giovedì 8 gennaio 2009

Tutti i libri che non ho letto (10-fine)

(Gurrado per Books Brothers)

-Lei è ignorante?

-Io? Sì.
-Bravo. Bravo. Viva l’ignoranza!
Tutti così dovreste essere.
(Totò in Miseria e nobiltà)

Deformazione professionale numero uno, forse la meno grave: sul treno regionale da Lambrate a Pavia, che personalmente non vi auguro di prendere, so che il momento giusto per abbandonare il sedile e avviarsi verso l’uscita (fermo restando che è vietato scendere dal treno quando esso è ancora in movimento) è quando dall’altro lato del finestrino appare l’invasiva scritta pubblicitaria in stampatello rosso sangue su discreto fondo giallo canarino: BRICO OK. Lette queste brevi e insensate parolette, Pavia stazione di Pavia verrà raggiunta in tempo due minuti scarsi, a meno che non capiti come quando un signore, evidentemente appassionato di romanzi russi e finali tragici, s’è improvvisamente reso conto che non vale tutta ’sta pena di vivere in Lombardia e ha pensato bene di concludere la propria esistenza con l’atto scellerato di dilatare la mezz’oretta di binari che separa i due capoluoghi longobardi nell’irragionevole lasso di tempo che va dalle 22:35 alle 3:12, immobilizzandoci nel mentre che il coroner ne raccattava falangi e interiora sparse tutt’attorno.

Una prece. Quello che piuttosto mi preme è l’assoluta certezza che – mentre io scruto l’orizzonte fin dall’istante in cui si abbandona l’obliqua stazione di Certosa, riconoscibile per la sua caratteristica pendenza di quarantacinque gradi verso il centro della terra, mentre aspetto che dal buio e dalla nebbia emerga la variopinta e imbarazzante scritta BRICO OK – tutti gli altri spettabili viaggiatori che hanno l’ardimentosa intenzione di scendere a Pavia si accorgono dell’approssimarsi della stazione da altri dettagli che a me sfuggono, dettagli topologici, dettagli geografici, dettagli architettonici, e non si rendono nemmeno conto della scritta BRICO OK nella misura in cui è possibile ignorare una scritta in stampatello rosso sangue su fondo giallo canarino. Loro usano il finestrino per guardare, io per leggere.

Deformazione professionale numero due, già più preoccupante: se guardo gli annunci mortuari mi accorgo dei refusi. A Gravina ristò nel mezzo di un gruppo di vecchietti e mentre loro s’informano sulla sorte altrui (e di riflesso, per estensione, sulla propria) io apprendendo della scomparsa di Questo o Quello (per me pari sono) noto per lo più che si dispenza dalle visite. Questo è altamente inumano. Deformazione professionale numero tre, ormai irreversibile: a Napoli passavo fra le bancarelle e attiravo con un gesto istintivo l’attenzione dei rivenditori i quali si avvicinavano speranzosi di rifilarmi tonnellate di mozzarella di bufala o salsiccia e friarielli quando invece volevo limitarmi a contestare la tortura alla quale la punteggiatura veniva sottoposta nell’atto di pubblicizzare la vendita della mozzarella di “bufala” oppure della salsiccia… e friarielli. Questo, oltre a essere inumano, è piuttosto borderline. Per non dire di quando qualche ammiratrice mi scrive una lettera e io mi limito a rispondere che ha messo la virgola fra soggetto e predicato. Non solo inumano, non solo borderline, quest’atteggiamento è oltremodo molesto e a maggior ragione in quanto mi viene istintivo e incontrollabile correggere le bozze a chi da me desidera tutt’altro.

