...due nazioni separate dalla stessa lingua.
(George Bernard Shaw)
(George Bernard Shaw)
Salta all’occhio che ne I promessi sposi si mangia e si beve in abbondanza: don Abbondio deve rifiutare a forza la minestra che Perpetua gli offre per riprendersi dallo spavento dei bravi; si pranza lautamente al desco di don Rodrigo; Lucia e Agnese dispensano a fra’ Galdino noci in quantità; il pagamento per Azzecca-garbugli viene corrisposto in capponi; a Milano Renzo viene trascinato in un’epopea della farina, glorificata e sprecata al contempo, e in più situazioni si ritrova con dei panini in tasca; il suo amico d’infanzia in difficoltà gli mette volentieri insieme un piatto di formaggio e pesche; la ricompensa offerta a Gervaso e Tonio comprende una cena completa all’osteria; le famiglie più povere si riuniscono attorno a una polenta di grano saraceno; l’Innominato fa preparare dei manicaretti a Lucia quando ancora la tiene prigioniera; il cardinal Federigo irrompe nel bel mezzo di una cena a casa del buon sarto; dal desco di costui una porzione viene appositamente riservata a Maria vedova; gli appestati muoiono con in bocca i fili d’erba dei quali hanno tentato di nutrirsi; il padre Cristoforo sa dove trovare una scodella di zuppa anche nell’estremo abbandono del lazzaretto; il nobiluomo che prende il posto di don Rodrigo serve in tavola il banchetto di nozze ai protagonisti novelli sposi. Il cibo è il minimo comun denominatore che accomuna tutte le variegate classi sociali che Manzoni chiama sulla scena.
Al contempo le differenzia. Quando, in una delle ultime scene, il nobiluomo si picca non solo di offrire ma addirittura di servire in tavola le pietanze a Renzo, a Lucia e alle loro due invitate, si riserva poi di pranzare ad altro desco con don Abbondio perché, spiega Manzoni, “era un uomo umile, non già che fosse un portento d’umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari”. Nobiltà e clero risultano comunque separati dalle classi inferiori perfino nei momenti di maggiore convivialità e reciproco sostegno.
Non che Renzo fosse povero. Mangiare mangia tutti i giorni, anche quand’è ricercato politico, e se ne dimentica solo nell’affanno di cercare Lucia nel lazzaretto; solo finché non glielo ricordano tuttavia e, prima di trovare l’amata, mangia un po’ di minestra e beve un bicchier di vino. Manzoni specifica nelle prime pagine che questi possiede terreno a sufficienza da garantirsi un’essenziale agiatezza, e fa vedere che quando può aiutare chi sta peggio di lui lo fa più che volentieri – con una generosità che potrebbe apparire eccessiva a chi volesse tentare una lettura esclusivamente economica del romanzo, imperniando sul denaro la distinzione fra “i signori” che possiedono tutto (e quindi mangiano di tutto) e “la povera gente” che non ha quasi nulla (e quindi mangia quel che può). A perquisirgli le tasche, Renzo non apparterrebbe pienamente a nessuna delle due classi, sarebbe più o meno sospeso in mezzo.
