martedì 3 marzo 2009

La doppia biografia di Feldman

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Il protagonista, la ragion d’essere, il grande uomo del titolo dell’ultimo romanzo di Kate Christensen in realtà non appare mai. È sulla scena, e neppure del tutto, solo all’inizio, ossia quando la Christensen riproduce (anche graficamente) il necrologio di Oscar Feldman, “influente pittore figurativo” morto a New York nel 2001, e alla fine, quando appaiono contemporaneamente e vengono recensite non una ma due biografie dello stesso Feldman: una intitolata col suo nome e l’altra, più cinicamente “Un occhio per le donne”.

Il titolo della seconda biografia riassume icasticamente l’attività di Feldman lungo i suoi 78 anni di vita: guardare le donne, poi (ai tempi del college) fotografarle ossessivamente e, infine, dipingerle nel corso della sua lunghissima carriera di pittore, quale uno degli ultimi baluardi del figurativismo a fronte dell’avanzante astrattismo dei Kandinskij e dei Pollock, nonché della sua stessa sorella Maxine. La sequela interminabile di ritratti – tutte donne, tutte nude – è la traduzione in pratica della poetica che Feldman stesso riassume in una frase riportata nel suo necrologio: “il corpo femminile è l’espressione ultima della verità e della bellezza”.

Lo stesso Feldman, si apprenderà nel corso del romanzo, era capace di comprendere i più nascosti recessi della psiche di ciascuna donna al solo atto di leggerle – non già la mano ma un’altra parte del corpo ben più riposta, che tuttavia lui, dipingendo esclusivamente dei nudi, può guardare in abbondanza. Ulteriore fascino è aggiunto alla sua figura dalla notizia che non solo è andato a letto con pressoché tutte le modelle che hanno messo piede nel suo atelier, compresa una signorina ancora vergine che desiderava farsi monaca, ma che è riuscito a mantenere in fervida salute una sostanziale bigamia: da un lato la moglie Abigail col figlio Ethan, autistico; e dall’altro l’amante Teddy, con due gemelle che hanno ereditato buona parte dell’appeal del loro padre naturale.

Kate Christensen mostra talento e arguzia nel narrare la storia di Oscar Feldman non in presa diretta ma mediante un doppio intermediario: Henry Burke e Ralph Washington, ossia i due autori di seconda schiera che scrivono, per due case editrici rivali, ciascuno la propria biografia di Feldman. Né viene mostrata una sola pagina di queste biografie, a parte alcune brevi citazioni nella recensione finale, ma le interviste e i colloqui più o meno confidenziali di Burke e Washington con le tante donne che hanno contornato l’esistenza e la produzione ossessivo-compulsiva di Feldman: la moglie, l’amante, le figlie, le innamorate deluse, la sorella umiliata.

Non sembra un caso che l’unico altro uomo che abbia a che fare con Feldman, il figlio Ethan, sia autistico per quanto bellissimo – come se fosse stato egli stesso tramortito dal fascino onnivoro del padre, e abbia dichiarato forfait per manifesta incapacità di stargli al passo. E le varie donne, che lo hanno amato per decenni accettandone con serena consapevolezza i tradimenti, sono ancora tutte piene di lui, della sua vitalità e delle sue parole. E, chi più chi meno, lo amano ancora.

Kate Christensen spiega fra le righe il motivo di tanto amore per un uomo in fin dei conti spregevole. Ritraendo corpi nudi, Feldman ha eternato una condizione momentanea destinata a un rapido disfacimento. Il maggior pregio de Il grande uomo è la vivida e vibrante descrizione del corpo femminile invecchiato. Le donne di Feldman, effettive protagoniste di un romanzo che non parla di loro, hanno abbondantemente passato la settantina ma si rifiutano pervicacemente di vivere con lo sguardo rivolte al passato, sicure e felici di essere state cristallizzate nel momento più fiorente dalla pittura di Feldman o dal suo sguardo fotografico. Essere note come le donne di Feldman le pone al di sopra del tempo, della sua stessa morte e – forse – anche della propria.

È curioso come nello stesso anno siano stati tradotti in Italia due romanzi anglofoni che riportano in esergo la stessa citazione da Philip Larkin (“Forse esser vecchi vuol dire avere stanze illuminate / nella testa”): questo di Kate Christensen e, appunto, Le stanze illuminate di Richard Mason. Entrambi descrivono la vecchiaia con ottimo trasporto e penna sensibile. Ma se Mason si è concentrato maggiormente sui procedimenti interni al cervello degli anziani, in questo restando più fedele alla lettera della citazione da Larkin, Kate Christensen ha voluto puntare maggiormente sugli effetti esteriori dell’invecchiamento, rispecchiando in questo la nota attenzione di Larkin nei confronti della “datità”, quasi della brutalità del rapporto di ciascuno col fisico proprio e altrui. La scena in cui descrive l’improvviso e imprevisto accoppiamento fra due vecchi amici – con la scoperta dei peli grigi, la pelle cascante, l’erezione sufficiente a mala pena – raggiunge vertici di partecipata tenerezza piuttosto rari a trovarsi nella descrizione delle scene di sesso (forse paragonabile solo alla tardiva perdita della verginità del protagonista di Notizie dal paradiso di David Lodge).

Inoltre, la Christensen mostra di aver appreso bene la lezione di Philip Roth: innanzitutto nella fraseologia e più in generale nell’atteggiamento entusiastico e contorto di fronte alla sessualità, ben sintetizzato dal sermoncino di Feldman sul sesso femminile – a leggerlo con attenzione, parrebbe anzi proprio un pastiche rothiano: “Posso dirti tutto di una donna guardandole la fica. Potrei mettermi a fare il lettore di fiche in un luna park e guadagnare un sacco di soldi”. Roth sembra essere presente anche in passi più delicati, ad esempio nella chiosa della prima parte de Il grande uomo, che si mette sulle tracce del finale di Ho sposato un comunista per la ricerca di un mirabile equilibrio fra detto e non detto, fattore fisico e fattore cerebrale: “Nessuno dei due sapeva come comunicare all’altro quest’assoluta mancanza di attrazione, così si limitarono a stare seduti, senza guardarsi, in un silenzio reso più imbarazzante dal fatto che seguiva la scia di un torrente di parole accese dal vino, finché Teddy fece ritorno con la caffettiera e due tazze e si mise prosaicamente a versare il caffè, come se non avesse sentito ogni singola parola di quello che i due si erano detti”.

Questo è indubbiamente riuscito a Kate Christensen: fornire una gradevole ma veritiera epopea del corpo, in arte e nella vita, coi suoi corrucciamenti e le sue inevitabili ossessioni. A fronte di un’ottima soluzione tecnica, ovvero la scelta di narrare la vita di Feldman in base a ciò che le sue donne decidono di dire (e di non dire) ai due antitetici biografi, la trama risulta un po’ forzata, specialmente nel momento in cui dovrebbe arrivare, come da manuale di narrazione, la cosiddetta crisi dei personaggi: la scoperta che uno dei più celebri quadri di Feldman è in realtà opera della sorella fa più o meno lo stesso effetto di una cannonata a salve. Forse la Christensen avrebbe fatto meglio ad abbandonare del tutto la trama romanzesca, il plot vero e proprio, per calcare maggiormente la satira di costume sugli ambienti intellettuali di una New York in decadenza, ponendola in stridente contrasto con le toccanti – e molto ben tratteggiate – interiorità delle donne di Feldman, messe definitivamente a nudo dalla penna dell’autrice.

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