(Gurrado per Books Brothers)
La principale ossessione religiosa di Samuel Beckett riguardava i due ladroni. È possibile, si chiedeva, che una volta sulla croce solo uno dei due venisse salvato? Questo gli appariva innanzitutto incoerente, poiché gli sarebbe parso più credibile che fossero salvati entrambi (o condannati entrambi), e per di più quasi tramortente nella consapevolezza che ne derivava, ossia che la salvezza e il perdono divino si appuntassero casualmente su una persona ogni due. Casualmente, appunto, in quanto Beckett non contemplava la variabile del pentimento di fronte a Cristo in punto di morte. Non tanto per scetticismo riguardo al testo evangelico, quanto per infima fiducia nei confronti del genere umano – che gli appare complessivamente miserrimo, impercettibile nelle sue gradazioni etiche fra bene e male, e soprattutto gravato di una distanza incolmabile da un Dio che forse esiste, forse no, in ogni caso non importa.
Sull’idea che Godot potesse essere Dio s’è scritto talmente tanto che forse è il caso di non scriverne più. Se Godot fosse Dio, Aspettando Godot (1952) non sarebbe più teatro dell’assurdo ma dramma à clef, in cui basta trovare una chiave di lettura e tutto miracolosamente va a posto secondo una mirabile logica intrinseca. Non lo è. Il teatro dell’assurdo, mi pare, va interpretato esclusivamente in base a quello che succede sul palcoscenico – ossia quello che il pubblico può vedere e sentire – e tutt’al più messo in relazione con altri drammi dello stesso autore, senza troppa convinzione perché la tentazione dell’interpretazione tracotante è sempre fin troppo in agguato.
Il dato di fatto è che in Aspettando Godot (1952) il leitmotiv sui due ladroni viene portato in scena quasi immediatamente, a pochi minuti dall’apertura del sipario. “Hai lettola Bibbia ?”, “Te li ricordi i Vangeli?”, chiede Vladimiro piuttosto incalzante a Estragone che fa il vago: “Mi par bene di averci dato un’occhiata”, “Mi ricordo le carte geografiche della Terra Santa”. Senza far troppo caso alle rimostranze di Estragone, che cerca di cambiare discorso e oppone resistenza e minaccia di andarsene, Vladimiro si chiede “come si spiega che, dei quattro Evangelisti, uno solo racconti il fatto in questo modo? (…) Quanto agli altri tre, due non ne parlano affatto, e il terzo dice che l’hanno insultato tutti e due”. Quando Vladimiro protesta che “la gente conosce solo questa versione”, ossia quella del ladrone salvato, Estragone conclude che “la gente è troppo cretina”. Pochi secondi dopo, starà guatando verso il pubblico facendosi visiera con la mano.
Il dramma dei due ladroni attorno a Cristo, a vederlo con gli occhi di Beckett, è la prefigurazione evangelica del teatro dell’assurdo – il quale consta di una relazione di interdipendenza compulsiva fra i vari personaggi, unito a una continua benché vana tensione verso il fuori scena, il fuori dramma e, in definitiva, verso l’alto. Il teatro dell’assurdo, a cominciare da Aspettando Godot, può benissimo essere simboleggiato dalla croce, nella quale si intersecano un asse verticale – l’attesa nei confronti di Godot, il continuo scrutare oltre le quinte e in platea, il comico tentativo finale di impiccarsi al ramo di un albero – e un asse orizzontale – il chiacchiericcio continuo fra Vladimiro ed Estragone, il vagare di quest’ultimo da una quinta all’altra, la scenetta di intrattenimento offerta da Pozzo e Lucky. Se la compresenza fra tendenza orizzontale e tendenza verticale, fra interazione e preghiera, fra trama e deus ex machina era stata un elemento fondamentale del teatro già dai tempi dei Greci, Beckett destruttura la loro intersezione facendo sì che nessuna delle due possa più dar senso all’altra.