Invece la discriminante decisiva viene offerta, quasi incidentalmente, da Agnese che nel romanzo è la voce più strenuamente conservatrice che si levi a difendere la distinzione fra classi alte e basse, fra diritti dei signori e patemi della povera gente. A colloquio con la monaca di Monza (che mica per caso viene chiamata “signora” par excellence: perché “è una monaca; ma non è una monaca come l’altre”), Agnese viene redarguita per gli spropositi che dice, e al contempo nota gli spropositi sottesi alle mezze frasi e alle domande indiscrete che la monaca di Monza rilascia a profusione. C’è però un’asimmetria. Il discorso di Agnese non viene accettato dalla monaca di Monza sia per la sua insistenza nel rispondere in luogo di Lucia, sia perché – a voler farne l’analisi logica – risulta difficilmente comprensibile come riassunto delle puntate precedenti; Agnese stessa se ne avvede e si scusa: “mi perdonerà se parlo male, perché noi siam gente alla buona”. Al contrario Agnese accetta le stranezze del “cervellino” della monaca perché, ripete più volte, i signori possono anche essere degli originali, anzi spesso lo sono e hanno sempre diritto di esserlo. Discorso simile farà don Abbondio, riferendosi al cardinal Federigo: stavolta, nel campo specifico, ad avvalersi dell’arbitrio di fare gli originali non saranno i signori ma i santi. Il succo non cambia. Quando don Abbondio e Agnese si rifugeranno insieme nel castello dell’Innominato (ormai convertito e innocuo), il consiglio del curato va risoluto in questa direzione: “La creanza è di non dir le cose che posson dispiacere, specialmente a chi non è avvezzo a sentirne”, ossia ai signori. Quindi: “pesar le parole, e soprattutto dirne poche, e solo quando c’è necessità: ché a stare zitti non si sbaglia mai”.
La distinzione fra signori e povera gente viene così a ridursi a distanza principalmente retorica, letteraria, anzi grammaticale. Non li differenzia tanto quel che entra nella bocca, ma quel che ne esce: i signori hanno una padronanza della lingua che permette loro di rivendicare il godimento di questo e quel diritto, anche oltraggioso; la povera gente sulla stessa lingua si arrampica con difficoltà estrema, e non può che trovarsi di fronte a ostacoli e doveri che si accumulano via via.
Quando va da Azzecca-garbugli, questi (“all’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi imbrogliarle”) gli chiede se sappia leggere, e Renzo risponde: “Un pochino, signor dottore”. Anche in questa circostanza Renzo è a mezza strada fra la povera gente e i signori. La lettura parallela della grida del 15 ottobre 1627, che pare fatta apposta per il caso suo, segna il punto di crisi della fragile alleanza fra l’avvocato e il montanaro: tenendo con l’occhio affannosamente dietro al dito di Azzecca-garbugli, Renzo si rende conto che la legge gli dà ragione, con tanto di “Vidit Ferrer”; la sua presa di coscienza, impossibile se non avesse saputo leggere quel pochino, manda in crisi Azzecca-garbugli che subito lo accusa di voler imbrogliare le faccende (quando invece spetta all’avvocato imbrogliarle) e lo caccia intimandogli: “Imparate a parlare”. Pochi giorni e molte pagine dopo, Renzo sarà pronto a far scudo col proprio corpo al passaggio della carrozza vicereale proprio per difendere il Ferrer che ha siglato la grida; e in quel momento non starà difendendone la carrozza ma il nome, il “Vidit Ferrer” che, visto con gli stessi occhi suoi, gli dà la certezza di aver patito un torto e di esigere, se non vendetta, giustizia.
Lo stesso era accaduto con don Abbondio. Questi, trovatosi in difetto con Renzo che lo incalzava per inchiodarlo al suo diritto di celebrare il matrimonio e al proprio diritto di ammogliarsi, per respingerlo non trova di meglio che elencargliene gli impedimenti non solo in Latino ma addirittura in esametri: “Error, conditio, votum, cognatio, crimen, / cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, / si sis affinis…”. Renzo s’inalbera ben a ragione. Il “latinorum” che rinfaccia a don Abbondio è della stessa pasta della grida di Azzecca-garbugli: un gergo specialistico che la classe intellettuale ostenta davanti alla povera gente per garantire i soprusi dei signori. All’altro capo del romanzo, nell’ultimo capitolo, Renzo distingue infatti un “latino sincero sacrosanto, come quel della messa”: un latino che può capire anche la povera gente perché reiterato dalla comunicazione domenicale fra sacerdote e fedeli. Per la proprietà commutativa, quindi, la povera gente viene a essere quella che non ha parole dietro le quali nascondersi; e i signori sono garantiti da un linguaggio che non comunica ma divide. Agnese, nel suo piccolo, centra l’esatto problema.
