un film blu è una porcheria anche se non si è sposati a nessun ministro, mentre è estremamente positivo accostarsi al corpo dell’amata/o con lo stesso atteggiamento compenetrato delle istruzioni sui cibi precotti: “sciacquare prima dell’uso”, “da consumarsi prevalentemente entro”, “riscaldare per tre minuti e mezzo”, “materiale completamente riciclabile”. Anna Richardson è carina e ironica, ma trovo qualcosa di veramente sbagliato nel sottoporre immagini repellenti di corpi nudi visibilmente trascurati (e non vi sto dicendo nulla della prova pratica in cui veniva chiesto a un intero liceo di infilare a tempo record un preservativo su un vibratore, anzi, infiniti preservativi su infiniti vibratori). Vi chiedete che cosa? Ve lo spiegherà il marito del ministro dell’Interno dopo aver visto tutte le puntate della serie.

Impegno che, peraltro, gli avrebbe impedito di guardare Inghilterra-Ucraina, ieri sera. (Ora, ditemi voi se il correttore automatico di Word quando scrivo “Ucraina” debba sostituirlo a tradimento con “Urania”). Io, che non ho sposato nessun ministro e ho finito il liceo da tempo immemorabile, l’ho guardata invece e ho tratto le seguenti conclusioni. 1) Il nuovo Wembley è proprio bello, l’arco che lo sovrasta assolutamente affascinante e talmente unico che, riprodotto altrove, risulterebbe un’immondizia come la Torre di Pisa a Las Vegas. Lì invece calza come un guanto. Questi Inglesi, avevano lo stadio più bello del mondo e, qualche anno fa, prendono e lo buttano giù, costruendone nello stesso posto un altro più moderno e altrettanto bello. Così riescono nell’impresa di continuare a guardare strenuamente avanti e cristallizzare il ricordo del vecchio stadio, scolpirlo nella memoria degli appassionati, sottrarlo all’inevitabile decadimento, renderlo gloriosamente immortale. Mi sbilancio e lo dico ufficialmente: il vecchio Wembley era il Colosseo, il nuovo Wembley è la Torre Eiffel del calcio mondiale.

2) Peter Crouch, l’albatro zoppo dell’area di rigore, era è e resterà il mio calciatore inglese preferito nonostante mezzi fenomeni come Lampard o Rooney e fenomeni completi come Steven Gerrard. A vederlo, Peter Crouch, sembra Piero Fassino in mutande – un po’ più alto, un po’ più magro anzi. Poi, d’improvviso, appena la palla gli rimbalza attorno la mette in rete con un gesto goffo. E goffa all’inverosimile è la sua esultanza, la danza stile robot-scassato-o-Michael-Jackson-dopo-vari-interventi-chirurgici che ha riproposto ieri sera davanti alla folla festante. Perché sì, Crouch ha segnato anche ieri: corner di Rooney, torre di Terry, e lui – che nel frattempo s’era liberato di un difensore ucraino guardando mestamente altrove, fingendosi del tutto disinteressato all’azione pur presidiando l’area di porta – s’è sdraiato a mezz’aria e ha tirato addosso al portiere. Ha tirato talmente male che il portiere s’è gettato da tutt’altra parte, lì dove la palla sarebbe dovuta andare se fosse stata tirata da qualcuno che non ha delle pinne al posto dei piedi, diciamo Lampard o Rooney o Gerrard: la palla gli è rimbalzata sull’ascella ed è entrata in porta. Ieri non ha segnato Lampard né Rooney né Gerrard. Ha segnato Crouch dai piedi sbilenchi, la prova vivente che il calcio è una scienza inesatta.

3) La maglia dell’Inghilterra, bianca che più bianca non si può, è probabilmente stata progettata in vista di una forte sponsorizzazione da parte di qualche detersivo ancora ignoto.