Iniziamo da Dio. Di solito è una presenza muta e senza nome su quello che, nel romanzo Murphy (1938) aveva definito “l’escremento sublunare”. In Finale di partita (1957) Dio è appena percettibile, anzi diciamo che ci si accorge di lui solo per la sua disperata assenza nella devastazione simil-atomica che i protagonisti dichiarano di scorgere attorno alla loro scena. È una sorta di diluvio universale, non di acqua ma di nulla, e loro che sono i salvati (come il buon ladrone) si limitano ad aspettare che la vita finisca anche per loro. In Giorni Felici (1961) la protagonista Winnie prega ogni giorno, al mattino e alla sera, mostrando una tensione verso l’alto indubbiamente ammirevole in chi è interrata fino alla vita nel primo atto e fino al collo nel secondo. Nel radiodramma Parole e musica (1962), Dio può essere la voce impetuosa che dà ordini secchi su quello che di volta in volta vuol sentir dire o sentir suonare – tanto più che gli ascoltatori apprendono che il suo titolo è “Milord”. In Commedia (1964) Dio potrebbe essere la luce che investe capricciosamente i tre protagonisti di uno squallido dramma borghese, immobilizzati in delle anfore, consentendo a ciascuno di loro di raccontare a brandelli la propria versione dell’adulterio. Quando uno di loro è illuminato, parla; se non è illuminato, tace; se sono illuminati tutti insieme, le loro voci si sovrappongono fornendo allo spettatore un completo, benché confusionario, punto di vista divino. E chi credete che possa essere l’anonimo Auditore che resta pressoché immobile in Non io (1972) ad ascoltare il forsennato monologo della bocca senza volto?
Beckett affronta il problema-Dio nella maniera più diretta e, forse, tradizionale, con il radiodramma Tutti quelli che cadono, trasmesso dalla BBC nel 1957. Funziona così: un sabato pomeriggio la signora Rooney si avvia verso la stazione per recuperare suo marito, signor Rooney, un vecchietto dall’età mitologica che sta letteralmente andando in pezzi e conserva un astio inestinguibile nei confronti del mondo e della vita. Il suo treno giunge con un ritardo superiore ai dieci minuti, nonostante viaggi solitamente puntualissimo, e ciò lo rattrista fino al punto di chiedersi: “Hai mai avuto voglia di uccidere un bambino? (Pausa) Stroncare un disastro sul nascere”. Lui stesso è evidentemente il disastro e sua moglie, la corpulenta signora Rooney, è la triste parodia della protestante media. Alla fine del breve atto, tornando verso casa, Rooney chiede alla moglie quale sia il tema del sermone dell’indomani, e la signora Rooney gli risponde: “«Il Signore sorregge tutti quelli che cadono e rialza tutti quelli che sono piegati». (Silenzio. Scoppiano a ridere fragorosamente)”. Pochi minuti dopo verranno raggiunti dalla notizia che il treno ha ritardato perché “un bambino è caduto dal vagone, signora. (Pausa) Sulle rotaie, signora. (Pausa) Sotto le ruote, signora.”
L’assenza o la distanza di Dio è resa evidente dall’incongruità degli avvenimenti rispetto ai precetti e alle profezie. Paradossalmente, se Dio non ci fosse non se ne sentirebbe la mancanza. Il teatro dell’assurdo, Beckett in particolare, evidenzia queste incongruità; l’esempio migliore resta quello dell’interazione fra due esseri umani. Il dialogo fra i personaggi, nei primissimi drammi di Beckett fino alla sua ultima produzione, mantiene la costante di essere un continuo girare attorno al senso della trama, un imperterrito chiacchiericcio da sala d’attesa, un fuocherello che ora si autoalimenta ora si autoconsuma. Richieste e ordini di un personaggio all’altro vengono continuamente disattesi, o peggio vengono esauditi solo quando sono palesemente insensati o contraddittori – rispecchiando in questo la vacuità che Beckett riscontrava nelle preghiere rivolte a Dio. Ognuno è spalla di qualcun altro nello show della perdita di senso.