Manzoni dedica una pagina dalla patina comica e dal nocciolo tragico alla povera gente vittima e non utente della lingua. Racconta il complesso procedimento di corrispondenza fra l’analfabeta Agnese e Renzo che sa leggere un pochino: “Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell’arte (…); l’informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte fraintende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me (…). Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell’abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d’intendere; perché l’interessato, fondandosi sulla cognizione de’ fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un’altra. (…) Allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr’ore disputassero sull’entelechia”.
In questo caso il linguaggio, pur comune, è un fattore di incomunicabilità perfino fra pari: perché ci si lega al senso letterale della parola, e se ne è sopraffatti fino a perdere di vista il senso complessivo del discorso, la sua relazione con gli antecedenti: giungendo al paradosso che chi scrive una lettera altrui dovrebbe conoscere i fatti meglio di chi gliela detta. Manzoni bontà sua offre anche l’esempio contrario, che è un po’ il sugo di tutta la sua teoria linguistica, quando il buon sarto racconta la predica del cardinal Federigo, stupendosi “che un signore di quella sorte, e un uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono, (…) sappia adattarsi a dir quelle cose in maniera che tutti intendano.”
Se don Abbondio usava il latinorum per tracciare un valico insormontabile fra sé e la povera gente, e mettersi quindi dalla parte dei signori, il cardinal Federigo fa ogni sforzo di compiere il percorso inverso (tant’è vero che parla e parla ma dalla sua bocca non esce che mezza parolina in latino, diretta peraltro a don Abbondio che può capirlo benissimo e infatti si vergogna). Ancora il sarto spiega gli effetti dell’omelia di Federigo meglio di quanto potrebbero un antropologo e un professore di linguistica: “Non dico chi sa qualche cosa; ché allora uno è obbligato a intendere; ma anche i più duri di testa, i più ignoranti, andavan dietro al filo del discorso. Andate ora a domandar loro se saprebbero ripeter le parole che diceva: sì; non ne ripescherebbero una; ma il sentimento lo hanno qui.”
Ed è questa, a ben vedere, la perfetta definizione che si potrebbe trovare per lo stile de I promessi sposi: Manzoni ha trovato le parole adatte a ficcarcene in testa il senso generale, lasciando che i gusci vuoti d’inchiostro si disperdessero e venissero dimenticati. Curiosamente, se andate in giro a chiedere come iniziano I promessi sposi, tutti ma proprio tutti risponderanno: “Quel ramo del lago di Como”, eccetera eccetera; in realtà Manzoni ha voluto cominciare il suo romanzo con un saggio della prosa vacua e incomprensibile del gran Seicento: “L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo” – una pagina che tracima di figure retoriche e metafore argute e arditi ispanismi e iniziali maiuscole: proprio la lingua dei signori. Fa pendant a questo passo “il sugo di tutta la storia” individuato da Renzo e Lucia “dopo un lungo dibattere e cercare insieme”, la morale semplice che meglio non potrebbe concludere il monumentale romanzo, “benché trovata da povera gente”.
C’è una pagina che rallenta la corsa di Renzo verso il lazzaretto e riferisce di quando si sofferma a controllare lo stato della piccola vigna che lo rendeva leggermente benestante. Renzo non sta tanto a guardarla, forse a causa dello stato pietoso in cui l’hanno ridotta il tempo e i lanzichenecchi, forse nonostante; Manzoni invece si dilunga in una pagina descrittiva che avrebbe fatto la felicità di Daniello Bartoli e dei più pomposi prosatori del Seicento. Partendo da “una vetticciola” inanella una quantità di termini botanici che quasi tramortisce per precisione e distinzione: “giovani tralci, (…) rimesticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; (…) una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; (…) un guazzabuglio di steli, (…) una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze”: e giù a elencarle nel dettaglio.
