martedì 3 febbraio 2009

Il confine fra amore e odio

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Il professor Bruno Haessler, protagonista de Gli immortali, da giovane era abbastanza presuntuoso da dichiarare di saper distinguere un quadro originale da una contraffazione grazie a un solo sguardo. Bastava, spiega lo stesso Haessler ormai storico dell’arte in pensione, capovolgere il quadro: poiché “quando un quadro è capovolto le eventuali incoerenze stilistiche saltano all’occhio subito.”

Può dunque tentare di essere altrettanto presuntuoso anche il lettore, prendendo il romanzo di Bottone e capovolgendolo per vedere se, stilisticamente, la sua costruzione regge o meno. Il compito è facilitato dalla struttura medesima de Gli immortali, che coincide di fatto con una sorta di puzzle inquisitorio tipico della letteratura a ogni latitudine dall’Edipo re in poi: il pacioso e rispettato professor Haessler, che vive felicemente in Nova Scotia, è stato in gioventù un aguzzino nazista nell’Italia occupata. I suoi trascorsi romani tornano a galla grazie a un anonimo che, con lettere foto e volantini, minaccia di distruggere non tanto la serenità della famiglia di Haessler quanto l’innocenza che faticosamente questi s’è ricostruito lontano dall’Europa. L’inizio del romanzo è interrogativo, la fine è risolutiva; pertanto si può agevolmente partire dalla fine (senza svelarla, beninteso) e procedere a ritroso per capire se l’inizio regge.

Le ultime pagine del libro sono dedicate, fra l’altro, alla definizione dei rapporti fra Haessler e i fratelli Lodi, Guido ed Emanuela. Tali rapporti torbidi e morbosi hanno un precedente altrettanto distruttivo ne Il dono (1937), l’ultimo romanzo scritto in russo da Nabokov, che per una curiosa coincidenza si chiama Vladimir pure lui. Non per questo il rapporto fra Haessler e i fratelli Lodi perde d’interesse, guadagnando anzi in morbosità vista l’evidente ascendenza ebraica dei due fratelli. Ne sortisce un quadro piuttosto veritiero del labilissimo confine fra amore e odio, adorazione e tortura – perfetta al riguardo è la scena in cui Haessler, dovendo procedere all’interrogatorio di Emanuela, la fa spogliare per farle patire il freddo ma deve necessariamente ammirarne la nudità e finisce per accettare di non sfiorarla nemmeno, ribaltando così la più prevedibile gerarchia fra carnefice e vittima.

È prevedibilmente su questi rapporti che s’incentra l’indagine contenuta nel romanzo. Se non che l’indagine, invece di procedere indefettibilmente, sembra spesso attorcigliarsi su sé stessa e non portare a nessun punto compiuto. A venti pagine dalla fine del romanzo, il protagonista e voce narrante Haessler viene esplicitamente implorato di raccontare i fatti “per filo e per segno”, ma protesta con forza di non esserne capace: “Il fatto è che non ci riesco. Neanche fossi un automa condannato a cozzare, ripetutamente, contro una barriera, un ostacolo mnemonico che non è in condizione di rimuovere, né di aggirare”.

L’individuazione dell’ostacolo è illuminante. Il caso Haessler-Lodi sarebbe molto facilmente risolvibile se si trattasse esclusivamente della Storia. La Storia con l’iniziale maiuscola, com’è noto, ha una rassicurante tendenza ad accadere con magna copia di date esatte e gran rispetto del principio di causa-effetto; a posteriori decrittarla è facile, basta applicarsi allo studio dei documenti e ragionare senza troppi fronzoli. La storia minuscola di Bruno Haessler, invece, risente di un’interiorità arrembante, si è per così dire incagliata nella sua anima e la ricerca sugli avvenimenti deve essere necessariamente, e anzitutto, una ricerca sui sentimenti; i quali sono fuggevoli e, quel che è peggio per uno storico, difficilmente documentabili.

Fosse in ballo soltanto la Storia, Haessler non si preoccuperebbe affatto quando, poco dopo la metà del romanzo, appaiono dei manifesti che sembrano inchiodarlo alla sua colpevolezza. Non avrebbe da preoccuparsi poiché sono effetto, come viene argutamente notato, “di una ricerca storica da dilettanti”, senza nessuno dei capisaldi che certificano la documentazione: “niente filologia, poco archivio, rispetto per la verità meno ancora”. Perché invece Haessler sembra progressivamente quasi dipendere dallo stillicidio di accuse e minacce che riceve?

Se leggiamo Gli immortali al contrario la soluzione, come di rado accade nei gialli, è all’inizio e non alla fine. Quando gli arrivano a casa delle mute fotografie ingiallite, che così senza una riga di commento non possono dire assolutamente nulla a nessuno, Bruno Haessler – l’aguzzino artefice della propria innocenza – è terrorizzato. Siamo venti pagine dall’inizio del romanzo e Haessler vede già tutto chiaro: il minaccioso anonimo (talmente anonimo che sto evitando accuratamente di nominarlo) è “un demonio” perché “sa tutto”. Se invece delle fotografie Haessler fosse stato raggiunto da una lettera che raccontasse dettagliatamente il suo misfatto, il sapere tutto dell’anonimo avrebbe un altro senso: sarebbe un sapere storico, con dei contenuti e dei dati di fatto. Invece, esposto così per immagini che possono voler dire qualsiasi cosa, significa che l’anonimo sa tutto di ciò che accade dentro Haessler, dove nessuno può arrivare, e conosce precisamente il punto sul quale poggia la complessa, e fino ad allora riuscita, costruzione dell’innocenza alla quale Haessler aveva dedicato tutta la sua vita.

L’anonimo dunque che fa? Usa lo stesso criterio con cui Haessler capovolge i quadri e che Bottone sembra suggerire per il suo romanzo. Procede a ritroso e via via spoglia Haessler del suo presente, della sua professionalità, dell’affetto dei suoi cari, della sicurezza e dell’amor proprio. Solo in questo modo può individuare dentro di lui, e non fuori, il punto incrinato dove risiede il male, il veleno della colpa più o meno grande che ognuno porta in sé.

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