Io non vivo il mondo, lo leggo. A furia di avere a che fare con libri di scuola, e va bene, con manuali universitari, e va già meno bene, con testi per la laurea, e potevo risparmiarmela, con testi per il dottorato, e che cacchio, con una decina di romanzi al mese, e santa Madonna, con libri da giudicare, da correggere, da rivedere, da rifare di sana pianta – a furia di avere per le mani sempre qualcosa di scritto tendo a cercare parole dappertutto, ad appigliarmici per non scivolare in un contesto incomprensibile e impossibile a dominarsi spostando le virgole prima dei soggetti e dopo i predicati, o eliminando virgolette e punti sospensivi a profusione. Questo non è né inumano né borderline né molesto. Questo è solo un peccato.

È un peccato perché le parole sono uno strumento, e come tale sono un’interfaccia attraverso la quale percepiamo ciò che ci circonda; ma essendo anche il veicolo di un contenuto, le parole intervengono su ciò che percepiamo e lo modificano piegandolo a sé stesse, sporcandolo d’inchiostro. Sento due persone parlare e immagino immediatamente lo stesso dialogo stampato, con tutte le virgolette e i punti sospensivi al posto giusto. Prima di addormentarmi rimugino su un nome e la prima cosa che mi viene in mente è il balletto che i miei polpastrelli dovranno fare sulla tastiera per disegnarlo: l’indice sinistro verso il centro, il medio destro poco più in alto e poi subito a fianco, e così via. Le parole sono una finestra: ci si affaccia e si può vedere il mondo, dite voi; si viene separati dal mondo con un vetro, dico io. Per quanto trasparente, un vetro resta sempre freddo e bidimensionale: così le parole che restano inerti sulla pagina e sono l’ombra schiacciata delle cose.

Per non parlare del movimento inverso: leggo libri a non finire e, come se niente fosse, li dimentico. Nel senso che il ricordo di cosa contengono, e il ricordo stesso di averli letti, viene progressivamente eroso dall’incalzare di libri letti più recentemente, che richiamano mediante incerte sinapsi l’associazione con parole già passate attraverso gli occhi ma che, se vado a controllare, non coincidono quasi mai con quelle che ricordo, fino a formare un tutto indistinto che non è più la somma di tutti i libri che ho letto, ma la loro effimera progressiva inarrestabile sottrazione.

In compenso ci si può consolare sapendo che, più libri si leggono, più libri ci si accorge di non aver letto: fino al giorno in cui non si ha idea dell’esistenza di, uno a caso, Luciano Bianciardi non si avverte nessuna necessità di leggerlo. Poi si legge La Vita Agra e, in quel breve volgere di tempo, ci si rende conto che si dovrebbe leggere anche Il Lavoro Culturale, e L’Integrazione, e La Battaglia Soda, e Dàghela avanti un passo!, e così via. Moltiplicate il tutto per ciascun altro libro di ciascun altro autore. È un gioco a perdere, tanto vale.

Tanto vale cosa? Leggere tutto è impossibile. Leggere solo le cose necessarie neanche: per l’erudito nessun libro avrà mai addosso un’etichetta che lo dichiari inutile, e d’altro canto nessun libro è indispensabile agli analfabeti. Smettere di leggere non si può: sarebbe bello tirare dritto quando si vede una libreria (o entrare alla Feltrinelli di Bari solo per comprare i biglietti di un concerto, a quella di Napoli per prendere una riccia e a quella di Pavia per ammirare gli affreschi della chiesa sconsacrata che ha invaso – incidentalmente, mai che chiudano una Feltrinelli per aprire una chiesa); più bello ancora sarebbe non sentirsi oberati dal peso dei propri scaffali e dalla quantità imbarazzante di libri che, chiusi da mesi o da anni, ti guardano con risentimento perché non li hai ancora letti nonostante le promesse e le dichiarazioni d’amore e il senso del dovere incombente. Disimparare a leggere nemmeno: e dire che vorrei trasformare queste stesse parole che abbiamo davanti io e voi in insensati ghirigori d’inchiostro, senza associarvi un nome o un concetto o un significato che sia, trasformando la prosa in disegno e il solletico intellettuale in godimento estetico.

Sarebbe meraviglioso restare – definitivamente, sul serio, fuor di metafora – senza parole. Invece, niente.

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