Sovente questa pagina è stata riguardata come una bizzarria del Manzoni (signore anche lui, in fin dei conti, e quindi in pieno diritto di far l’originale); o, nel migliore dei casi, per un esercizio di stile e una nuova parodia da accostarsi all’Historia. Credo invece che il “guazzabuglio di steli” abbia qui a che fare non poco col “guazzabuglio del cuore umano”, di cui Manzoni fornisce un dettagliato resoconto nelle seicento pagine del suo romanzo, guardando dentro al maschio e alla femmina, al povero e al ricco, al santo e al criminale, al sacerdote e al rivoltoso – e per ciascuno trovando la parola giusta, la più adatta ad accordarsi con quell’animo particolare. Così, avrà pensato Renzo passando davanti alla propria vigna devastata, ogni pianta ha il suo nome preciso e conoscerlo aiuta a dirimere il garbuglio. Tanto che, dei numerosi figli che il Signore gli dona, “volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro”.
Al contempo le differenzia. Quando, in una delle ultime scene, il nobiluomo si picca non solo di offrire ma addirittura di servire in tavola le pietanze a Renzo, a Lucia e alle loro due invitate, si riserva poi di pranzare ad altro desco con don Abbondio perché, spiega Manzoni, “era un uomo umile, non già che fosse un portento d’umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari”. Nobiltà e clero risultano comunque separati dalle classi inferiori perfino nei momenti di maggiore convivialità e reciproco sostegno.
Non che Renzo fosse povero. Mangiare mangia tutti i giorni, anche quand’è ricercato politico, e se ne dimentica solo nell’affanno di cercare Lucia nel lazzaretto; solo finché non glielo ricordano tuttavia e, prima di trovare l’amata, mangia un po’ di minestra e beve un bicchier di vino. Manzoni specifica nelle prime pagine che questi possiede terreno a sufficienza da garantirsi un’essenziale agiatezza, e fa vedere che quando può aiutare chi sta peggio di lui lo fa più che volentieri – con una generosità che potrebbe apparire eccessiva a chi volesse tentare una lettura esclusivamente economica del romanzo, imperniando sul denaro la distinzione fra “i signori” che possiedono tutto (e quindi mangiano di tutto) e “la povera gente” che non ha quasi nulla (e quindi mangia quel che può). A perquisirgli le tasche, Renzo non apparterrebbe pienamente a nessuna delle due classi, sarebbe più o meno sospeso in mezzo.
Invece la discriminante decisiva viene offerta, quasi incidentalmente, da Agnese che nel romanzo è la voce più strenuamente conservatrice che si levi a difendere la distinzione fra classi alte e basse, fra diritti dei signori e patemi della povera gente. A colloquio con la monaca di Monza (che mica per caso viene chiamata “signora” par excellence: perché “è una monaca; ma non è una monaca come l’altre”), Agnese viene redarguita per gli spropositi che dice, e al contempo nota gli spropositi sottesi alle mezze frasi e alle domande indiscrete che la monaca di Monza rilascia a profusione. C’è però un’asimmetria. Il discorso di Agnese non viene accettato dalla monaca di Monza sia per la sua insistenza nel rispondere in luogo di Lucia, sia perché – a voler farne l’analisi logica – risulta difficilmente comprensibile come riassunto delle puntate precedenti; Agnese stessa se ne avvede e si scusa: “mi perdonerà se parlo male, perché noi siam gente alla buona”. Al contrario Agnese accetta le stranezze del “cervellino” della monaca perché, ripete più volte, i signori possono anche essere degli originali, anzi spesso lo sono e hanno sempre diritto di esserlo. Discorso simile farà don Abbondio, riferendosi al cardinal Federigo: stavolta, nel campo specifico, ad avvalersi dell’arbitrio di fare gli originali non saranno i signori ma i santi. Il succo non cambia. Quando don Abbondio e Agnese si rifugeranno insieme nel castello dell’Innominato (ormai convertito e innocuo), il consiglio del curato va risoluto in questa direzione: “La creanza è di non dir le cose che posson dispiacere, specialmente a chi non è avvezzo a sentirne”, ossia ai signori. Quindi: “pesar le parole, e soprattutto dirne poche, e solo quando c’è necessità: ché a stare zitti non si sbaglia mai”.
