lunedì 18 agosto 2008

Scarti e rimanenze: La Storia sarà un altro


Non conformatevi alla mentalità di questo secolo.
(Lettera ai Romani 12, 2)

Da bambino ero molto ammirato da Chi ha incastrato Roger Rabbit?, il film che faceva coincidere la finzione cinematografica (di carne e, quindi, apparentemente reale) con la finzione animata (di cartone e, quindi, smaccatamente immaginaria). L’ultimo romanzo di Marco Bellotto (Gli Imitatori, Marsilio 2008) si propone un intento del genere, cercando di far combaciare la storia immaginaria dell’autore Livio Mantarro, intellettuale di sinistra inattivo dopo il 1979, con la storia reale di Bellotto stesso, della casa editrice Feltrinelli e del milieu intellettuale impegnato e comunista del secondo dopoguerra italiano.

Operazione riuscita fino a un certo punto. I tentativi di mischiare una storia culturale vera a una falsa non sono nuovi (due esempi per tutti: Vita e Morte di Ludovico Lauter di Alessandro De Roma e Gli Strumenti delle Tenebre di Anthony Burgess), così che ogni nuovo assalto debba qualcosa al precedente. Ogni tentativo è supportato però dalla consapevolezza che la fantacultura è più facile della fantastoria, in quanto la lettura di un libro (presumibilmente opera di un autore vero) costituisce comunque un atto creativo, rendendo il lettore partecipe di un mondo che gli resterebbe altrimenti sconosciuto e che potrebbe pertanto essere stato parimenti composto da un autore fasullo. Quando si legge un libro non ha importanza se l’autore esista veramente o meno, così come non ha molta importanza sapere se sia vivo o morto.

Nella trama de Gli Imitatori, Marco Bellotto e Livio Mantarro non sono gemelli: li separano la distanza d’età (Mantarro è più vecchio), la gloria (Mantarro è più famoso) e l’ambizione (Mantarro ha smesso di scrivere, beato lui). Soprattutto, esiste una ridda di personaggi dell’intelligentsia italiana, tutti realmente esistenti, che Mantarro ha conosciuto di persona e che Bellotto invece soltanto tramite i libri e i racconti del suo stesso mentore: così che per un curioso effetto i vari Feltrinelli, Bianciardi, Arbasino risultino personaggi reali per Mantarro (che è immaginario) e immaginari per Bellotto (che è reale).

Qui si crea l’attrito. L’algebra insegna che il prodotto di un numero positivo (personaggio reale) per uno negativo (personaggio immaginario) dà un risultato sempre negativo (immaginario); al contrario nel romanzo di Bellotto i personaggi reali raccontati dal personaggio immaginario danno un prodotto reale, non immaginario. Feltrinelli, Bianciardi e Arbasino, ritratti uno meglio dell’altro, risultano essere talmente veri da rovinare quasi il resto del romanzo, facendo sfigurare i personaggi immaginari che ruotano attorno alla misteriosa incriminazione di Mantarro per fiancheggiamento del terrorismo rosso. Va a finire che le sessantasette pagine in cui Bianciardi sorge e repentinamente tramonta lo rendano talmente adorabile, come effettivamente doveva essere, da far trascolorare l’aura di mitologica ammirazione che Bellotto ha con dettagliata perizia fatto sorgere attorno a Mantarro: per mezzo romanzo non si fa altro che dire che l’immaginario Mantarro è il miglior scrittore del dopoguerra italiano, poi appare un Bianciardi verissimo e la verosimiglianza dell’affermazione vacilla. In quel momento – nonostante l’impegno e il talento indiscutibili di Bellotto – ci si rende conto di chi è fatto di carne e chi invece è un cartone animato. Non per questo tuttavia si ripone il romanzo, non foss’altro per desiderio di sapere come va a finire il processo.

Gli Imitatori di Marco Bellotto si propone di trasportare la finzione narrativa nella realtà storica. La Storia Siamo Noi (AA VV, Neri Pozza 2008) punta all’esatto contrario: quindici autori italiani più o meno affermati trasportano di peso la realtà storica nella finzione narrativa, ciascuno con un diverso racconto ambientato in un diverso periodo storico, in ordine progressivo.

