“Le lettere che mi arrivano, io le leggo sempre attraverso lo stile ancora prima del contenuto”, scriveva Goffredo Parise alle prime uscite della rubrica domenicale di posta coi lettori che tenne sul Corriere della Sera fra il 1974 e il ’75, direttore Piero Ottone; “perché lo stile”, spiegava, “previene, annuncia il contenuto”. Più di tutte lo aveva colpito la lettera di un operaio, priva di errori di grammatica ma scritta in stampatello: di recente alfabetizzazione, l’autore non aveva imparato il corsivo. Forse in riguardo agli sforzi di quest’operaio, ancora sei mesi dopo, Parise rispondeva ai “lettori snob” che gli rimproveravano il dialogo “con gli altri lettori, con la massa anonima” dicendo che per un autore di risaputa difficoltà era un vanto poter “stabilire un tu per tu con i lettori anonimi, quelli che salgono e scendono dagli autobus”; un modo per ricordarsi che “teoricamente ogni persona che sappia leggere deve capire quello che scrivo”. Dalle lettere che riceveva l’Italia gli appariva non “un paese decrepito dominato da opposte schiere di don Abbondi” bensì perfino “giovanissimo e perfino esotico, da illuministi”. Spinto al vagheggiamento si lasciava andare a dichiarazioni inusitate – era il tempo, sul Corriere stesso, del Pasolini luterano – come ad esempio: “Essendo uno scrittore italiano amo il mio paese e anche la mia lingua”. Il suo paese era “l’Italia molto bella dei più, non il meschinissimo paese dei meno”.
Eppure sin dalla prima delle lettere appena antologizzate in Dobbiamo disobbedire (Adelphi) traspare un controcanto che oggi suona di stretta attualità. “Ci sono anche gli stupidi”, ammette, “i moralisti, gli svitati, i maniaci e i prolissi”. Nonché quelli di destra che lo rimproverano di essere di sinistra e quelli di sinistra che motteggiano con superiorità “evidentemente lei non è marxista”; il singolo cittadino che dichiara a titolo collettivo che “il cittadino non ne può più” e che non vorrebbe più comprare i giornali a cui spedisce lettere incessanti; la matricola di filosofia che ha capito tutto sulla decrescita felice e ciancia del “limite di sviluppo”; il liceale urbinate al quale “piacerebbe, per ragioni di sicurezza professionale, fare carriera politica, essendo incerte tutte le professioni, coi tempi che corrono”; l’insegnante che non ancora ebbro di Fabio Fazio si chiede se “la vera fonte di cultura per la maggioranza dei ragazzi italiani” sia ancora la scuola o non forse la tv e vuole sapere quali libri far obbligatoriamente leggere ai figli; il grillino ante litteram secondo il quale “gli uomini politici non dovrebbero apparire in televisione; essi rappresentano o dovrebbero rappresentare delle idee, dei programmi e questi non hanno un volto”. A tutti Parise ribatte finché, nel marzo ’75, confessa “che i lettori che mi scrivono, se sono molti ogni settimana, di collaborazione non ne danno alcuna”: lo lodano o lo criticano con sproloqui impubblicabili, “i ricchi ce l’hanno coi poveri, i poveri coi ricchi”, tutto è un “confuso tafferuglio”. Di quando in quando la rubrica salta una domenica “perché il mio sentimento e la mia ragione non sono sollecitati in nessun modo dai lettori”, nelle cui lettere riscontra “una venatura di piccolezza, di meschinità, e certe volte di bassezza”. In esse Parise vede realizzarsi una sua profezia: “L’Italia non vuole più essere l’Italia. Gli italiani non vogliono più essere italiani”. Rileggendole oggi scopriamo che gli italiani sono ancora gli stessi, e forse da sempre: non l’hanno mai voluto. Sopraffatta, la rubrica sparisce improvvisamente com’era venuta e abbandona noi posteri al paese dei meno.