La distinzione fra signori e povera gente viene così a ridursi a distanza principalmente retorica, letteraria, anzi grammaticale. Non li differenzia tanto quel che entra nella bocca, ma quel che ne esce: i signori hanno una padronanza della lingua che permette loro di rivendicare il godimento di questo e quel diritto, anche oltraggioso; la povera gente sulla stessa lingua si arrampica con difficoltà estrema, e non può che trovarsi di fronte a ostacoli e doveri che si accumulano via via.
Quando va da Azzecca-garbugli, questi (“all’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi imbrogliarle”) gli chiede se sappia leggere, e Renzo risponde: “Un pochino, signor dottore”. Anche in questa circostanza Renzo è a mezza strada fra la povera gente e i signori. La lettura parallela della grida del 15 ottobre 1627, che pare fatta apposta per il caso suo, segna il punto di crisi della fragile alleanza fra l’avvocato e il montanaro: tenendo con l’occhio affannosamente dietro al dito di Azzecca-garbugli, Renzo si rende conto che la legge gli dà ragione, con tanto di “Vidit Ferrer”; la sua presa di coscienza, impossibile se non avesse saputo leggere quel pochino, manda in crisi Azzecca-garbugli che subito lo accusa di voler imbrogliare le faccende (quando invece spetta all’avvocato imbrogliarle) e lo caccia intimandogli: “Imparate a parlare”. Pochi giorni e molte pagine dopo, Renzo sarà pronto a far scudo col proprio corpo al passaggio della carrozza vicereale proprio per difendere il Ferrer che ha siglato la grida; e in quel momento non starà difendendone la carrozza ma il nome, il “Vidit Ferrer” che, visto con gli stessi occhi suoi, gli dà la certezza di aver patito un torto e di esigere, se non vendetta, giustizia.
Lo stesso era accaduto con don Abbondio. Questi, trovatosi in difetto con Renzo che lo incalzava per inchiodarlo al suo diritto di celebrare il matrimonio e al proprio diritto di ammogliarsi, per respingerlo non trova di meglio che elencargliene gli impedimenti non solo in Latino ma addirittura in esametri: “Error, conditio, votum, cognatio, crimen, / cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, / si sis affinis…”. Renzo s’inalbera ben a ragione. Il “latinorum” che rinfaccia a don Abbondio è della stessa pasta della grida di Azzecca-garbugli: un gergo specialistico che la classe intellettuale ostenta davanti alla povera gente per garantire i soprusi dei signori. All’altro capo del romanzo, nell’ultimo capitolo, Renzo distingue infatti un “latino sincero sacrosanto, come quel della messa”: un latino che può capire anche la povera gente perché reiterato dalla comunicazione domenicale fra sacerdote e fedeli. Per la proprietà commutativa, quindi, la povera gente viene a essere quella che non ha parole dietro le quali nascondersi; e i signori sono garantiti da un linguaggio che non comunica ma divide. Agnese, nel suo piccolo, centra l’esatto problema.
Manzoni dedica una pagina dalla patina comica e dal nocciolo tragico alla povera gente vittima e non utente della lingua. Racconta il complesso procedimento di corrispondenza fra l’analfabeta Agnese e Renzo che sa leggere un pochino: “Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell’arte (…); l’informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte fraintende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me (…). Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell’abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d’intendere; perché l’interessato, fondandosi sulla cognizione de’ fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un’altra. (…) Allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr’ore disputassero sull’entelechia”.