I drammi di Beckett sono pieni di coppie inscindibili. In Aspettando Godot, Vladimiro è il parlatore (francese “Didi”) ed Estragone il camminatore (inglese “Gogo”); Pozzo è il capitalista ottuso che tiene alla corda Lucky, l’intellettuale asservito e delirante. In Finale di Partita, Hamm è immobilizzato su una sedia a rotelle mentre Clov ha una malattia che gli impedisce di sedersi; dietro di loro, Nell e Nagg sono due vecchietti senza gambe collocati in due bidoni simmetrici rispetto al centro della scena. Ne L’ultimo nastro di Krapp, il vecchio Krapp muto ma presente in scena, che mangia una banana mentre ascolta un nastro registrato, fa il paio con il giovane Krapp assente dalla scena ma che parla dal nastro, promettendo di non mangiare più banane. In Giorni Felici, Winnie blatera dall’inizio alla fine mentre suo marito Willie sfoglia il giornale, ne legge ad alta voce qualche estratto di tanto in tanto (“Cercasi ragazzo volenteroso”) e tutt’al più è in grado di strisciare fino a lei, che viene progressivamente interrata man mano che il tempo, e il suo chiacchiericcio, passa. In Parole e Musica, Parole è un personaggio che parla e Musica è un personaggio che suona, in un mondo ideale in cui non c’è corporeità ma solamente onde audio (la radio). In Commedia i protagonisti sono tre, una coppia sposata e l’amante di lui, ma oltre a costituire di fatto due coppie (col maschio in comune) ciascuno di loro risponde a quello che ha appena finito di parlare. In Di’ Joe (1966) il vero protagonista è l’uomo “sulla cinquantina, capelli grigi, vestaglia, pantofole” o la voce femminile fuori campo che lo tormenta senza che lui pronunzi una parola? In Non io alla bocca che cicala corrisponde la sagoma immobile e misteriosa. In Dondolo (1983) una donna ondeggia su una sedia a dondolo mentre la sua voce registrata recita fuori campo una specie di filastrocca.
E una coppia sono, ovviamente, i due ladroni, che restano sullo sfondo di tutto questo (avranno maggior risalto nei romanzi di Beckett; e mi consentono anche di buttare lì, senza insistere più di tanto, l’idea blasfema che Beckett sia stato migliore come narratore che come drammaturgo) – e che col loro essere uno dannato e uno salvato, o forse entrambi dannati, o forse uno impetrante perdono e l’altro intento a insultare il Crocifisso, o forse propensi a insultarlo entrambi, sono la prima e più sacra rappresentazione dell’assurdità intrinseca dei rapporti umani sulla scala che affonda nell’odio e culmina nell’amore. Beckett li sintetizza nella scena d’amore fra i vecchi coniugi Nagg e Nell, in Finale di Partita:
Nagg picchia sul coperchio dell’altro bidone. Pausa. Picchia più forte. Il coperchio si alza, appaiono le mani di Nell, aggrappate al bordo, poi emerge la testa. Cuffia di pizzo. “Che volevi, cocco? (Pausa). È per scopare?” “Dormivi?” “Oh no!” “Bacetto.” “Non si può.” “Proviamo.” Le teste si protendono faticosamente l’una verso l’altra, non riescono a toccarsi, si scostano. “Perché questa commedia tutti i santi giorni?”
Perché, avrebbe potuto essere la risposta di Beckett, bisogna stare in compagnia per sentirsi veramente soli al mondo.
Sull’idea che Godot potesse essere Dio s’è scritto talmente tanto che forse è il caso di non scriverne più. Se Godot fosse Dio, Aspettando Godot (1952) non sarebbe più teatro dell’assurdo ma dramma à clef, in cui basta trovare una chiave di lettura e tutto miracolosamente va a posto secondo una mirabile logica intrinseca. Non lo è. Il teatro dell’assurdo, mi pare, va interpretato esclusivamente in base a quello che succede sul palcoscenico – ossia quello che il pubblico può vedere e sentire – e tutt’al più messo in relazione con altri drammi dello stesso autore, senza troppa convinzione perché la tentazione dell’interpretazione tracotante è sempre fin troppo in agguato.