Operazione riuscita fino a un certo punto. Contrariamente alla scintillante tradizione di Neri Pozza, titolo e copertina non convincono di primo acchito; i nomi degli autori invece attraggono fatta salva qualche idiosincrasia che, essendo mia personale, non trasmetto altrui. Da storico, mi lascia un po’ perplesso notare che, ai fini dell’antologia, la nostra storia inizia nel 1848 (a Milano, Porta Vittoria) e termina oggigiorno (a Milano, Stazione Centrale), ma la scelta può essere spiegata con la faccenda dell’Italia “espressione geografica”, il che potrebbe giustificare il (discutibile) rifiuto di inserire in una Storia romanzata l’Italia del Caffé, della pax hispanica, dei Montefeltro, di Dante, di Giulio Cesare e della Magna Grecia. Meno giustificabile mi è parsa la concentrazione di eventi negli ultimi anni, a detrimento del periodo che va dal Risorgimento al Fascismo: di quindici racconti, uno riguarda le cinque giornate di Milano, uno Garibaldi, uno Caporetto e uno il Ventennio; i restanti undici sono ambientati dalla Seconda Guerra Mondiale ai giorni nostri, a conferma della consueta interpretazione miope della Storia che va molto di moda nei nostri paraggi, grazie alla quale si vede fin troppo nel dettaglio ciò che è vicino e si intuisce appena ciò che il tempo ha allontanato.

Trattandosi di una raccolta di racconti, la riuscita è discontinua. Entusiasma in primis la prosa di Nicola Lagioia, tornato alle forsennate serpentine narrative dell’originario Tre Sistemi per Sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi); tuttavia mi lascia perplesso la scelta di far diventare un capitale momento storico la vita di Indro Montanelli, soprattutto perché consustanziale alla scelta di focalizzare la vita di Montanelli nelle dimissioni da direttore de Il Giornale, così da rendere di fatto la letterina a Berlusconi un evento di dimensioni epocali – è un po’ eccessivo. Lagioia scrive talmente bene che la biografia immediatamente successiva, di Gianni Agnelli a opera di Leonardo Colombati, dovrebbe arrossire di vergogna nonostante sia brillante (più per le citazioni da Agnelli che per altro). Andrea Camilleri sembra piuttosto stanco, e solo a tratti il suo stile pare ricordarsi a chi appartenga – fermo restando che un Camilleri stanco riesce meglio di molti altri a mente fresca. Antonio Scurati, in ventisette pagine, fa testualmente “largo uso di ampi passaggi tratti da due miei precedenti romanzi storici”, sufficienti a sollevarmi dall’incombenza di leggere le restanti centinaia di pagine dei romanzi in questione. Sebastiano Vassalli mah.

I racconti più belli, quelli che da soli valgono il prezzo del libro, li hanno scritti (in ordine di bravura) Giosuè Calaciura, Marco Desiati e Giancarlo Liviano d’Arcangelo. Calaciura s’è inventato un enorme e inerme soldato borbonico che, passando inconsapevole dalla divisa gigliata alla camicia rossa, è un’ottima incarnazione della Sicilia neogaribaldina. Desiati tratteggia una delicata storia d’amore fra una tisica e un lebbroso in un sanatorio pugliese all’epoca del culto fascista della sanità corporale. Liviano d’Arcangelo miscela forse più sapientemente di tutti il racconto dell’io privato (i tormenti di un maresciallo in congedo, stretto fra una moglie troppo fedele e il ricordo di una copertina di Playman) e quello dell’io collettivo (il DC9 uccellato a Ustica).

Questi tre racconti maschili riequilibrano gli imbarazzanti esiti femminili della nostalgia delle rivolte studentesche (1968), dell’autocritica sul caso Moro (1978) e dell’affermazione mediatica del femminismo di massa (1979: prima trasmissione tv di un processo per stupro): le autrici sono tre ma potrebbero essere una soltanto, scrivendo tutte allo stesso modo.

Buon ultimo, Giuseppe Genna si lamenta per quarantaquattro pagine della noia dei lettori italiani, senza che lo sfiori il minimo sospetto di sentirsene correo. Colpisce infine il particolare che quasi tutti gli autori, per parlare della Storia d’Italia, non abbiano saputo trattenersi dal far esplicito riferimento a sé stessi in prima persona, confondendo sovente narrativa e autobiografia così come memorialistica e ricerca bibliografica. Segno evidente che in Italia la memoria e la ricerca storica godono di insospettabile buona salute. Il racconto, il romanzo storico chissà.

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