In questo caso il linguaggio, pur comune, è un fattore di incomunicabilità perfino fra pari: perché ci si lega al senso letterale della parola, e se ne è sopraffatti fino a perdere di vista il senso complessivo del discorso, la sua relazione con gli antecedenti: giungendo al paradosso che chi scrive una lettera altrui dovrebbe conoscere i fatti meglio di chi gliela detta. Manzoni bontà sua offre anche l’esempio contrario, che è un po’ il sugo di tutta la sua teoria linguistica, quando il buon sarto racconta la predica del cardinal Federigo, stupendosi “che un signore di quella sorte, e un uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono, (…) sappia adattarsi a dir quelle cose in maniera che tutti intendano.”
Se don Abbondio usava il latinorum per tracciare un valico insormontabile fra sé e la povera gente, e mettersi quindi dalla parte dei signori, il cardinal Federigo fa ogni sforzo di compiere il percorso inverso (tant’è vero che parla e parla ma dalla sua bocca non esce che mezza parolina in latino, diretta peraltro a don Abbondio che può capirlo benissimo e infatti si vergogna). Ancora il sarto spiega gli effetti dell’omelia di Federigo meglio di quanto potrebbero un antropologo e un professore di linguistica: “Non dico chi sa qualche cosa; ché allora uno è obbligato a intendere; ma anche i più duri di testa, i più ignoranti, andavan dietro al filo del discorso. Andate ora a domandar loro se saprebbero ripeter le parole che diceva: sì; non ne ripescherebbero una; ma il sentimento lo hanno qui.”
Ed è questa, a ben vedere, la perfetta definizione che si potrebbe trovare per lo stile de I promessi sposi: Manzoni ha trovato le parole adatte a ficcarcene in testa il senso generale, lasciando che i gusci vuoti d’inchiostro si disperdessero e venissero dimenticati. Curiosamente, se andate in giro a chiedere come iniziano I promessi sposi, tutti ma proprio tutti risponderanno: “Quel ramo del lago di Como”, eccetera eccetera; in realtà Manzoni ha voluto cominciare il suo romanzo con un saggio della prosa vacua e incomprensibile del gran Seicento: “L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo” – una pagina che tracima di figure retoriche e metafore argute e arditi ispanismi e iniziali maiuscole: proprio la lingua dei signori. Fa pendant a questo passo “il sugo di tutta la storia” individuato da Renzo e Lucia “dopo un lungo dibattere e cercare insieme”, la morale semplice che meglio non potrebbe concludere il monumentale romanzo, “benché trovata da povera gente”.
C’è una pagina che rallenta la corsa di Renzo verso il lazzaretto e riferisce di quando si sofferma a controllare lo stato della piccola vigna che lo rendeva leggermente benestante. Renzo non sta tanto a guardarla, forse a causa dello stato pietoso in cui l’hanno ridotta il tempo e i lanzichenecchi, forse nonostante; Manzoni invece si dilunga in una pagina descrittiva che avrebbe fatto la felicità di Daniello Bartoli e dei più pomposi prosatori del Seicento. Partendo da “una vetticciola” inanella una quantità di termini botanici che quasi tramortisce per precisione e distinzione: “giovani tralci, (…) rimesticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; (…) una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; (…) un guazzabuglio di steli, (…) una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze”: e giù a elencarle nel dettaglio.
Sovente questa pagina è stata riguardata come una bizzarria del Manzoni (signore anche lui, in fin dei conti, e quindi in pieno diritto di far l’originale); o, nel migliore dei casi, per un esercizio di stile e una nuova parodia da accostarsi all’Historia. Credo invece che il “guazzabuglio di steli” abbia qui a che fare non poco col “guazzabuglio del cuore umano”, di cui Manzoni fornisce un dettagliato resoconto nelle seicento pagine del suo romanzo, guardando dentro al maschio e alla femmina, al povero e al ricco, al santo e al criminale, al sacerdote e al rivoltoso – e per ciascuno trovando la parola giusta, la più adatta ad accordarsi con quell’animo particolare. Così, avrà pensato Renzo passando davanti alla propria vigna devastata, ogni pianta ha il suo nome preciso e conoscerlo aiuta a dirimere il garbuglio. Tanto che, dei numerosi figli che il Signore gli dona, “volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro”.
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