Il dato di fatto è che in Aspettando Godot (1952) il leitmotiv sui due ladroni viene portato in scena quasi immediatamente, a pochi minuti dall’apertura del sipario. “Hai letto
Il dramma dei due ladroni attorno a Cristo, a vederlo con gli occhi di Beckett, è la prefigurazione evangelica del teatro dell’assurdo – il quale consta di una relazione di interdipendenza compulsiva fra i vari personaggi, unito a una continua benché vana tensione verso il fuori scena, il fuori dramma e, in definitiva, verso l’alto. Il teatro dell’assurdo, a cominciare da Aspettando Godot, può benissimo essere simboleggiato dalla croce, nella quale si intersecano un asse verticale – l’attesa nei confronti di Godot, il continuo scrutare oltre le quinte e in platea, il comico tentativo finale di impiccarsi al ramo di un albero – e un asse orizzontale – il chiacchiericcio continuo fra Vladimiro ed Estragone, il vagare di quest’ultimo da una quinta all’altra, la scenetta di intrattenimento offerta da Pozzo e Lucky. Se la compresenza fra tendenza orizzontale e tendenza verticale, fra interazione e preghiera, fra trama e deus ex machina era stata un elemento fondamentale del teatro già dai tempi dei Greci, Beckett destruttura la loro intersezione facendo sì che nessuna delle due possa più dar senso all’altra.
Iniziamo da Dio. Di solito è una presenza muta e senza nome su quello che, nel romanzo Murphy (1938) aveva definito “l’escremento sublunare”. In Finale di partita (1957) Dio è appena percettibile, anzi diciamo che ci si accorge di lui solo per la sua disperata assenza nella devastazione simil-atomica che i protagonisti dichiarano di scorgere attorno alla loro scena. È una sorta di diluvio universale, non di acqua ma di nulla, e loro che sono i salvati (come il buon ladrone) si limitano ad aspettare che la vita finisca anche per loro. In Giorni Felici (1961) la protagonista Winnie prega ogni giorno, al mattino e alla sera, mostrando una tensione verso l’alto indubbiamente ammirevole in chi è interrata fino alla vita nel primo atto e fino al collo nel secondo. Nel radiodramma Parole e musica (1962), Dio può essere la voce impetuosa che dà ordini secchi su quello che di volta in volta vuol sentir dire o sentir suonare – tanto più che gli ascoltatori apprendono che il suo titolo è “Milord”. In Commedia (1964) Dio potrebbe essere la luce che investe capricciosamente i tre protagonisti di uno squallido dramma borghese, immobilizzati in delle anfore, consentendo a ciascuno di loro di raccontare a brandelli la propria versione dell’adulterio. Quando uno di loro è illuminato, parla; se non è illuminato, tace; se sono illuminati tutti insieme, le loro voci si sovrappongono fornendo allo spettatore un completo, benché confusionario, punto di vista divino. E chi credete che possa essere l’anonimo Auditore che resta pressoché immobile in Non io (1972) ad ascoltare il forsennato monologo della bocca senza volto?
Beckett affronta il problema-Dio nella maniera più diretta e, forse, tradizionale, con il radiodramma Tutti quelli che cadono, trasmesso dalla BBC nel 1957. Funziona così: un sabato pomeriggio la signora Rooney si avvia verso la stazione per recuperare suo marito, signor Rooney, un vecchietto dall’età mitologica che sta letteralmente andando in pezzi e conserva un astio inestinguibile nei confronti del mondo e della vita. Il suo treno giunge con un ritardo superiore ai dieci minuti, nonostante viaggi solitamente puntualissimo, e ciò lo rattrista fino al punto di chiedersi: “Hai mai avuto voglia di uccidere un bambino? (Pausa) Stroncare un disastro sul nascere”. Lui stesso è evidentemente il disastro e sua moglie, la corpulenta signora Rooney, è la triste parodia della protestante media. Alla fine del breve atto, tornando verso casa, Rooney chiede alla moglie quale sia il tema del sermone dell’indomani, e la signora Rooney gli risponde: “«Il Signore sorregge tutti quelli che cadono e rialza tutti quelli che sono piegati». (Silenzio. Scoppiano a ridere fragorosamente)”. Pochi minuti dopo verranno raggiunti dalla notizia che il treno ha ritardato perché “un bambino è caduto dal vagone, signora. (Pausa) Sulle rotaie, signora. (Pausa) Sotto le ruote, signora.”
