Abbiamo tantissimo tempo davanti,
e così poche cose da fare.
(Gene Wilder in Willy Wonka)
e così poche cose da fare.
(Gene Wilder in Willy Wonka)
Nel suo film più enigmatico, Stardust Memories, Woody Allen inserisce a pochi istanti dai titoli d’inizio una scena emblematica (o, viceversa, nel suo film più emblematico inserisce una scena enigmatica – invertiti i fattori, il prodotto non cambia): il fumo sollevato da un treno in partenza si dissolve rivelando la figura di una bella donna, una giovanissima Sharon Stone, che guarda ammiccante dal finestrino. Woody Allen, sentendosi ammiccato, vorrebbe raggiungerla ma non può: il treno con Sharon Stone va ineluttabilmente in direzione opposta e svanisce di nuovo nel fumo avvolgente. A lui restano rimpianto e curiosità, a noi una sfilza domande irresolubili: chi è quella donna? perché quella donna? cosa sarebbe successo se il film fosse stato ambientato in Italia e di conseguenza il treno non fosse partito, o fosse consuetamente partito con tre quarti d’ora di ritardo? si può dire che il protagonista, grazie a un solo sguardo intenso, abbia conosciuto la misteriosa donna dell’altro treno? e, soprattutto, si può dire che Stardust Memories sia un film tanto con Woody Allen (che occupa la scena per un’ora e mezza) quanto con Sharon Stone (che la occupa per poco più di un secondo)?
Tralasciando tutte le altre domande, all’ultima mi sento di rispondere di sì. Se Woody Allen ha sistemato un secondo e rotti di Sharon Stone all’inizio di Stardust Memories, è evidentemente perché riteneva che in quel secondo e rotti ci volesse Sharon Stone e non, poniamo, Gianni Vattimo o Mandrake. Alla stessa maniera, la vita di ciascuno è regolata secondo incontri più o meno casuali che però non sono defettibili – nel senso che, fugace quantunque, la presenza altrui nel nostro campo visivo (o campo uditivo, o d’azione, o intellettuale, o sentimentale) è un dato di fatto impossibile a fuggirsi. Per quanto noi possiamo sforzarci di ignorarlo, di evitarlo, il tizio che ci guarda dal finestrino dell’altro treno c’è e ci segna. Possiamo dire di non conoscerlo solo perché non ci abbiamo parlato né gli abbiamo chiesto come si chiamasse? Dimenticare a comando qualcuno, o qualcosa, oltrepassa le nostre capacità; e per quanto il tempo possa rimuovere volti nomi e circostanze, nulla vieta che essi riemergano quando meno ce l’aspettiamo, in maniere che non abbiamo preventivato, in luoghi e circostanze che non cessano mai di sorprenderci. Uno può anche ritirarsi a fare l’eremita, ma avrebbe comunque una vita affollatissima.
Alla stessa maniera, io non compro quasi più libri: innanzitutto perché costano troppo, poi perché spesso me li spediscono gli editori, infine perché è clamorosamente lievitato il numero dei testi che non valeva la pena di pubblicare. Non è più come trenta, quarant’anni fa, quando chi desiderasse seguire tutte le tendenze della cultura postmoderna poteva, al solo prezzo di tutte le uscite di determinati editori sicuri, metter su una biblioteca onnicomprensiva – né tampoco è come ai tempi antichissimi in cui, con numerica certezza, qualcuno poteva vantarsi in giro di aver letto tutti i libri. È invece come se improvvisamente le persone che ci circondano siano aumentate esponenzialmente, e dove eravamo abituati a trovarne cento ce ne siano mille, dove mille un milione e così via. Possiamo sperare di conoscerli tutti?
Quanto ai libri, io risolvo così: non li compro quasi mai ma vado molto spesso in libreria. Mi aggiro fra gli scaffali, guardo, considero, memorizzo titolo e autore, leggo la quarta di copertina e talvolta addirittura sfoglio distrattamente. Nei casi estremi, limitatissimi, leggo due o tre frasi. Una volta su cento raid librari mi soffermo sulle prime righe, come se volessi leggerlo davvero. Terminata questa pantomima, esco dalla libreria a mani vuote, sorridendo alle cassiere che mi guardano imbronciate.
In fin dei conti è come quando, dopo una giornata intera trascorsa davanti allo schermo del portatile, una volta che le falangi sono anchilosate e i polpastrelli stanno perdendo le impronte digitali a furia di scrivere scrivere e scrivere, uno si stanca e sente il bisogno di vedere qualcuno. Allora non chiama gli amici ma si limita a uscire di casa e fare due passi al centro, immergendosi nella folla che procede in senso inverso e scrutandola, fissando le donne che fissano le vetrine, scansando i ciclisti temerari, scandendo i passi degli scemi del villaggio (ce n’è ovunque, di professionisti e dilettanti). Si fa un’idea di chi lo circonda, e mezz’ora dopo torna a casa con la consapevolezza che gli è bastato e avanzato, ritirandosi sazio di gente fino alla stessa ora del giorno dopo.
Proust, che doveva essere una persona noiosissima a incontrarsi, scriveva che fortunatamente per il romanziere ci sono più uomini che gusti o caratteri, o per meglio dire il più strano fra gli uomini partecipa abbastanza dei gusti e dei caratteri di un gran numero di persone, sicché parlando dei miei amici ho qualche probabilità di stupirti con la conoscenza approfondita degli amici tuoi, che d’altronde non ho mai visti, se, come lo spettatore ingenuo, non t’accorgi che il giocoliere non ha bisogno di aver visto miracolosamente la tua carta per dirti qual è, perché nel mazzo dove tu hai creduto scegliere tutte le carte erano eguali. (Cercate pure questa lunga citazione nella Recherche: non la troverete mai perché è da Jean Santeuil).
Passeggiando nel mazzo di carte tutte uguali, si appiccica a ogni sconosciuto una storia che se non sarà vera sarà comunque verosimile, presunta, deducibile razionalmente dai dettagli che lo accompagnano e che lo differenziano da chi lo circonda contemporaneamente assimilandolo a persone delle quali questi nemmeno suppone l’esistenza, e che invece vivono parallelamente a lui. Ugualmente io passeggio fra le copertine allineate di tutti i libri che non ho letto, li scandaglio senza aprirli e ragiono sugli sviluppi del loro contenuto basandomi sugli elementi scientifici che ho: l’autore, il titolo, la casa editrice, la grafica, lo scaffale, l’affollamento e il numero di copie invendute. Talvolta mi spingo fino a immaginare pagine e pagine intere, così come avrebbero dovuto essere dati gli iniziali caratteri immutabili; quasi sempre, una volta aperti, l’occhiata fugace alle parole stampate mi rivela che i libri altrui avrei fatto meglio a scriverli io.
(continua)
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