L’assenza o la distanza di Dio è resa evidente dall’incongruità degli avvenimenti rispetto ai precetti e alle profezie. Paradossalmente, se Dio non ci fosse non se ne sentirebbe la mancanza. Il teatro dell’assurdo, Beckett in particolare, evidenzia queste incongruità; l’esempio migliore resta quello dell’interazione fra due esseri umani. Il dialogo fra i personaggi, nei primissimi drammi di Beckett fino alla sua ultima produzione, mantiene la costante di essere un continuo girare attorno al senso della trama, un imperterrito chiacchiericcio da sala d’attesa, un fuocherello che ora si autoalimenta ora si autoconsuma. Richieste e ordini di un personaggio all’altro vengono continuamente disattesi, o peggio vengono esauditi solo quando sono palesemente insensati o contraddittori – rispecchiando in questo la vacuità che Beckett riscontrava nelle preghiere rivolte a Dio. Ognuno è spalla di qualcun altro nello show della perdita di senso.
I drammi di Beckett sono pieni di coppie inscindibili. In Aspettando Godot, Vladimiro è il parlatore (francese “Didi”) ed Estragone il camminatore (inglese “Gogo”); Pozzo è il capitalista ottuso che tiene alla corda Lucky, l’intellettuale asservito e delirante. In Finale di Partita, Hamm è immobilizzato su una sedia a rotelle mentre Clov ha una malattia che gli impedisce di sedersi; dietro di loro, Nell e Nagg sono due vecchietti senza gambe collocati in due bidoni simmetrici rispetto al centro della scena. Ne L’ultimo nastro di Krapp, il vecchio Krapp muto ma presente in scena, che mangia una banana mentre ascolta un nastro registrato, fa il paio con il giovane Krapp assente dalla scena ma che parla dal nastro, promettendo di non mangiare più banane. In Giorni Felici, Winnie blatera dall’inizio alla fine mentre suo marito Willie sfoglia il giornale, ne legge ad alta voce qualche estratto di tanto in tanto (“Cercasi ragazzo volenteroso”) e tutt’al più è in grado di strisciare fino a lei, che viene progressivamente interrata man mano che il tempo, e il suo chiacchiericcio, passa. In Parole e Musica, Parole è un personaggio che parla e Musica è un personaggio che suona, in un mondo ideale in cui non c’è corporeità ma solamente onde audio (la radio). In Commedia i protagonisti sono tre, una coppia sposata e l’amante di lui, ma oltre a costituire di fatto due coppie (col maschio in comune) ciascuno di loro risponde a quello che ha appena finito di parlare. In Di’ Joe (1966) il vero protagonista è l’uomo “sulla cinquantina, capelli grigi, vestaglia, pantofole” o la voce femminile fuori campo che lo tormenta senza che lui pronunzi una parola? In Non io alla bocca che cicala corrisponde la sagoma immobile e misteriosa. In Dondolo (1983) una donna ondeggia su una sedia a dondolo mentre la sua voce registrata recita fuori campo una specie di filastrocca.
E una coppia sono, ovviamente, i due ladroni, che restano sullo sfondo di tutto questo (avranno maggior risalto nei romanzi di Beckett; e mi consentono anche di buttare lì, senza insistere più di tanto, l’idea blasfema che Beckett sia stato migliore come narratore che come drammaturgo) – e che col loro essere uno dannato e uno salvato, o forse entrambi dannati, o forse uno impetrante perdono e l’altro intento a insultare il Crocifisso, o forse propensi a insultarlo entrambi, sono la prima e più sacra rappresentazione dell’assurdità intrinseca dei rapporti umani sulla scala che affonda nell’odio e culmina nell’amore. Beckett li sintetizza nella scena d’amore fra i vecchi coniugi Nagg e Nell, in Finale di Partita:
Nagg picchia sul coperchio dell’altro bidone. Pausa. Picchia più forte. Il coperchio si alza, appaiono le mani di Nell, aggrappate al bordo, poi emerge la testa. Cuffia di pizzo. “Che volevi, cocco? (Pausa). È per scopare?” “Dormivi?” “Oh no!” “Bacetto.” “Non si può.” “Proviamo.” Le teste si protendono faticosamente l’una verso l’altra, non riescono a toccarsi, si scostano. “Perché questa commedia tutti i santi giorni?”
Perché, avrebbe potuto essere la risposta di Beckett, bisogna stare in compagnia per sentirsi veramente soli al mondo.
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